Oreste (Alfieri, 1946)/Atto primo
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ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Elettra.
presente ognora al mio pensiero! ogni anno,
oggi ha due lustri, ritornar ti veggio
vestita d’atre tenebre di sangue;
eppur quel sangue, ch’espiar ti debbe,
finor non scorre. — Oh rimembranza! Oh vista!
Agamennón, misero padre! in queste
soglie svenato io ti vedea; svenato;
e per qual mano! — O notte, almen mi scorgi
non vista, al sacro avello. Ah! pur ch’Egisto,
pria che raggiorni, a disturbar non venga
il mio pianto, che al cenere paterno
misera reco in annual tributo!
Tributo, il sol ch’io dar per or ti possa,
di pianto, o padre, e di non morta speme
di possibil vendetta. Ah! sí; tel giuro:
se in Argo io vivo, entro tua reggia, al fianco
d’iniqua madre, e d’un Egisto io schiava,
null’altro fammi ancor soffrir tal vita,
che la speranza di vendetta. È lungi,
ma vivo, Oreste. Io ti salvai, fratello;
a te mi serbo; infin che sorga il giorno,
che tu, non pianto, ma sangue nemico
scorrer farai sulla paterna tomba.
SCENA SECONDA
Clitennestra, Elettra.
Elet. Qual voce? Oh ciel! tu vieni?...
Cliten. O figlia,
deh! non sfuggirmi; io la sant’opra teco
divider voglio; invan lo vieta Egisto:
ei nol saprá. Deh! vieni; andiam compagne
alla tomba.
Elet. Di chi?
Cliten. ... Del... tuo... infelice...
padre.
Elet. Perché non dir, del tuo consorte?
Non l’osi; e ben ti sta. Ma il piè ver esso
come ardirai tu volgere? tu lorda
ancor del sangue suo?
Cliten. Scorsi due lustri
son da quel dí fatale; il mio delitto
due lustri interi or piango.
Elet. E qual può tempo
bastare a ciò? fosse anco eterno il pianto,
nulla saria. Nol vedi? ancor rappreso
sta su queste pareti orride il sangue,
che tu spargesti: ah! fuggi: al tuo cospetto,
mira, ei rosseggia, e vivido diventa.
Fuggi, o tu, cui né posso omai, né debbo
madre nomar: vanne; dell’empio Egisto
riedi al talamo infame. Al fianco suo
tu sua consorte sta: né piú inoltrarti
a perturbar le quete ossa d’Atride.
Giá giá l’irata sua terribil ombra
sorge a noi contro, e te respinge addietro.
Cliten. Fremer mi fai... Tu giá mi amasti,... o figlia...
Oh rimorsi!... oh dolore!... ahi lassa!... E pensi,
Elet. Felice? E il merti? Oh! ben provvide il cielo,
ch’uom per delitti mai lieto non sia.
Eternamente nell’eterno fato
sta tua sventura scritta. Ancor non provi,
che i primi tuoi martíri: il premio intero
ti si riserba di Cocíto all’onda.
Lá sostener del trucidato sposo
dovrai gl’irati minacciosi sguardi:
lá, al tuo giunger, vedrai fremer degli avi
l’ombre sdegnose: udrai de’ morti regni
lo inesorabil giudice dolersi,
che niun tormento al tuo fallir si adegui.
Cliten. Misera me! Che dir poss’io?... pietade...
ma, non la merto... Eppur, se in core, o figlia,
se tu in cor mi leggessi... Ah! chi lo sguardo
può rivolger senz’ira entro il mio core
contaminato d’infamia cotanta?
L’odio non posso in te dannar, né l’ira.
Giá in vita tutti i rei tormenti io provo
del tenebroso Averno. Il colpo appena
dalla man mi sfuggia, che il pentimento
tosto, ma tardo, mi assalia tremendo.
Dal punto in poi, quel sanguinoso spettro
e giorno e notte orribilmente sempre
sugli occhi stammi. Ov’io pur muova, il veggo
di sanguinosa striscia atro sentiero
precedendo segnarmi: a mensa, in trono,
mi siede a lato: infra le acerbe piume,
se pure avvien che gli occhi al sonno io chiuda,
tosto, ahi terribil vista! ecco mostrarsi
nel sogno l’ombra; e il giá squarciato petto
dilaniar con man rabida, e trarne
piene di negro sangue ambe le palme,
e gittarmelo in volto. — A orrende notti,
dí sottentran piú orrendi: in lunga morte
mi sei pur tale) al pianger mio non piangi?
Elet. Piango,... sí,... piango. — Ma tu, di’; non premi,
tuttor non premi l’usurpato trono?
teco tuttora Egisto vil non gode
comune il frutto del comun misfatto? —
Pianger di te, nol deggio; e meno io deggio
credere al pianger tuo. Vanne, rientra;
lascia ch’io sola a compier vada...
