Orlando innamorato - Libro I/Canto I

Canto I

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Orlando innamorato - Libro I Canto II
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ORLANDO INNAMORATO


[El primo libro de Orlando Inamorato [en] el quale1 se contiene le diverse aventure e le cagione di esso inamoramento, tradutto da la verace cronica de Turpino, Arcivescovo remense, per il magnifico conte Mateo Maria Bojardo, conte de Scandiano.

A lo illustrissimo signor Ercule, duca de Ferrara.]



CANTO PRIMO


       Signori e cavallier che ve adunati
     Per odir cose dilettose e nove,
     Stati attenti e quïeti, ed ascoltati
     La bella istoria che ’l mio canto muove;
     E vedereti2 i gesti smisurati,
     L’alta fatica e le mirabil prove
     Che fece il franco Orlando per amore
     Nel tempo del re Carlo imperatore.

       Non vi par già, signor, meraviglioso3
     Odir cantar4 de Orlando inamorato,
     Chè qualunche nel mondo è più orgoglioso,
     È da Amor vinto, al tutto subiugato5;
     Nè forte braccio, nè ardire animoso,
     Nè scudo o maglia, nè brando affilato,
     Nè altra possanza può mai far diffesa,
     Che al fin non sia da Amor battuta e presa.

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       Questa novella è nota a poca gente,
     Perchè Turpino istesso la nascose,
     Credendo forse6 a quel conte valente
     Esser le sue scritture dispettose,
     Poi che contra ad Amor pur fu perdente
     Colui che vinse tutte l’altre cose:
     Dico di Orlando, il cavalliero adatto.
     Non più parole ormai, veniamo al fatto.

       La vera istoria di Turpin ragiona
     Che regnava in la terra de Orïente,
     Di là da l’India, un gran re di corona,
     Di stato e de ricchezze sì potente,
     E sì gagliardo de la sua persona,
     Che tutto il mondo stimava nïente:
     Gradasso nome avea quello amirante,
     Che ha cor di drago e membra7 di gigante.

       E sì come egli adviene a’ gran signori,
     Che pur quel voglion che non ponno avere,
     E, quanto son difficultà maggiori
     La desiata cosa ad ottenere,
     Pongono il regno spesso in grandi errori,
     Nè posson quel che voglion possedere;
     Così bramava quel pagan gagliardo
     Sol Durindana e ’l bon destrier Bajardo.

       Unde per tutto il suo gran tenitoro8
     Fece la gente ne l’arme asembrare,
     Chè ben sapeva lui che per9 tesoro
     Nè il brando, nè il corsier puote10 acquistare;
     Duo mercadanti erano11 coloro
     Che vendean le sue merce troppo care:
     Però destina di passare in Franza,
     Et acquistarle con sua gran possanza.

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       Cento cinquanta millia cavallieri
     Elesse di sua gente tutta quanta;
     Nè questi adoperar facea pensieri,
     Perchè lui solo a combatter se avanta
     Contra al re12 Carlo et a tutti guerreri
     Che son credenti in nostra fede santa;
     E lui13 soletto vincere e disfare
     Quanto il sol vede e quanto cinge il mare.

       Lassiam costoro che a vella se ne vano,14
     Che sentirete poi ben la sua gionta;
     E ritornamo in Francia a Carlo Mano,
     Che e’ soi magni15 baron provede e conta;
     Imperò che ogni principe cristiano,
     Ogni duca e signore a lui16 se afronta
     Per una giostra che aveva ordinata
     Allor17 di maggio, alla pasqua rosata.

       Erano in corte tutti i paladini
     Per onorar quella festa gradita,
     E da ogni parte, da tutti18 i confini
     Era in Parigi19 una gente infinita.
     Eranvi20 ancora molti Saracini,
     Perchè corte reale era bandita,
     Ed era ciascaduno assigurato,
     Che non sia traditore o rinegato.

       Per questo era di Spagna molta gente
     Venuta quivi con soi baron magni:
     Il re Grandonio, faccia di serpente,
     E Feraguto da gli occhi griffagni;
     Re Balugante, di Carlo parente,
     Isolier, Serpentin, che fôr compagni.
     Altri vi forno assai di grande afare,
     Come alla giostra poi ve avrò a contare.

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       Parigi risuonava de instromenti,
     Di trombe, di tamburi e di campane;
     Vedeansi i gran destrier con paramenti,
     Con foggie disusate, altiere e strane;
     E d’oro e zoie tanti adornamenti,
     Che nol potrian contar le voci21 umane;
     Però che per gradir lo imperatore
     Ciascuno oltra al poter si fece onore.

       Già se apressava quel giorno nel quale
     Si dovea la gran giostra incominciare,
     Quando il re Carlo in abito reale
     Alla sua mensa fece convitare
     Ciascun signore e baron naturale,
     Che venner la sua festa ad onorare;
     E fôrno in quel convito li assettati
     Vintiduo millia e trenta annumerati.

