Operette morali (Leopardi - Donati)/Appendice/III. Appunti e spunti per le Operette Morali
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III
APPUNTI E SPUNTI
per le Operette Morali
[Se questa dovesse o potesse essere una edizione commentata delle Operette morali, è ovvio che non sarebbe stato difficile raccogliere in queste pagine assai maggior copia di richiami e citazioni di «fonti». Da un lungo lavoro di preparazione, da anni di letture e di studi, esse proruppero come una ispirazione, durante il corso dell’anno 1824. Anche le altre operette aggiunte dopo nell’edizione del 1834, e quelle che dovevano esser comprese nella «definitiva» erano giá state pensate ed elaborate. Ora m’è parso che dovesse riuscir gradito agli studiosi trovar qui raccolti i pensieri e gli studi onde le operette germogliarono, come un commento del Leopardi medesimo.
Per le prime cento pagine di questo Zibaldone, il L. non notò le date; in fine al secondo «pensiero» segnò, evidentemente piú tardi, luglio o agosto 1817; le indicazioni del giorno cominciano dall’8 gennaio 1820: ma certo egli ebbe continuamente tra mani questi appunti, com’è provato dal fatto che son frequentissimi i rimandi anche posteriori da vecchie pagine ad altre, scritte negli anni successivi. E in questa assidua rielaborazione è l’importanza maggiore di cosí gran materiale raccolto.
Piú compiuto lavoro spero di dar tra breve nei volumi in cui si raccoglierá e ordinerá, sotto il titolo di Studi e frammenti di letteratura e di filosofia, il vasto materiale apprestato dal Leopardi per opere disegnate, che non potè, non che recare a compimento, neppure svolgere con un tal quale ordine sistematico. In quelli si troverá compiuto lo svolgimento del pensiero leopardiano, attraverso non rare contraddizioni. Qui si trattava solo di lasciar illustrare da lui medesimo l’opera sua maggiore. Nulla posso dare, naturalmente, di nuovo: ma i pensieri ripresi e svolti in quel compiuto organismo risultante da pezzi in apparenza staccati, le «fronde sparte» mirabilmente radunate a far opera viva e di vita non caduca, son qui quali da prima li pensò. Quasi sempre sono anche scritti male: veggano gli studiosí che vivo interesse ha il confronto di questi appunti, a volte notati fino da sei o sette anni addietro, e l’ultima forma che il prosatore perfetto seppe dar loro nell’opera d’arte.
Agli appunti dello Zibaldone di Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura unisco alcune «postille marginali» che il Gentile per primo pubblicò dall’autografo.]
STORIA DEL GENERE UMANO
[Non noterò i richiami ad altre opere leopardiane e all’epistolario, frequenti, massime in questa prima «operetta». Quelli segnatamente col Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, col Dialogo di un fisico e di un metafisico, col Dialogo di Colombo e Gutierrez ecc., sono stati giá avvertiti da’ commentatori e ricorrono ovvii ai lettori attenti.]
16 ottobre 1821, Z. 1927 (III, 446):
Quello che altrove ho detto sugli effetti della luce o degli oggetti visibili in riguardo all’idea dell’infinito, si deve applicare parimente al suono, al canto e a tutto ciò che riguarda l’udito.... È piacevole qualunque suono, anche vilissimo, che largamente e vastamente si diffonda... massimamente se non si vede l’oggetto da cui parte. A queste considerazioni appartiene il piacere che può dare e dá, quando non sia vinto dalla paura, il fragore del tuono, massime quand’è piú sordo, quando è udito in aperta campagna; lo stormire del vento, massime nei detti casi, quando freme confusamente in una foresta, o tra i vari oggetti di una campagna, o quando è udito da lungi, o dentro una cittá, trovandosi per le strade ecc. Perocché, oltre la vastitá e l’incertezza e confusione del suono, non si vede l’oggetto che lo produce, giacché il tuono ed il vento non si vedono. E piacevole un luogo echeggiante, un appartamento ecc., che ripeta il calpestio de’ piedi, o la voce ecc. Perocché l’eco non si vede ecc. E tanto piú quanto il luogo e l’eco è piú vasto, quanto piú l’eco vien da lontano, quanto piú si diffonde; e molto piú ancora se vi si aggiunge l’oscuritá del luogo che non lasci determinare la vastitá del suono né i punti da cui esso parte ecc. ecc.