Cliten. O figlia,
deh! m’odi;... aspetta... Io son misera assai.
Mi abborro piú, che tu non m’odj... Egisto,
tardi il conobbi... Oimè!... che dico? appena
estinto Atride, atroce appien quant’era
conobbi Egisto; eppure ancor lo amai.
Di rimorso e d’amor miste ad un tempo
provai le furie,... e provo. Oh degno stato
di me soltanto!... Qual mercé mi renda
del suo delitto Egisto, appien lo veggo:
veggo il disprezzo in falso amor ravvolto:
ma, a tal son io, che omai qual posso ammenda
far del misfatto, che non sia misfatto?
Elet. Alto morire ogni misfatto ammenda.
Ma, poiché al petto tuo tu non torcesti
l’acciar del sangue marital fumante;
poiché in te stessa il braccio parricida
l’usato ardir perdea; perché il tuo ferro
non rivolgesti, o non rivolgi, al seno
di quell’empio, che a te l’onor, la pace,
la fama toglie, ed al tuo Oreste il regno?
Cliten. Oreste?... oh nome! Entro mie vene il sangue
tutto in udirlo agghiacciasi.
Elet. Ribolle,
d’Oreste al nome, entro ogni vena il mio.
Di madre amor, qual dee tal madre, or provi.
Ma, Oreste vive.
gli dia: sol ch’ei mai non rivolga incauto
ad Argo il piè. Misera madre io sono;
tolto a me stessa anco per sempre ho il figlio;
e forza m’è, per quanto io l’ami, ai Numi
porger voti, affinché mai piú davanti
non mel traggano.
Elet. Amor tutt’altro io provo.
Bramo, che in Argo ei torni, e il ciel ne ho stanco;
e di sí cara ardente brama io vivo.
Spero, che un giorno ei qui mostrarsi ardisca,
qual figlio il debbe del trafitto Atride.
SCENA TERZA
Egisto, Clitennestra, Elettra.
breve, o regina? a lai novelli sorgi
giá dell’aurora pria? Dona una volta
il passato all’obblio; fa che piú lieti
teco io viva i miei dí.
Cliten. Regnar, non altro,
volevi, Egisto; e regni. Or, qual ti prende
di mie cure pensiero? Eterno è il duolo
entro il mio core; il sai.
Egisto Ben so qual fonte
dolor perenne a te ministra: in vita
costei volesti ad ogni costo; e viva
io la serbai, per tua sventura, e mia.
Ma questo aspetto d’insoffribil lutto
vo’ torti omai dagli occhi: omai la reggia
vo’ serenar; con lei sbandirne il pianto.
Elet. Me caccia pur; fia reggia ognor di pianto
quella, ove stai. Qual risuonar può voce
altra che il pianto, ove un Egisto ha regno?
fia, il veder lagrimar figli d’Atréo.
Cliten. O figlia,... ei m’è consorte. — Egisto, ah! pensa
ch’ella m’è figlia...
Egisto Ella? d’Atride è figlia.
Elet. Costui? d’Atride è l’uccisore.
Cliten. Elettra!...
Egisto, abbi pietá... La tomba... vedi,
la orribil tomba,... e non sei pago?
Egisto O donna,
men da te stessa omai discorda. Atride,
di’, per qual mano in quella tomba giace?
Cliten. Oh rampogna mortal! Ch’altro piú manca
alla infelice misera mia vita?
Chi mi vi ha spinto, or mi rimorde il fallo.
Elet. Oh nuova gioja! oh sola gioja, ond’io
il cor beassi, or ben due lustri! Entrambi
vi veggio all’ira, ed ai rimorsi in preda.
Di sanguinoso amore al fin pur odo,
quali esser denno, le dolcezze: al fine
ogni prestigio è tolto; appien l’un l’altro
conosce omai. Possa lo sprezzo trarvi
all’odio; e l’odio a nuovo sangue.
Cliten. Oh fero,
ma meritato augurio! oh ciel!... Deh,... figlia...
Egisto Sol da te nasce ogni discordia nostra.
Ben può una madre perder cotal figlia,
né dirsi orba per ciò. Potrei ritorti
quant’io mal diedi a’ preghi suoi; ma i doni
io ripigliar non soglio: il non vederti,
basta alla pace nostra. Oggi n’andrai
del piú negletto de’ miei servi sposa;
lungi con lui ne andrai: fra lo squallore
d’infame povertá, dote gli arreca
le tue lagrime eterne.
Elet. Egisto, parli
tu d’altra infamia mai, che di te stesso?
Piú scellerato, quale?
Egisto Esci.
Elet. Serbata
mi hai viva, il so, per maggior pena darmi:
ma, sia che vuol, questa mia man, che il cielo
forse destina ad alta impresa...