       Re Carlo Magno con faccia ioconda
     Sopra una sedia d’ôr tra’ paladini
     Se fu posato alla mensa ritonda:
     Alla sua fronte fôrno e' Saracini,
     Che non volsero usar banco, nè sponda,
     Anzi sterno a giacer come mastini
     Sopra a tapeti, come è lor usanza,
     Sprezando sieco il costume di Franza.

       A destra et a sinistra poi ordinate
     Fôrno le mense, come il libro pone:
     Alla prima le teste coronate,
     Uno Anglese, un Lombardo ed un Bertone,
     Molto nomati in la Cristianitate,
     Otone e Desiderio e Salamone;
     E li altri presso a lor di mano in mano,
     Secondo il pregio d’ogni re cristiano.

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       Alla seconda fôr duci e marchesi,
     E ne la terza conti e cavalieri.
     Molto fôrno onorati e' Magancesi,
     E sopra a tutti Gaino di Pontieri.
     Rainaldo avea di foco gli occhi accesi,
     Perchè quei traditori, in atto altieri,
     L’avean tra lor ridendo assai beffato,
     Perchè non era come essi adobato.

       Pur nascose nel petto i pensier caldi,
     Mostrando nella vista allegra fazza22;
     Ma fra sè stesso diceva: Ribaldi,
     S’io vi ritrovo doman su la piazza22,
     Vedrò come stareti in sella saldi,
     Gente asinina, maledetta razza22:
     Che tutti quanti, se ’l mio cor non erra,
     Spero giettarvi alla giostra per terra.

       Re Balugante, che in viso il guardava,
     E divinava quasi i suo23 pensieri,
     Per un suo trucimano24 il domandava,
     Se nella corte di questo imperieri,
     Per robba, o per virtute se onorava:
     Acciò che lui, che quivi è forestieri,
     E de’ costumi de’ Cristian digiuno,
     Sapia lo onor suo render a ciascuno.

       Rise Rainaldo, e con benigno aspetto
     Al messagier diceva: Raportate
     A Balugante, poi che egli ha diletto
     De aver le gente cristiane onorate,
     Ch’e’ giotti a mensa e le puttane in letto
     Sono tra noi più volte acarezate;
     Ma dove poi conviene usar valore,
     Dasse a ciascun il suo debito onore.

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       Mentre che stanno in tal parlar costoro,
     Sonarno li instrumenti da ogni banda;
     Et ecco piatti grandissimi d’oro,
     Coperti de finissima vivanda;
     Coppe di smalto, con sotil lavoro,
     Lo imperatore a ciascun baron manda.
     Chi de una cosa e chi d’altra onorava,
     Mostrando che di lor si racordava.

       Quivi si stava con molta allegrezza,
     Con parlar basso e bei ragionamenti:
     Re Carlo, che si vidde25 in tanta altezza,
     Tanti re, duci e cavalier valenti,
     Tutta la gente pagana disprezza,
     Come arena del mar denanti a i venti;
     Ma nova cosa che ebbe ad apparire,
     Fe’26 lui con gli altri insieme sbigotire.

       Però che in capo della sala bella
     Quattro giganti grandissimi e fieri
     Intrarno, e lor nel mezo una donzella,
     Che era seguita da un sol cavallieri.
     Essa27 sembrava matutina stella
     E giglio d’oro e rosa de verzieri:
     In somma, a dir di lei la veritate,
     Non fu veduta mai tanta beltate.

       Era qui nella sala Galerana,
     Et eravi Alda, la moglie de Orlando,
     Clarice et Ermelina tanto umana,
     Et altre assai, che nel mio dir non spando,
     Bella ciascuna e di virtù28 fontana.
     Dico, bella parea ciascuna, quando
     Non era giunto in sala ancor quel fiore,
     Che a l’altre di beltà tolse l’onore.

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       Ogni barone e principe cristiano
     In quella parte ha rivoltato il viso,
     Nè rimase a giacere alcun pagano;
     Ma ciascun de essi, de stupor conquiso,
     Si fece a la donzella proximano;
     La qual, con vista allegra et con un riso
     Da far inamorare un cor di sasso,
     Incominciò così29, parlando basso:

       — Magnanimo segnor, le tue virtute,
     E le prodezze de’ toi Paladini,
     Che sono in terra tanto cognosciute,
     Quanto distende il mare e’ soi confini,
     Mi dan speranza che non sian perdute
     Le gran fatiche de duo peregrini,
     Che son venuti dalla fin del mondo
     Per onorare il tuo stato giocondo.

       Ed acciò ch’io ti faccia manifesta,
     Con breve ragionar, quella cagione
     Che ce ha condotti alla tua real festa,
     Dico che questo è Uberto dal Leone,
     Di gentil stirpe nato e d’alta gesta,
     Cacciato del30 suo regno oltra ragione:
     Io, che con lui insieme fui cacciata,
     Son sua sorella, Angelica nomata.

       Sopra alla Tana ducento giornate,
     Dove reggemo il nostro tenitoro31,
     Ce fôr di te le novelle aportate,
     E della giostra e del gran concistoro
     Di queste nobil gente qui32 adunate;
     E come nè città, gemme o tesoro
     Son premio de virtute33, ma si dona
     Al vincitor di rose una corona.