[E si veda il resto — che non fa qui al caso — nelle Memorie della mia vita; e negli Studi e frammenti di filosofia le pagine di quella ch’egli chiamava la «sua» Teoria del piacere, intorno ai «bisogni» ecc. Z. 1223 luglio 1820 p. 172 sgg. E nelle Memorie specialmente questo passo.]
11 ottobre 1820, Z. 271-72 (I, 358):
Coloro che dicono per consolare una persona priva di qualunque considerabile vantaggio della vita: — Non ti affliggere, assicurati che sono pure illusioni — parlano scioccamente. Perché quegli potrá e dovrá rispondere: — Ma tutti i piaceri sono illusioni, o consistono nell’illusione, e di queste illusioni si forma e si compone la nostra vita. Ora se io non posso averne, che piacere mi resta? e perché vivo? Nella stessa maniera io dico delle antiche istituzioni ecc., tendenti a fomentare l’entusiasmo, le illusioni, il coraggio, l’attivitá, il movimento, la vita. Erano illusioni; ma toglietele, come son tolte; che piacere rimane? e la vita che cosa diventa? Nella stessa maniera dico: la virtú, la generositá, la sensibilitá, la corrispondenza in amore, la fedeltá, la costanza, la giustizia, la magnanimitá ecc., umanamente parlando, sono enti immaginarii. E tuttavia, l’uomo sensibile, se ne trovasse frequentemente nel mondo, sarebbe meno infelice ecc.
E il 18 novembre (Z. 338, I, 400) commentava:
Tale era l’idea che gli antichi si formavano della felicitá ed infelicitá, cioè l’uomo privo di quei tali vantaggi della vita, benché illusorii, lo consideravano come infelice realmente, cosí e viceversa. E non si consolavano mai col pensiero che queste fossero illusioni, conoscendo che in esse consiste la vita, o considerandole come tali e come realtá. E non tenevano la felicitá e l’infelicitá per cose immaginarie e chimeriche, ma solide e solidamente opposte fra loro.
PROPOSTA DI PREMI
FATTA DALL’ACCADEMIA DEI SILLOGRAFI
Z. 4035-22 febbraio 1824 (VI, 4 11 ):
Σίλλος, σίλλοι si fa derivare da ἴλλος, occhio , παρὰ τὸ διασείειν τοὺς ἴλλους. Vedi Scapula e Menagio, Ad Laertium in Timon., IX, iii. Consento che venga da ἴλλος, ma non che ci abbia a fare il σείειν, formazione d’altronde molto inverisimile. Io credo che σίλλος sia lo stesso affatto che ἴλλος in origine, aggiuntoci il sigma in luogo dello spirito benché lene, all’uso latino, circa lo spirito denso e al modo che gli eoli usavano il digamma, ossia il v latino (e quindi i latini il v) invece anche dello spirito lene nel principio delle parole... Da σίλλος occhio, la metafora trasportò il significato a « derisione » ecc.; quasi dicesse come diciamo noi «occhiolino», onde σιλλαίνειν sarebbe quasi «far l’occhiolino», in senso però di «deridere» ecc. La metafora è naturale, perché il riso generalmente, ma in spezieltá la derisione, risiede e si esprime cogli occhi principalmente e molte volte con essi unicamente.
DIALOGO DI UN FOLLETTO E DI UNO GNOMO
Z. p. 390, 8 decembre 1820 (I, 439):
L’immaginarsi di essere il primo ente della natura e che il mondo sia fatto per noi è una conseguenza naturale dell’amor proprio, necessariamente coesistente con noi e necessariamente illimitato. Onde è naturale che ciascuna specie d’animali s’immagini, se non chiaramente, certo confusamente e fondamentalmente, la stessa cosa. Questo accade nelle specie o generi rispetto agli altri generi o specie. Ma proporzionatamente lo vediamo accadere anche negli individui, riguardo non solo alle altre specie o generi, ma agli altri individui della medesima specie.
Cfr. il Dialogo d’un cavallo e d’un bue nel vol. VII di questa edizione, e Z. p. 822 sgg. 20 marzo 1821 (II, 205 sgg.).
Non solamente ciascuna specie di bruti stima, o esplicitamente e distintamente, o certo implicitamente e confusamente di esser la prima e piú perfetta nella natura e nell’ordine delle cose, e che tutto sia fatto per lei, ma anche, nello stesso modo, ciascun individuo. E cosí accade tra gli uomini, che implicitamente e naturalmente ciascuno si persuade la stessa cosa.
