Operette morali (Leopardi - Donati)/Dialogo di T. Tasso e del suo Genio familiare

Dialogo di T. Tasso e del suo Genio familiare

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Dialogo di T. Tasso e del suo Genio familiare
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DIALOGO DI TORQUATO TASSO

E DEL SUO GENIO FAMILIARE1

Genio. Come stai, Torquato?

Tasso. Ben sai come si può stare in una prigione, e dentro ai guai fino al collo.

Genio. Via, ma dopo cenato, non è tempo da dolersene. Fa’ buon animo, e ridiamone insieme.

Tasso. Ci son poco atto. Ma la tua presenza e le tue parole sempre mi consolano. Siedimi qui accanto.

Genio. Che io segga? La non è giá cosa facile a uno spirito. Ma ecco: fa conto ch’io sto seduto.

Tasso. Oh potess’io rivedere la mia Leonora. Ogni volta che ella mi torna in mente, mi nasce un brivido di gioia, che dalla cima del capo mi si stende fino all’ultima punta de’ piedi; e non resta in me nervo né vena che non sia scossa. Talora, pensando a lei, mi si ravvivano nell’animo certe immagini e certi affetti, tali, che per quel poco tempo, mi pare di essere ancora quello stesso Torquato che fui prima di aver fatto esperienza delle sciagure e degli uomini, e che ora io piango tante volte per morto. In vero, io direi che l’uso del mondo e l’esercizio de’ patimenti sogliono come profondare e sopire dentro a ciascuno di noi quel primo uomo che egli era: il quale di tratto in tratto si desta per poco spazio, ma tanto piú di rado quanto è il progresso degli anni; sempre piú poi si ritira verso il nostro intimo, e ricade in maggior sonno di prima: finché, [p. 68 modifica] durando ancora la nostra vita, esso muore. In fine, io mi maraviglio come il pensiero di una donna abbia tanta forza da rinnovarmi, per cosí dire, l’anima, e farmi dimenticare tante calamitá. E se non fosse che io non ho piú speranza di rivederla, crederei non avere ancora perduta la facoltá di essere felice.

Genio. Quale delle due cose stimi che sia piú dolce: vedere la donna amata, o pensarne?

Tasso. Non so. Certo che quando mi era presente, ella mi pareva una donna; lontana, mi pareva e mi pare una dea.

Genio. Coteste dèe sono cosí benigne, che quando alcuno vi si accosta, in un tratto ripiegano la loro divinitá, si spiccano i raggi d’attorno, e se li pongono in tasca, per non abbagliare il mortale che si fa innanzi.

Tasso. Tu dici il vero pur troppo. Ma non ti pare egli cotesto un gran peccato delle donne; che, alla prova, elle ci riescano cosí diverse da quelle che noi le immaginavamo?

Genio. Io non so vedere che colpa s’abbiano in questo, d’esser fatte di carne e sangue, piuttosto che di ambrosia e nettare. Qual cosa del mondo ha pure un’ombra o una millesima parte della perfezione che voi pensate che abbia a essere nelle donne? E anche mi pare strano che, non facendovi maraviglia che gli uomini sieno uomini, cioè a dir creature poco lodevoli e poco amabili, non sappiate poi comprendere come accada che le donne in fatti non sieno angeli.

Tasso. Con tutto questo, io mi muoio dal desiderio di rivederla e di riparlarle.

Genio. Via, questa notte in sogno io te la condurrò davanti; bella come la gioventú; e cortese in modo che tu prenderai cuore di favellarle molto piú franco e spedito che non ti venne fatto mai per l’addietro: anzi all’ultimo le stringerai la mano; ed ella, guardandoti fiso, ti metterá nell’animo una dolcezza tale, che tu ne sarai sopraffatto; e per tutto domani, qualunque volta ti sovverrá di questo sogno, ti sentirai balzare il cuore dalla tenerezza.

Tasso. Gran conforto: un sogno in cambio del vero. [p. 69 modifica]

Genio. Che cosa è il vero?

Tasso. Pilato non lo seppe meno di quello che lo so io.