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       Per tanto ha il mio fratel deliberato,
     Per sua virtute quivi dimostrare,
     Dove il fior de’ baroni è radunato,
     Ad uno ad un per giostra contrastare:
     O voglia esser pagano o baptizato,
     Fuor de la terra lo venga a trovare,
     Nel verde prato alla Fonte del Pino,
     Dove se dice al Petron di Merlino.

       Ma fia questo con tal condizïone
     (Colui l’ascolti che si vol provare):
     Ciascun che sia abattuto de lo arcione,
     Non possa in altra forma repugnare,
     E senza più contesa sia pregione;
     Ma chi potesse Uberto scavalcare,
     Colui guadagni la persona mia:
     Esso andarà con suoi giganti via. -

       Al fin delle parole ingenocchiata
     Davanti a Carlo attendia risposta.
     Ogni om per meraviglia l’ha mirata,
     Ma sopra tutti Orlando a lei s’accosta
     Col cor tremante e con vista cangiata,
     Benchè la voluntà tenìa nascosta;
     E talor gli occhi alla terra bassava,
     Chè di se stesso assai si vergognava.

       Ahi paccio Orlando! nel suo cor dicia
     Come te lasci a voglia trasportare!
     Non vedi tu lo error che te desvia,
     E tanto contra a Dio te fa fallare?
     Dove mi mena la fortuna mia?
     Vedome preso e non mi posso aitare;
     Io, che stimavo tutto il mondo nulla,
     Senza arme vinto son da una fanciulla.

1. MI. e Mr. il mio fratello ha delib[é]rato. P. il mio fratello ha delibr. — 2. Mr. vertute. — 3. P. Dov' è il f. dei b. r. — 9. P. questo fia. — 16. P. Esso

ne vadi e i. — 18. P. attendea la. [p. 11 modifica]

       Io non mi posso dal cor dipartire
     La dolce vista del viso sereno,
     Perch’io mi sento senza lei morire,
     E il spirto a poco a poco venir meno.
     Or non mi val la forza, nè lo ardire
     Contra d’Amor, che m’ha già posto il freno;
     Nè mi giova saper, nè altrui consiglio,
     Ch’io vedo il meglio ed al peggior m’appiglio.

       Così tacitamente il baron franco
     Si lamentava del novello amore.
     Ma il duca Naimo, ch’è canuto e bianco,
     Non avea già de lui men pena al core,
     Anzi tremava sbigotito e stanco,
     Avendo perso in volto ogni colore.
     Ma a che dir più parole? Ogni barone
     Di lei si accese, ed anco il re Carlone.

       Stava ciascuno immoto e sbigotito,
     Mirando quella con sommo diletto;
     Ma Feraguto, il giovenetto ardito,
     Sembrava vampa viva nello aspetto:
     E ben tre volte prese per partito
     Di torla a quei giganti al suo dispetto;
     E tre volte afrenò quel mal pensieri
     Per non far tal vergogna allo imperieri.

       Or su l’un piede, or su l’altro se muta,
     Grattasi ’l capo e non ritrova loco;
     Rainaldo, che ancor lui l’ebbe veduta,
     Divenne in faccia rosso come un foco;
     E Malagise, che l’ha cognosciuta,
     Dicea pian piano: "Io ti farò tal gioco,
     Ribalda incantatrice, che giamai
     De esser qui stata non te vantarai."

5. MI., Mr. e P. vale forza. — 8. P. Il meglio veggio. — 22. MI. o Mr. tuorla. — 26. T., MI. o Mr. Grattassi. — 28. MI. e Mr. Divene. [p. 12 modifica]

       Re Carlo Magno con lungo parlare
     Fe’ la risposta a quella damigella,
     Per poter seco molto dimorare.
     Mira parlando e mirando favella,
     Nè cosa alcuna le puote negare,
     Ma ciascuna domanda li suggella,
     Giurando de servarle in su le carte:
     Lei coi giganti e col fratel si parte.

       Non era ancor della citade uscita,
     Che Malagise prese il suo quaderno:
     Per saper questa cosa ben compita
     Quattro demonii trasse dello Inferno.
     Oh quanto fu sua mente sbigotita!
     Quanto turbosse, Iddio del celo eterno!
     Poi che cognobbe quasi alla scoperta
     Re Carlo morto e sua corte deserta.

       Però che quella che ha tanta beltade,
     Era figliola del re Galifrone,
     Piena de inganni e de ogni falsitade,
     E sapea tutte le incantazïone.
     Era venuta alle nostre contrade,
     Chè mandata l’avea quel mal vecchione
     Col figliol suo, ch’avea nome Argalìa,
     E non Uberto, come ella dicìa.

       Al giovenetto avea dato un destrieri
     Negro quanto un carbon quando egli è spento,
     Tanto nel corso veloce e leggieri,
     Che già più volte avea passato il vento;
     Scudo, corazza ed elmo col cimieri,
     E spada fatta per incantamento;
     Ma sopra a tutto una lancia dorata,
     D’alta ricchezza e pregio fabricata.