Parimente non v’è popolo sí barbaro che non si creda implicitamente migliore, piú perfetto, superiore a qualunque altro, e non si stimi il modello delle nazioni.
Parimente non v’è stato secolo si guasto e depravato che non si sia creduto nel colmo della civiltá, della perfezione sociale, l’esemplare degli altri secoli, e massimamente superiore per ogni verso a tutti i secoli passati e nell’ultimo punto dello spazio percorso fino allora dallo spirito umano.
Con questa differenza però che, sebbene tutto è relativo in natura, è relativo per altro alle specie; cosí che le idee che una specie ha della perfezione ecc., appresso a poco sono comuni agli individui tutti di essa (massime se sono le idee naturali alla specie) ecc.
Vedi: Della natura degli uomini e delle cose in Studi e frammenti di filosofia.
DIALOGO DI MALAMBRUNO E DI FARFARELLO
Dalla Teoria del piacere (v. in Studi e frammenti di filosofia ) e segnatamente in Z. 12 febbraio 1821, p. 847 (II, in):
La somma della teoria del piacere, e si può dir anche della natura dell’animo nostro e di qualunque vivente è questa. Il vivente si ama senza limite nessuno e non cessa mai di amarsi. Dunque non cessa mai di desiderarsi il bene, e si desidera il bene senza limiti. Questo bene in sostanza non è altro che il piacere. Qualunque piacere, ancorché grande, ancorché reale, ha limiti. Dunque nessun piacere è proporzionato ed uguale alla misura dell’amore che il vivente porta a se stesso. Quindi nessun piacere può soddisfare il vivente ecc.
E 29 settembre 1823, Z. 3552 (VI, 22):
... Dove non v’ha piacere, quivi è patimento, perché v’ha desiderio non soddisfatto di piacere, e il desiderio non soddisfatto è pena. Né v’ha stato intermedio, come si crede, tra il soffrire e il godere; perché il vivente, desiderando sempre per necessitá e di natura il piacere, e desiderandolo perciò appunto ch’ei vive, quando e’ non gode, ei soffre. E non godendo mai, né potendo veramente godere, resta ch’ei sempre soffra mentre ch’ei vive, in quanto ei sente la vita; ché quando ei non la sente non soffre; come nel sonno, nel letargo ecc. Ma in questi casi ei non soffre, perché la vita non gli è sensibile e perché in certo modo ei non vive ecc.
E ancora: 6 novembre 1823, Z. 3843 (VI, 225):
Sempre che l’uomo pensa ei desidera, perché tanto quanto pensa ei si ama. Ed in ciascun momento a proporzione che la sua facoltá di pensare è piú libera ed intera e con minore impedimento, e ch’egli piú pienamente ed intensamente la esercita, il suo desiderare è maggiore ecc.
E rimanda ad altri pensieri (3835 e 3846), nei quali sono svolte le medesime tesi.
DIALOGO DELLA NATURA E D’UN’ANIMA
Sempre nella medesima Teoria del piacere, e precisamente svolgendo il pensiero (giá citato nella nota preced.) del 12 febbraio 1821, ricorda il D’Alembert.
L’attivitá massimamente è il maggior mezzo di felicitá possibile. Oltre l’attivitá altri mezzi meno universali... per esempio lo stupore:... gli uomini cosí fatti sono i piú felici, gli uomini incapaci di questa qualitá i piú infelici: «Sii grande e infelice», detto di D’Alembert, dice la Natura agli uomini grandi sensibili, passionati ecc.
E p. 4079 sgg., 23 aprile 1824 (VII, 1-2):
Nel Dialogo della Natura e dell’Anima, ho considerato come la ragione e l’immaginazione, e insomma le facoltá mentali eccellenti nell’uomo sopra quelle di ciascun altro vivente, gli siano causa del non potere mai o quasi mai, e in ogni modo difficilmente, far uso di tutte le sue forze naturali, come fanno tuttodí e senza difficoltá veruna tutti gli altri animali. Aggiungi. Si dice che i pazzi hanno una forza straordinaria, a cui non si può resistere, massime da solo a solo. Si crede che la loro malattia dia questa forza per se stessa, al contrario di tutte l’altre infermitá ecc.
E ancora qualche giorno dopo: Z. p. 4090 21 maggio 1824 (VII, II).
L’uomo sarebbe onnipotente se potesse essere disperato tutta la sua vita, o almeno per lungo tempo, cioè se la disperazione fosse uno stato che potesse durare.