Genio. Bene, io risponderò per te. Sappi che dal vero al sognato, non corre altra differenza, se non che questo può qualche volta essere molto piú bello e piú dolce che quello non può mai.

Tasso. Dunque tanto vale un diletto sognato quanto un diletto vero?

Genio. Io credo. Anzi ho notizia di uno che, quando la donna che egli ama se gli rappresenta dinanzi in alcun sogno gentile, esso per tutto il giorno seguente, fugge di ritrovarsi con quella e di rivederla; sapendo che ella non potrebbe reggere al paragone dell’immagine che il sonno gliene ha lasciata impressa, e che il vero, cancellandogli dalla mente il falso, priverebbe lui del diletto straordinario che ne ritrae. Però non sono da condannare gli antichi, molto piú solleciti, accorti e industriosi di voi, circa a ogni sorta di godimento possibile alla natura umana, se ebbero per costume di procurare in vari modi la dolcezza e la gioconditá dei sogni; né Pitagora è da riprendere per avere interdetto il mangiare delle fave, creduto contrario alla tranquillitá dei medesimi sogni, ed atto a intorbidarli2; e sono da scusare i superstiziosí che, avanti di coricarsi, solevano orare e far libazioni a Mercurio conduttore dei sogni, acciò ne menasse loro di quei lieti; l’immagine del quale tenevano a quest’effetto intagliata in su’ piedi delle lettiere3. Cosí, non trovando mai la felicitá nel tempo della vigilia, si studiavano di essere felici dormendo: e credo che in parte, e in qualche modo, l’ottenessero; e che da Mercurio fossero esauditi meglio che dagli altri dèi.

Tasso. Per tanto, poiché gli uomini nascono e vivono al solo piacere, o del corpo o dell’animo: se da altra parte il piacere è solamente o massimamente nei sogni, converrá ci determiniamo a vivere per sognare: alla qual cosa, in veritá, io non mi posso ridurre.

Genio. Giá vi sei ridotto e determinato, poiché tu vivi e che tu consenti di vivere. Che cosa è il piacere? [p. 70 modifica]

Tasso. Non ne ho tanta pratica da poterlo conoscere che cosa sia.

Genio. Nessuno lo conosce per pratica, ma solo per ispeculazione: perché il piacere è un subbietto speculativo, e non reale; un desiderio, non un fatto; un sentimento che l’uomo concepisce col pensiero, e non prova; o per dir meglio, un concetto e non un sentimento. Non vi accorgete voi che nel tempo stesso di qualunque vostro diletto, ancorché desiderato infinitamente, e procacciato con fatiche e molestia indicibili; non potendovi contentare il goder che fate in ciascuno di quei momenti, state sempre aspettando un goder maggiore e piú vero, nel quale consista in somma quel tal piacere; e andate quasi riportandovi di continuo agl’istanti futuri di quel medesimo diletto? Il quale finisce sempre innanzi al giungere dell’istante che vi soddisfaccia; e non vi lascia altro bene che la speranza cieca di goder meglio e piú veramente in altra occasione, e il conforto di fingere e narrare a voi medesimi di aver goduto, con raccontarlo anche agli altri, non per sola ambizione, ma per aiutarvi al persuaderlo che vorreste pur fare a voi stessi. Però chiunque consente di vivere, no’l fa in sostanza ad altro effetto né con altra utilitá che di sognare; cioè credere di avere a godere, o di aver goduto; cose ambedue false e fantastiche.

Tasso. Non possono gli uomini credere mai di godere presentemente?

Genio. Sempre che credessero cotesto, godrebbero infatti. Ma narrami tu se, in alcun istante della tua vita, ti ricordi aver detto con piena sinceritá e opinione: io godo. Ben tutto giorno dicesti e dici sinceramente: io godrò; e parecchie volte, ma con sinceritá minore: ho goduto. Di modo che il piacere è sempre o passato o futuro, e non mai presente.

Tasso. Che è quanto dire è sempre nulla.

Genio. Cosí pare.

Tasso. Anche nei sogni.

Genio. Propriamente parlando.