1. MI. e Mr. longo. — 5. MI. e Mr. li pote. — 8. T. e Mr. col gigante. P. Ella e i g. col fr. — 14. MI., Mr. e P. del ciel. — 20. MI. Balaphrone.

Mr. Galaphrone. — 24, Mr. come el ella. — 28. P. Che più volte passato aveva. [p. 13 modifica]

       Or con queste arme il suo patre il mandò,
     Stimando che per quelle il sia invincibile,
     Ed oltra a questo uno anel li donò
     Di una virtù grandissima, incredibile,
     Avengachè costui non lo adoprò;
     Ma sua virtù facea l’omo invisibile,
     Se al manco lato in bocca se portava:
     Portato in dito, ogni incanto guastava.

       Ma sopra a tutto Angelica polita
     Volse che seco in compagnia ne andasse,
     Perchè quel viso, che ad amare invita,
     Tutti i baroni alla giostra tirasse;
     E poi che per incanto alla finita
     Ogni preso barone a lui portasse:
     Tutti legati li vol nelle mane
     Re Galifrone, il maledetto cane.

       Così a Malagise il dimon dicia,
     E tutto il fatto gli avea rivelato.
     Lasciamo lui: torniamo a l’Argalia,
     Che al Petron di Merlino era arivato.
     Un pavaglion sul prato distendia,
     Troppo mirabilmente lavorato;
     E sotto a quello se pose a dormire,
     Chè di posarse avea molto desire.

       Angelica, non troppo a lui lontana,
     La bionda testa in su l’erba posava,
     Sotto il gran pino, a lato alla fontana:
     Quattro giganti sempre la guardava.
     Dormendo, non parea già cosa umana,
     Ma ad angelo del cel rasomigliava.
     Lo annel del suo germano aveva in dito,
     Della virtù che sopra aveti odito.

4. MI. e Mr. vertù, e cosi al v. 6 e 82. — 7. P. lo portava. — 17. MI. Ciò... dimonio. P. Si a M: il Demonio. — 21. MI. e P. padiglion. Mr. pavilion. - 29. MI. e Mr. paria.

JUh [p. 14 modifica]

       Or Malagise, dal demon portato,
     Tacitamente per l’aria veniva;
     Ed ecco la fanciulla ebbe mirato
     Giacer distesa alla fiorita riva;
     E quei quattro giganti, ogniuno armato,
     Guardano intorno e già nïun dormiva.
     Malagise dicea: Brutta canaglia,
     Tutti vi pigliarò senza battaglia.

       Non vi valeran mazze, nè catene,
     Nè vostri dardi, nè le spade torte;
     Tutti dormendo sentirete pene,
     Come castron balordi avreti morte.
     Così dicendo, più non si ritiene:
     Piglia il libretto e gietta le sue sorte,
     Nè ancora aveva il primo foglio vòlto,
     Che già ciascun nel sonno era sepolto.

       Esso dapoi se accosta alla donzella
     E pianamente tira for la spada,
     E veggendola in viso tanto bella,
     Di ferirla nel collo indugia e bada.
     L’animo volta in questa parte e in quella,
     E poi disse: Così convien che vada:
     Io la farò per incanto dormire,
     E pigliarò con seco il mio desire.

       Pose tra l’erba giù la spada nuda,
     Ed ha pigliato il suo libretto in mano;
     Tutto lo legge, prima che lo chiuda.
     Ma che li vale? Ogni suo incanto è vano,
     Per la potenzia dello annel sì cruda.
     Malagise ben crede per certano
     Che non si possa senza lui svegliare,
     E cominciolla stretta ad abbracciare.

6. T., MI. e Mr. già non dorm. ; P. e di nulla dorm. — 9. P. Non valeran nè m. — 16. MI. e Mr. E già. — 24. P. Sieco pigliando tutto. [p. 15 modifica]

       La damisella un gran crido mettia:
     Tapina me, ch’io sono abandonata!
     Ben Malagise alquanto sbigotia,
     Veggiendo che non era adormentata.
     Essa, chiamando il fratello Argalia,
     Lo tenìa stretto in braccio tutta fiata;
     Argalia sonacchioso se sveglione,
     E disarmato uscì del pavaglione.

       Subitamente che egli ebbe veduto
     Con la sorella quel cristian gradito,
     Per novità gli fu il cor sì caduto,
     Che non fu de appressarse a loro ardito.
     Ma poi che alquanto in sè fu rivenuto,
     Con un troncon di pin l’ebbe assalito,
     Gridando: Tu sei morto, traditore,
     Che a mia sorella fai tal disonore.

       Essa gridava: Legalo, germano,
     Prima ch’io il lasci, che egli è nigromante;
     Chè, se non fosse l’annel che aggio in mano,
     Non son tue forze a pigliarlo bastante.
     Per questo il giovenetto a mano a mano
     Corse dove dormiva un gran gigante,
     Per volerlo svegliar; ma non potea,
     Tanto lo incanto sconfitto il tenea.