Su questo medesimo soggetto tornò nell’aprile del 1827. Z. 4273 (VII, 216 sg.):
Un uomo disarmato, alle prese con una bestia di corporatura e forze uguali a lui, per esempio con un grosso cane, difficilmente resterá superiore; verisimilmente sará vinto.... Il cane non guarda a pericolo, non considera, non usa prudenza. L’uomo al contrario; se non è disperato affatto ecc.
DIALOGO DELLA TERRA E DELLA LUNA
A p. 62, l. 6, l'autogr. ha: Cicer., De natura deor. III, 11; Somn. Scipionis c. 5.
A p. 46 1. 19 «Davide Fabricio»; l’autografo ha in margine: — Fabricius. Biblioth. graeca. ed. vetus l. I, cap. 20, $ 12, T. I, p. 154; dove si legge:
«David Fabricius... suis se oculis incolas Lunae vidisse temere iaclavit, teste Johanne Argolo et Hieron. Vitali, velut alter Lynceus orbem lunae visu se transmisisse professus, ut est apud Plinium L. II, c. 7 Histor. natur.»
E a p. 48 l. 16, a «ne fu varia opinione»: Pitisc. Lexic. antiq. v. Luna; Forcellini v. Lunus; Hoffmann Lexic. v. Lunus.
E 1. 17 seg.: — Meursius Opp. T. 1, p. 6. T. V, p. 951; Goguet, Origine delle scienze e delle arti. T. I, p. 48 nota 2; Athenaeus, p. 57 fine.
LA SCOMMESSA DI PROMETEO
Z. 1611-12, 2 settembre 1821 (III, 264):
Nessun genere di animali o dí cose, per essere qual deve, ebbe o ha bisogno che sorga un suo individuo fornito di singolari prerogative naturali o acquisite, che accada la tale scoperta importante, che si diano le tali e tali infinite combinazioni ecc. ecc. La natura, quando lo formò fu ben certa ch’essa sarebbe qual doveva essere e qual ella voleva. Ma il genere umano ha avuto ed ha bisogno di tutto ciò, per arrivare ad essere (cosí dicono) qual deve. Or dico io: — perché la perfezione, cioè il vero modo d’essere, del solo genere umano fu abbandonato dalla natura al caso? E questo un privilegio, o un immenso svantaggio? Egli è certo che le facoltá del piú privilegiato individuo umano non bastano di gran lunga a condurlo a quella che si chiama perfezione. Dunque la natura non ha provveduto alla perfezione, cioè al benessere dell’uomo. Ma egli è fatto per la societá. Neppur basta ch’egli si metta in questa societá. Bisogna che questa duri una lunghissima serie di generazioni e che si stenda fino a divenir quasi universale. Allora solo l’uomo e l’individuo potrá avvicinarsi a quella perfezione alla quale ancora non siamo arrivati. È egli possibile che tutto ciò sia necessario al ben essere dell’uomo? e che la sua perfezione fosse posta dalla natura au bout di sí lunga e difficile carriera, che dopo seimila anni ancora non è compiuta? Oltre ch’ella, come risulta dal sopra detto, non poteva esser sicura che l’uomo vi arrivasse mai, essendo stati opera di circostanze non mai essenziali tutti i pretesi progressí che si son fatti.
I medesimi concetti nota il 19 settembre 1821, Z. 1740 (III, 341):
Consideriamo tutte le difficili scoperte moderne, fatte pure in tempo dove la mente umana aveva tanti ed immensi aiuti di piú per inventare; e vedendo che tutte, in un modo o nell’altro, si debbono al caso, e nessuna o pochissime derivano da spontanea e deliberata applicazione della mente umana, né dal calcolo delle conseguenze e dal preciso progresso dei lumi,... ecc. Se dunque porremo attenzione all’andamento delle cose e alla storia dell’uomo, dovremo convenire che tutta quanta la sua civilizzazione è pura opera del caso.
E 25-30 ottobre 1823, Z. 3797 (VI, 185):
Io noto che, generalmente parlando, le dette crudeltá ecc., sono tanto piú frequenti, e maggiori, e le guerre tanto piú feroci e continue e micidiali ecc., quanto i popoli sono piú vicini a natura. E astraendo dall’odio e dagli effetti suoi, non si troverá popolo alcuno cosí selvaggio, cioè cosí vicino a natura, nel quale, se v’è societá stretta, non regnino costumi, superstizioni ecc., tanto piú lontani e contrari a natura, quanto lo stato della lor societá ne è piú vicino, cioè piú primitivo. Qual cosa piú contraria a natura di quello che una specie d’animali serva al mantenimento e cibo di se medesima? Altrettanto sarebbe aver destinato un animale a pascersi di se medesimo, distruggendo effettivamente quelle proprie parti di che ei si nutrisse ecc.