Egisto Or esci;
tel ridico.
Cliten. Per or, deh!... taci,... o figlia:...
esci, ten prego:... io poscia...
Elet. Da voi lungi,
pena non è, che il veder voi pareggi.
SCENA QUARTA
Egisto, Clitennestra.
e meritarle!... Oh vita! a te qual morte
fu pari mai?
Egisto Giá tel diss’io: di pace
aura spirar, finché costei dintorno
ci sta, nol potrem noi: ch’ella s’uccida,
gran tempo è giá, ragion di stato il vuole,
e il mio riposo, e il tuo: dannata a un tempo
è dal suo stolto orgoglio: ma il tuo pianto
vuol ch’io l’assolva. Al suo partir tu dunque
cessa di opporti: io ’l voglio, e indarno affatto
vi ti opporresti.
Cliten. Ah! tel diss’io piú volte:
qual che d’Elettra il destin sia, mai pace,
mai non sará con noi: tu fra ’l sospetto,
io fra’ rimorsi, e in rio timore entrambi,
trarrem noi sempre incerta orrida vita.
Altra sperar ne lice?
Egisto Addietro il guardo
esser felice io mai, finché d’Atride
seme rimane: Oreste vive; in lui
l’odio per noi cresce cogli anni; ei vive
del feroce desio d’alta vendetta.
Cliten. Misero! ei vive; ma lontano, ignoto,
oscuro, inerme. — Ahi crudo! ad una madre
ti duoli tu, che il suo figliuol respiri?
Egisto Con una madre, che il consorte ha spento,
men dolgo io, sí. Quello immolavi al nostro
amor; non dei questo immolar del pari
alla mia sicurezza?
Cliten. Oh tu, di sangue
non sazio mai, né di delitti!... Oh detti!... —
Di finto amor me giá cogliesti al laccio:
tuoi duri modi poscia assai mel fero
palese, oimè!... Pur nel mio petto io nutro
pur troppo ancor verace e viva fiamma;
e il sai, pur troppo!... Argomentar puoi quindi,
s’io potrei non amare uno innocente
unico figlio mio. Qual cor sí atroce
può non pianger di lui?...
Egisto Tu, che d’un colpo
due n’uccidesti. Un ferro stesso al padre
troncò la vita, e in note atre di sangue
vergò del figlio la mortal sentenza.
Il mio troppo indugiar, la sorte, e scaltro
l’antiveder d’Elettra, Oreste han salvo.
Ma che perciò? nomi innocente un figlio,
cui tu pria ’l padre, e il regno poscia hai tolto?
Cliten. Oh parole di sangue!... Oh figliuol mio,
privo di tutto, a chi tutto ti spoglia
nulla tu desti, se non dai tua vita?
Egisto E finch’ei vive, di’, securo stassi
chi di sue spoglie gode? Ognor sul capo
ti pende il brando suo. Figlio d’Atride,
ultimo seme di quell’empia stirpe
non fia pago in me solo. Omai mi stringe,
piú che di me, di te pensiero. Udisti
le fatidiche voci, ed i tremendi
oracoli, che Oreste un dí fatale
vaticinaro ai genitori suoi?
Ciò spetta a te, misera madre; io deggio,
ove il pur possa, accelerar sua morte;
tu soffrirlo, e tacerti.
Cliten. Oimè!... il mio sangue...
Egisto Non è tuo sangue Oreste: impuro avanzo
è del sangue d’Atréo: sangue, che nasce
ad ogni empio delitto. Il padre hai visto,
mosso da iniqua ambizíon, la figlia
svenarti sull’altar: d’Atride figlio,
l’orme paterne ricalcando Oreste,
ucciderá la madre. Oh cieca troppo,
troppo pietosa madre! Il figlio in atto
giá di ferirti sta: miralo; trema...
Cliten. E in questo petto a vendicare il padre
lascia ch’ei venga. Altro maggior delitto,
se maggior v’ha, forse espiar de’ il mio.
Ma, qual destin che a me sovrasti, Egisto,
ten prego, deh! per lo versato sangue
d’Agamennón, d’insidiare Oreste
cessa: da noi lontano, esule ei viva;
ma viva. Oreste il piè volgere ad Argo
non ardirebbe; e s’ei venisse, io scudo
col mio petto ti fora... Ma, s’ei viene,
il ciel vel tragge; e contro il ciel chi vale?
Qual dubbio allor? vittima chiesta io sono.
Egisto Per or di pianger cessa. Oreste è in vita
e speme ho poca, che in mie mani ei caggia.
Ma, se il dí vien, che a compier pure io basti
necessitá, che invan delitto nomi,
quel dí, se il vuoi, ripiglierai tu il pianto.