       Di qua, di là, quanto più può il dimena;
     Ma poi che vede che indarno procaccia,
     Dal suo bastone ispicca una catena,
     E de tornare indrieto presto spaccia;
     E con molta fatica e con gran pena
     A Malagise lega ambe le braccia,
     E poi le gambe e poi le spalle e il collo:
     Da capo a piede tutto incatenollo.

6. P. Tenialo. — 8. MI. e Mr. paviglione. — 23. P. poterlo. MI. e P. nol. - BO. P. legò. — 32. T., MI. e P. piedi. [p. 16 modifica]

       Come lo vide ben esser legato,
     Quella fanciulla li cercava in seno;
     Presto ritrova il libro consecrato,
     Di cerchi e de demonij tutto pieno.
     Incontinenti l’ebbe diserrato;
     E nello aprir, nè in più tempo, nè in meno,
     Fu pien de spirti e celo e terra e mare,
     Tutti gridando: Che vôi comandare?

       Ella rispose: Io voglio che portate
     Tra l’India e Tartaria questo prigione,
     Dentro al Cataio, in quella gran citate,
     Ove regna il mio padre Galafrone;
     Dalla mia parte ce lo presentate,
     Chè di sua presa io son stata cagione,
     Dicendo a lui che, poi che questo è preso,
     Tutti gli altri baron non curo un ceso.

       Al fin delle parole, o in quello instante,
     Fu Malagise per l’aere portato,
     E, presentato a Galafrone avante,
     Sotto il mar, dentro a un scoglio, impregionato.
     Angelica col libro a ogni gigante
     Discaccia il sonno ed ha ciascun svegliato.
     Ogn’om strengie la bocca ed alcia il ciglio,
     Forte ammirando il passato periglio.

       Mentre che qua fôr fatte queste cose,
     Dentro a Parigi fu molta tenzone,
     Però che Orlando al tutto se dispose
     Essere in giostra il primo campïone;
     Ma Carlo imperatore a lui rispose
     Che non voleva e non era ragione;
     E gli altri ancora, perchè ogni om se estima,
     A quella giostra volean gire in prima.

9. P. portiate — 13. P. presentiate. — 14. T., MI. e Mr. stato. — 18. P. l'aria. [p. 17 modifica]

       Orlando grandemente avea temuto
     Che altrui non abbia la donna acquistata,
     Perchè, come il fratello era abattuto,
     Doveva al vincitore esser donata.
     Lui de vittoria sta sicuro e tuto,
     E già li pare averla guadagnata;
     Ma troppo gli rencresce lo aspettare,
     Chè ad uno amante una ora uno anno pare.

       Fu questa cosa nella real corte
     Tra il general consiglio examinata;
     Ed avendo ciascun sue ragion pòrte,
     Fu statuita al fine e terminata,
     Che la vicenda se ponesse a sorte;
     Ed a cui la ventura sia mandata
     D’essere il primo ad acquistar l’onore,
     Quel possa uscire alla giostra di fore.

       Onde fu il nome de ogni paladino
     Subitamente scritto e separato;
     Ciascun segnor, cristiano e saracino,
     Ne l’orna d’oro il suo nome ha giettato;
     E poi ferno venire un fanciullino
     Che i breve ad uno ad uno abbia levato.
     Senza pensare il fanciullo uno afferra;
     La lettra dice: Astolfo de Anghilterra.

       Dopo costui fu tratto Feraguto,
     Rainaldo il terzo, e il quarto fu Dudone;
     E poi Grandonio, quel gigante arguto,
     L’un presso all’altro, e Berlengiere e Otone;
     Re Carlo dopo questi è for venuto;
     Ma per non tenir più lunga tenzone,
     Prima che Orlando ne fôr tratti trenta:
     Non vi vo’ dir se lui se ne tormenta.

5. P. Ei che 'l valor suo ben ha conosciuto, Gli par certo d' averla. — 13. MI. vincenda. — 22. T. il breve; P. i brevi. — 21. MI. angelterra; Mr. dingilterra. — 28. T., MI. e Mr. Belengiere.

Bojardo,Orlando innamorato [p. 18 modifica]

       Il giorno se calava in ver la sera,
     Quando di trar le sorte fu compito.
     Il duca Astolfo con la mente altiera
     Dimanda l’arme, e non fu sbigotito,
     Benchè la notte viene e il cel se anera.
     Esso parlava, sì come omo ardito,
     Che in poco d’ora finirà la guerra,
     Giettando Oberto al primo colpo in terra.

       Segnor, sappiate ch’Astolfo lo Inglese
     Non ebbe di bellezze il simigliante;
     Molto fu ricco, ma più fu cortese,
     Leggiadro e nel vestire e nel sembiante.
     La forza sua non vedo assai palese,
     Chè molte fiate cadde del ferrante.
     Lui suolea dir che gli era per sciagura,
     E tornava a cader senza paura.

       Or torniamo a la istoria. Egli era armato,
     Ben valeano quelle arme un gran tesoro;
     Di grosse perle il scudo è circondato,
     La maglia che se vede è tutta d’oro;
     Ma l’elmo è di valore ismesurato
     Per una zoia posta in quel lavoro,
     Che, se non mente il libro de Turpino,
     Era quanto una noce, e fu un rubino.