Tasso. E tuttavia l’obbietto e l’intento della vita nostra, [p. 71 modifica] non pure essenziale ma unico, è il piacere stesso: intendendo per piacere la felicitá; che debbe in effetto esser piacere; da qualunque cosa ella abbia a procedere.

Genio. Certissimo.

Tasso. Laonde la nostra vita, mancando sempre del suo fine, è continuamente imperfetta: e quindi il vivere è di sua propria natura uno stato violento.

Genio. Forse.

Tasso. Io non ci veggo forse. Ma dunque perché viviamo noi? voglio dire, perché consentiamo di vivere?

Genio. Che so io di cotesto? Meglio lo saprete voi che siete uomini.

Tasso. Io per me ti giuro che non lo so.

Genio. Domandane altri de’ piú savi, e forse troverai qualcuno che ti risolva cotesto dubbio.

Tasso. Cosí farò. Ma certo questa vita che io meno, è tutta uno stato violento; perché lasciando anche da parte i dolori, la noia sola mi uccide.

Genio. Che cosa è la noia?

Tasso. Qui l’esperienza non mi manca, da soddisfare alla tua domanda. A me pare che la noia sia della natura dell’aria: la quale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro non gli sottentra, quivi ella succede immediatamente. Cosí tutti gl’intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però, come nel mondo materiale, secondo i peripatetici, non si dá vóto alcuno; cosí nella vita nostra non si dá vóto; se non quando la vita per qualsivoglia causa intermette l’uso del pensiero. Per tutto il resto del tempo, l’animo, considerato anche in sé proprio e come disgiunto dal corpo, si trova contenere qualche passione; come quello a cui l’essere vacuo da ogni piacere e dispiacere importa essere pieno di noia; la quale anco è passione, non altrimenti che il dolore e il diletto.

Genio. E da poi che tutti i vostri diletti sono di materia simile ai ragnateli, tenuissima, radissima e trasparente; perciò [p. 72 modifica] come l’aria in questi, cosí la noia penetra in quelli da ogni parte, e li riempie. Veramente per la noia non credo si debba intendere altro che il desiderio puro della felicitá; non soddisfatto dal piacere, e non offeso apertamente dal dispiacere. Il qual desiderio, come dicevamo poco innanzi, non è mai soddisfatto; e il piacere propriamente non si trova. Sicché la vita umana, per modo di dire, è composta e intessuta, parte di dolore, parte di noia; dall’una delle quali passioni non ha riposo, se non cadendo nell’altra. E questo non è tuo destino particolare, ma comune di tutti gli uomini.

Tasso. Che rimedio potrebbe giovare contro la noia?

Genio. Il sonno, l’oppio, e il dolore. E questo è il piú potente di tutti: perché l’uomo mentre patisce, non si annoia per niuna maniera.

Tasso. In cambio di cotesta medicina, io mi contento di annoiarmi tutta la vita. Ma pure la varietá delle azioni, delle occupazioni e dei sentimenti, se bene non ci libera dalla noia, perché non ci reca diletto vero, contuttociò la solleva ed alleggerisce. Laddove in questa prigionia, separato dal commercio umano, toltomi eziandio lo scrivere, ridotto a notare per passatempo i tocchi dell’oriuolo, annoverare i correnti, le fessure e i tarli del palco, considerare il mattonato del pavimento, trastullarmi colle farfalle e coi moscherini che vanno attorno alla stanza, condurre quasi tutte le ore a un modo; io non ho cosa che mi scemi in alcuna parte il carico della noia.

Genio. Dimmi: quanto tempo ha che tu sei ridotto a cotesta forma di vita?

Tasso. Piú settimane, come tu sai.

Genio. Non conosci tu, dal primo giorno al presente, alcuna diversitá nel fastidio che ella ti reca?

Tasso. Certo che io lo provava maggiore a principio: perché di mano in mano la mente, non occupata da altro e non isvagata, mi si viene accostumando a conversare seco medesima assai piú e con maggior sollazzo di prima, e acquistando un abito e una virtú di favellare in se stessa, anzi di cicalare, tale, che parecchie volte mi pare quasi avere una compagnia [p. 73 modifica] di persone in capo che stieno ragionando, e ogni menomo soggetto che mi si rappresenti al pensiero, mi basta a farne tra me e me una gran diceria.