Vedi Natura degli uomini e delle cose.
Z. pp. 484-85, 10 gennaio 1821 (II, 19.)
Non si è mai letto di nessun antico che si sia ucciso per noia della vita, laddove si legge di molti moderni; e vedi il suicidio ragionato di Buonafede. Né perché questo accade oggidí massimamente in Inghilterra, si creda che questo fosse comune in quel paese anche anticamente, senza che ne rimanga memoria. Dai poemi di Ossian si vede quanto gli antichi abitatori di quel paese fossero lontani dal concepire la nullitá e noia necessaria della vita assolutamente; e molto piú dal disperarsi e uccidersi per questo. Gli antichi celti e gli altri antichi si uccidevano per disperazioni nate da passioni e sventure, non mai considerate come inevitabili e necessarie assolutamente all’uomo, ma come proprie dell’individuo, perciò disgraziato e infelice e disperantesi. La disperazione e scoraggiamento della vita in genere, l’odio della vita come vita umana, non come individualmente e accidentalmente infelice, la miseria destinata ed inevitabile alla nostra specie, la nullitá e noia inerente ed essenziale alla nostra vita, insomma l’idea che la vita nostra per se stessa non sia un bene, ma un peso e un male, non è mai entrata in intelletto antico, né in intelletto umano avanti questi ultimi due secoli. Anzi gli antichi si uccidevano o disperavano appunto per l’opinione e la persuasione di non potere, a causa di sventure individuali, conseguire e godere quei beni che essi stimavano ch’esistessero.
Vedi anche il Dialogo di Plotino e Porfirio.
E nell’autogr. a p. 52, I. ultima, nota: Laertius, I, 12, Plato in fine Phaedri; — a pp. 55, I. 12, Parte primera de la Chronica del Perú de Pedro de Cieza de Leon, en Anvers 1554, con la minuziosa indicazione delle pagine.
pag. 157, I - 6: Bartoli, Missione al Mogor, pp. 59-63 (dell’ediz. di Roma, 1714).
ivi I. 7-10: Meursii, Opp., t. I, pp. 651-2; Forcellini in Menoeceus; Cicero, Tuscul., I, 48.
pag. 159. I - 23: Buhle, Storia della Filosofia, Milano, 1828, t. III, pp. 200-1, 206.
pag. 60, 1. 23: «Questo fatto è vero», come ha riportato nella sua nota.
DIALOGO D’UN FISICO E D’UN METAFISICO
23-25 novembre 1820, Z. 353 (I, 410):
Ho veduto le lezioni di un tedesco, il signor Hufeland, dell’arte di prolungare la vita, lezioni dettate da lui per una cattedra ch’egli occupava, dedicata espressamente a quest’arte. Prima bisognava insegnare a render la vita felice, e quindi a prolungarla.
Infelicissima com’è, stimerei molto piú chi m’insegnasse ad abbreviarla, perché non ho mai saputo che sia degno di lode e giovi al pubblico colui che insegna a prolungare l’infelicitá. Invece di fondare queste cattedre che sono al tutto straniere, anzi contrarie alla natura dei tempi, i principi dovrebbero procurare che la vita dell’uomo fosse piú felice, ed allora saremmo grati a chi c’insegnasse a prolungarla. Se la durata fosse un bene per se stessa, allora sarebbe ragionevole il desiderio di viver lungamente in qualunque caso.
E proprio avanti questo «pensiero»:
Insomma, conviene che il filosofo si ponga bene in mente che la vita per se stessa non importa nulla, ma il passarla bene e felicemente; o, se non altro, anzi soprattutto, il non passarla male e infelicemente. E perciò non riponga l’utilitá in quelle cose che semplicemente aiutano, conservano ecc., la vita considerata quasi fosse un bene per se stessa, ma in quelle che la rendono un bene, cioè felice da vero.