       Il suo destriero è copertato a pardi,
     Che sopraposti son tutti d’ôr fino.
     Soletto ne uscì fuor senza riguardi,
     Nulla temendo se pose in camino.
     Era già poco giorno e molto tardi,
     Quando egli gionse al Petron di Merlino;
     E ne la gionta pose a bocca il corno,
     Forte suonando, il cavalliero adorno.

1. MI. e P. calava ver. — 5, P. la notte il ciel venendo annera. — 8. T. Obetro; P. a terra. — 10. T., MI. e Mr. Ben. — 15. MI. e P. Quel solea. — 17. T., MI. e P. tornando. — 18. MI. E valeano. P. E valevan. — 24. P. fu rubino. — 26. T. e Mr. sopra posti. — 28. P. e se pose. — SI. T. E con. Mr.

non la gionto. [p. 19 modifica]

       Odendo il corno, l’Argalia levosse,
     Chè giacea al fonte la persona franca,
     E de tutte arme subito adobosse
     Da capo a piedi, che nulla gli manca;
     E contra Astolfo con ardir se mosse,
     Coperto egli e il destrier in vesta bianca,
     Col scudo in braccio e quella lancia in mano
     Che ha molti cavallier già messi al piano.

       Ciascun se salutò cortesemente,
     E fôr tra loro e patti rinovati,
     E la donzella lì venne presente.
     E poi si fôrno entrambi dilungati,
     L’un contra l’altro torna parimente,
     Coperti sotto a i scudi e ben serrati;
     Ma come Astolfo fu tocco primero,
     Voltò le gambe al loco del cimero.

       Disteso era quel duca in sul sabbione,
     E crucioso dicea: Fortuna fella,
     Tu me e’ nemica contra a ogni ragione:
     Questo fu pur diffetto della sella.
     Negar nol pôi; chè s’io stavo in arcione,
     Io guadagnavo questa dama bella.
     Tu m’hai fatto cadere, egli è certano,
     Per far onore a un cavallier pagano.

       Quei gran giganti Astolfo ebber pigliato,
     E lo menarno dentro al pavaglione;
     Ma quando fu de l’arme dispogliato,
     La damisella nel viso il guardone,
     Nel quale era sì vago e delicato,
     Che quasi ne pigliò compassïone;
     Unde per questo lo fece onorare,
     Per quanto onore a pregion si può fare.

12. Mr. e P. dilongati. — 19. MI. me ei. — 20 MI, Mr. e P. per. —

20. T. e MI. menorno. Mr. paviglìone. [p. 20 modifica]

       Stava disciolto, senza guardia alcuna,
     Ed intorno alla fonte solacciava;
     Angelica nel lume della luna,
     Quanto potea nascoso, lo amirava;
     Ma poi che fu la notte oscura e bruna,
     Nel letto incortinato lo posava.
     Essa col suo fratello e coi giganti
     Facea la guardia al pavaglion davanti.

       Poco lume mostrava ancor il giorno,
     Che Feraguto armato fu apparito,
     E con tanta tempesta suona il corno,
     Che par che tutto il mondo sia finito;
     Ogni animal che quivi era d’intorno
     Fuggìa da quel rumore isbigotito:
     Solo Argalia de ciò non ha paura,
     Ma salta in piede e veste l’armatura.

       L’elmo affatato il giovanetto franco
     Presto se allaccia, e monta in sul corsieri;
     La spada ha cinto dal sinistro fianco,
     E scudo e lancia e ciò che fa mistieri.
     Rabicano il destrier non mostra stanco,
     Anzi va tanto sospeso e leggieri,
     Che ne l’arena, dove pone il piede,
     Signo di pianta ponto non si vede.

       Con gran voglia lo aspetta Feraguto,
     Chè ad ogni amante incresce lo indugiare;
     E però, come prima l’ha veduto,
     Non fece già con lui lungo parlare;
     Mosso con furia e senza altro saluto,
     Con l’asta a resta lo venne a scontrare;
     Crede lui certo, e faria sacramento,
     Aver la bella dama a suo talento.

4. P. mirava. — 8. Mr. paviglion. — 9. Mr. alhora il g. — 15. P. Sol l'A. - 19. T. e MI. sinestro. — 24. P. Segno. — 26. MI. e Mr. longo. [p. 21 modifica]

       Ma come prima la lancia il toccò,
     Nel core e nella faccia isbigotì;
     Ogni sua forza in quel punto mancò,
     E lo animoso ardir da lui partì;
     Tal che con pena a terra trabuccò,
     Nè sa in quel punto se gli è notte o dì.
     Ma come prima a l’erba fu disteso,
     Tornò il vigore a quello animo acceso.

       Amore, o giovenezza, o la natura
     Fan spesso altrui ne l’ira esser leggiero.
     Ma Feraguto amava oltra misura;
     Giovanetto era e de animo sì fiero,
     Che a praticarlo egli era una paura:
     Piccola cosa gli facea mestiero
     A volerlo condur con l’arme in mano,
     Tanto è crucioso e di cor subitano.