Genio. Cotesto abito te lo vedrai confermare e accrescere di giorno in giorno per modo che, quando poi ti si renda la facoltá di usare cogli altri uomini, ti parrá essere piú disoccupato stando in compagnia loro, che in solitudine. E quest’assuefazione in sí fatto tenore di vita, non credere che intervenga solo a’ tuoi simili, giá consueti a meditare; ma ella interviene in piú o men tempo a chicchessia. Di piú, l’essere diviso dagli uomini e, per dir cosí, dalla vita stessa porta seco questa utilitá: che l’uomo, eziandio sazio, chiarito e disamorato delle cose umane per l’esperienza; a poco a poco assuefacendosi di nuovo a mirarle da lungi, donde elle paiono molto piú belle e piú degne che da vicino, si dimentica della loro vanitá e miseria; torna a formarsi e quasi crearsi il mondo a suo modo; apprezzare, amare e desiderare la vita; delle cui speranze, se non gli è tolto o il potere o il confidare di restituirsi alla societá degli uomini, si va nutrendo e dilettando, come egli soleva a’ suoi primi anni. Di modo che la solitudine fa quasi l’ufficio della gioventú; o certo ringiovanisce l’animo, ravvalora e rimette in opera l’immaginazione, e rinnuova nell’uomo esperimentato i beneficii di quella prima inesperienza che tu sospiri. Io ti lascio; che veggo che il sonno ti viene entrando; e me ne vo ad apparecchiare il bel sogno che ti ho promesso. Cosí, tra sognare e fantasticare, andrai consumando la vita; non con altra utilitá che di consumarla; che questo è l’unico frutto che al mondo se ne può avere, e l’unico intento che voi vi dovete proporre ogni mattina in sullo svegliarvi. Spessissimo ve la conviene strascinare co’ denti: beato quel di che potete o trarvela dietro colle mani, o portarla in sul dosso. Ma, in fine, il tuo tempo non è piú lento a correre in questa carcere, che sia nelle sale e negli orti quello di chi ti opprime. Addio.

Tasso. Addio. Ma senti. La tua conversazione mi riconforta pure assai. Non che ella interrompa la mia tristezza: ma [p. 74 modifica] questa per la piú parte del tempo è come una notte oscurissima, senza luna né stelle; mentre son teco, somiglia al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto. Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o trovare quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare.

Genio. Ancora non l’hai conosciuto? In qualche liquore generoso.




  1. [p. 234 modifica]Pag. 67, al titolo. Ebbe Torquato Tasso, nel tempo dell’infermitá della sua mente, un’opinione simile a quella famosa di Socrate; cioè credette vedere di tratto in tratto uno spirito buono ed amico, e avere con esso lui molti e lunghi ragionamenti. Cosí leggiamo nella vita del Tasso descritta dal Manso, il quale si trovò presente a uno di questi o colloqui o soliloqui che noi li vogliamo chiamare.
  2. [p. 234 modifica]Pag. 69, l. 21-22 atto a intorbidarli... Apollonio, Hist. commentit. cap. 46. Cicerone, De Divinat. lib. 1, cap. 30; lib. 2, cap. 58. Plinio, lib. 18, cap. 12. Plutarco, Convival. Quaestion., lib. 8, quaest. 10, Opp. tom. 2, p. 734. Dioscoride, De materia medica lib. 2, cap. 127.
  3. [p. 234 modifica]Pag. 69, l. 21-22 atto a intorbidarli... Apollonio, Hist. commentit. cap. 46. Cicerone, De Divinat. lib. 1, cap. 30; lib. 2, cap. 58. Plinio, lib. 18, cap. 12. Plutarco, Convival. Quaestion., lib. 8, quaest. 10, Opp. tom. 2, p. 734. Dioscoride, De materia medica lib. 2, cap. 127.