       Ira e vergogna lo levâr di terra,
     Come caduto fu, subitamente.
     Ben se apparecchia a vendicar tal guerra,
     Nè si ricorda del patto nïente;
     Trasse la spada, ed a piè se disserra
     Ver lo Argalia, battendo dente a dente.
     Ma lui diceva: Tu sei mio pregione,
     E me contrasti contro alla ragione.

       Feraguto il parlar non ha ascoltato,
     Anci ver lui ne andava in abandono.
     Ora i giganti, che stavano al prato,
     Tutti levati con l’arme se sono,
     E sì terribil grido han fuor mandato,
     Che non se odì giamai sì forte trono
     (Turpino il dice: a me par meraviglia),
     E tremò il prato intorno a lor due miglia.

1. P. toccava. — 2, P. isbigottito. — 8. P. mancava. — 4. P. E l'amoroso ardir è via partito. — 5. P. traboccava. — 6. P. Caso che forse mai più non

fu udito. - 10. Mr. Fa. — 28. P. Ei gli. — 82. MI. e P. Che tremò; Mr. Tremò. [p. 22 modifica]

       A questi se voltava Feraguto,
     E non credeti che sia spaventato.
     Colui che vien davanti è il più membruto,
     E fu chiamato Argesto smisurato;
     L’altro nomosse Lampordo il veluto,
     Perchè piloso è tutto in ogni lato;
     Urgano il terzo per nome si spande,
     Turlone il quarto, e trenta piedi è grande.

       Lampordo nella gionta lanciò un dardo,
     Che se non fosse, come era, fatato,
     Al primo colpo il cavallier gagliardo
     Morto cadea, da quel dardo passato.
     Mai non fu visto can levrer, nè pardo,
     Nè alcun groppo di vento in mar turbato,
     Così veloci, nè dal cel saetta,
     Qual Feraguto a far la sua vendetta.

       Giunse al gigante in lo destro gallone,
     Che tutto lo tagliò, come una pasta,
     E rene e ventre, insino al petignone;
     Nè de aver fatto il gran colpo li basta,
     Ma mena intorno il brando per ragione,
     Perchè ciascun de’ tre forte il contrasta.
     L’Argalia solo a lui non dà travaglia,
     Ma sta da parte e guarda la battaglia.

       Fie’ Feraguto un salto smisurato:
     Ben vinti piedi è verso il cel salito;
     Sopra de Urgano un tal colpo ha donato,
     Che ’l capo insino a i denti gli ha partito.
     Ma mentre che era con questo impacciato,
     Argesto nella coppa l’ha ferito
     D’una mazza ferrata, e tanto il tocca,
     Che il sangue gli fa uscir per naso e bocca.

1. P. questo. — 5. MI. Lampardo. — 7. T. Vigano il terzo; MI. e Mr. Il

tercio Vigano. — 9. MI. Lampardo. — 13. P. leggier. — 15. MI., Mr. e P. veloce, — 20 P. D'aver.... non. [p. 23 modifica]

       Esso per questo più divenne fiero,
     Come colui che fu senza paura,
     E messe a terra quel gigante altiero,
     Partito dalle spalle alla cintura.
     Alor fu gran periglio al cavallero,
     Perchè Turlon, che ha forza oltra misura,
     Stretto di drieto il prende entro alle braccia,
     E di portarlo presto se procaccia.

       Ma fosse caso, o forza del barone,
     Io no ’l scio dir, da lui fu dispiccato.
     Il gran gigante ha di ferro un bastone,
     E Feraguto il suo brando afilato.
     Di novo si comincia la tenzone:
     Ciascuno a un tratto il suo colpo ha menato,
     Con maggior forza assai ch’io non vi dico;
     Ogni om ben crede aver còlto il nemico.

       Non fu di quelle botte alcuna cassa,
     Chè quel gigante con forza rubesta
     Giunselo in capo e l’elmo gli fraccassa,
     E tutta quanta disarmò la testa;
     Ma Feraguto con la spada bassa,
     Mena un traverso con molta tempesta
     Sopra alle gambe coperte di maglia,
     Ed ambedue a quel colpo le taglia.

       L’un mezo morto, e l’altro tramortito
     Quasi ad un tratto cascarno sul prato.
     Smonta l’Argalia e con animo ardito
     Ha quel barone alla fonte portato,
     E con fresca acqua l’animo stordito
     A poco a poco gli ebbe ritornato;
     E poi volea menarlo al pavaglione,
     Ma Feraguto niega esser pregione.

5. MI, e P. a gran periglio il. ; Mr. fu gran periglio il. — 19. P. al capo. — 22. P. traverso — 31. Mr. paviglione. [p. 24 modifica]

       - Che aggio a fare io, se Carlo imperatore
     Con Angelica il patto ebbe a firmare?
     Son forsi il suo vasallo o servitore,
     Che in suo decreto me possa obligare?
     Teco venni a combatter per amore,
     E per la tua sorella conquistare:
     Aver la voglio, o ver morire al tutto. -
     Queste parole dicea Feragutto.

       A quel rumore Astolfo se è levato,
     Che sino alora ancor forte dormia,
     Nè il crido de’ giganti l’ha svegliato
     Che tutta fe’ tremar la prataria.
     Veggendo i duo baroni a cotal piato,
     Tra lor con parlar dolce se mettia,
     Cercando de volerli concordare:
     Ma Feraguto non vole ascoltare.

       Dicea l’Argalia: Ora non vedi,
     Franco baron, che tu sei disarmato?
     Forse che de aver l’elmo in capo credi?
     Quello è rimaso in sul campo spezzato.
     Or fra te stesso iudica, e provedi
     Se vôi morire, o vôi esser pigliato:
     Che stu combatti, avendo nulla in testa,
     Tu in pochi colpi finira’ la festa.

       Rispose Feraguto: E’ mi dà il core,
     Senza elmo, senza maglia e senza scudo,
     Aver con teco di guerra l’onore;
     Così mi vanto di combatter nudo
     Per acquistare il desiato amore.
     Cotal parole usava il baron drudo,
     Però ch’Amor l’avea posto in tal loco,
     Che per colei s’arìa gettato in foco.

2. T. e Mr. affirmare. — 3. T. e P. forse io suo; MI. forsi io suo. 7. P. la voglio al tutto ovver morire, S' io non ho perso il mio solito ardire.

16. MI. volea; P. ciò non vuol scolt. — 24. T. e MI. In p. c. finirà; P. In... finirai. — 30. P. Cotai. — 31. MI. saria gito nel. [p. 25 modifica]

       L’Argalia forte in mente si turbava,
     Vedendo che costui sì poco il stima
     Che nudo alla battaglia lo sfidava,
     Nè alla seconda guerra nè alla prima,
     Preso due volte, lo orgoglio abassava,
     Ma de superbia più montava in cima;
     E disse: Cavallier, tu cerchi rogna:
     Io te la grattarò, chè ’l ti bisogna.

       Monta a cavallo ed usa tua bontade,
     Chè, come digno sei, te avrò trattato;
     Nè aver speranza ch’io te usi pietade,
     Perch’io ti vegga il capo disarmato.
     Tu cerchi lo mal giorno in veritade,
     Facciote certo che l’avrai trovato;
     Diffendite se pôi, mostra tuo ardire,
     Chè incontinente ti convien morire. -

       Ridea Feraguto a quel parlare,
     Come di cosa che il stimi nïente.
     Salta a cavallo e senza dimorare
     Diceva: Ascolta, cavallier valente:
     Se la sorella tua mi vôi donare,
     Io non te offenderò veracemente;
     Se ciò non fai, io non ti mi nascondo,
     Presto serai di quei de l’altro mondo. -

       Tanto fu vinto de ira l’Argalia,
     Odendo quel parlar che è sì arrogante,
     Che furïoso in sul destrier salia,
     E con voce superba e minacciante
     Ciò che dicesse nulla se intendia.
     Trasse la spada e sprona lo aferante,
     Nè se ricorda de l’asta pregiata,
     Che al tronco del gran pin stava apoggiata.

18. P. tu ricerchi il. — 18. P. 'l stimava. — 24. T. da. — 80. P. spronò. [p. 26 modifica]

       Così cruciati con le spade in mano
     Ambi co ’l petto de’ corsieri urtaro.
     Non è nel mondo baron sì soprano,
     Che non possan costor star seco al paro.
     Se fosse Orlando e il sir de Montealbano,
     Non vi serìa vantaggio nè divaro;
     Però un bel fatto potreti sentire,
     Se l’altro canto tornareti a odire.

 



 2. P. corsier s'urtaro 
  1. (1456). La stampa ha e nel quale.
  2. T., MI. e P. odireti.
  3. Mr. maraveglioso.
  4. MI., Mr. e P. contar.
  5. P. vinto al t. e soggiogato.
  6. MI., Mr. e P. forsi.
  7. MI. e Mr. membre.
  8. T. territoro.
  9. P. quel.
  10. P. potea.
  11. MI. e Mr. Dui. P. si erano.
  12. P. a re.
  13. P. Ed ei.
  14. P. Ma quivi il lascio in cotal pensar vano.
  15. P. i magni suoi.
  16. T. e Mr. e lui.
  17. T. e Ml. Alhor.
  18. Ml., Mr. e P. e da tutti.
  19. T. Pariggi.
  20. Mr. Eravi.
  21. Ml. e Mr. voce.
  22. 22,0 22,1 22,2 T. faccia - raccia. MI. facia - piaza - raza; Mr. faza - piaza - raza.
  23. Ml. e Mr. il suo.
  24. Ml. torcimano. Mr. turcimano.
  25. Ml. vede.
  26. Mr. Fie.
  27. Ml. e P. La qual.
  28. Ml. e Mr. vertù.
  29. T. costei.
  30. Ml. e Mr. dal.
  31. T. territoro.
  32. T., Ml. e Mr. ivi.
  33. Ml. e Mr. vertute.