8 febbraio 1821, Z. 626-27 (II, 99):
Lo scopo dei governi, siccome quello dell’uomo, è la felicitá dei governati. Forse che la felicitá e la diuturnitá della vita sono la stessa cosa? Hanno sempre che dire delle turbolenze e pericoli degli antichi stati, e pretendono che costassero all’umanitá molto piú sangue e molte piú vite che non costano i governi ordinati e regolari e monarchici, ancorché guerrieri, ancorché tirannici. Sia pure; che ora non voglio contrastarlo. Orsú, ragguagliamo le partite, dirò cosí, delle vite. Poniamo che negli stati presenti che si chiamano ordinati e quieti, la gente viva, un uomo per l’altro, settantanni l’uno; negli antichi che si chiamano disordinati e turbolenti, vivessero cinquanta soli anni, a distribuir tutta la somma delle vite ugualmente fra ciascheduno; e che quei settant’anni siano tutti pieni di noia e di miseria, in qualsivoglia condizioni individuale, che cosí pur troppo accade oggidí; quei cinquanta pieni di attivitá e varietá, ch’è il solo mezzo di felicitá per l’uomo sociale. Domando io, quale dei due stati è il migliore? quale dei due corrisponde meglio allo scopo, che è la felicitá pubblica e privata, insomma la felicitá possibile degli uomini come uomini? cioè felicitá relativa e reale e adattata e realizzabile in natura, tal qual ella è, non riposta nelle chimeriche e assolute idee di ordine e perfezione matematica. Oltracciò domando: la somma vera della vita dov’è maggiore? in quello stato dove gli uomini, ancorché vivessero cent’anni l’uno, quella vita monotona e inattiva sarebbe, com’è realmente, esistenza, ma non vita; anzi, nel fatto, un sinonimo di morte? ovvero in quello stato dove l’esistenza ancorché piú breve tutta però sarebbe vera vita?
Su questo confronto tra l’intensitá della vita degli antichi e la durata della esistenza dei moderni torna il 16 luglio ’21: ma piú interessante è questa trascrizione del Barthélemy.
25 febbraio 1823, Z. 2676 (IV, 370):
Dans les transports de sa joie (Cydippe la prètresse de Junon), elle supplia la déesse d’accorder à ses fíls (Biton et Cleobis) le plus grand des bonheurs. Ses voeux furent, dit-on, exaucés: un doux sommeil les saisit dans le tempie même (de Junon entre Argos et Mycènes) et les fit tranquillement passer de la vie à la mort; comme si les dieux n’avoient pas de plus grand bien à nous accorder, que d’abréger nos jours. (Herodotus, I, 31; Axiochus ap. Platonem, T. III, p. 367; Cicero, Tusculanae, I, 47; Valerius Maximus, V, 4; Stobei, Sermon. 169, p. 603; Servius et Philargirius in Georgicam, III, 532.
Voyage d’Anacharsis ch. 53, T. IV, pp. 343-4.
Aggiungi Plutarco nel libro della consolazione ad Apollonio: volgarizzamento di Marcello Adriani il giovine; Firenze 1819 T. I, p. 189 e vedi ciò ch’egli soggiunge a questo proposito.
L’Autografo ha anche molte postille marginali:
a pag. 63, l. 13 segg. Plutarchi, Opp., I, 108-9, Stobaeus, p. 364.
ivi l. ultima: Buffon (ed. Venezia 1782-91) T. 3, 6, 53 e 121; e a p. 64, 1. 5: ibid., p. 137. Vedi però Le Vaillant.
pag. 65 1. 9-10: Eusebii Chron.; Goguet (Origine delle scienze e delle arti, Lucca, 1761) T. 3. Dissertaz. sui Cinesi; Annali di scienze e lettere, 1811, n. 23, p. 35 fine: Arriani, Indica, c. 9 — Nicolai, Lezione 36, T. 3, p. 223; Phlego, De mirabilibus.
ivi 1. 11: Buffon, T. I, p. 365, 6 per gli efimeri Genovesi, I, p. 26 (Meditazioni filosofiche su la Religione e su la Morale, 1758).
ivi 1. 31: Fabricius, Biblioth. graeca, IX, 641.
a pag. 66 1. 27: Stobaeus, p. 366 adversa.DIALOGO DI TORQUATO TASSO
E DEL SUO GENIO FAMILIARE
Prima di compilar la sua nota (p. 228) il L. aveva scritto questo appunto:
Muratori, Della forza della fantasia umana, cap. 9; ediz. 6»; Venezia, 1779, pp. 91-2 — dove è infatti riferito dalla Vita di T. Tasso di G. B. Manso il racconto dell’allucinazione del poeta e della sua conversazione collo spirito buono, cui il Manso fu presente. —
Ma il piú dei pensieri vengono da certi commenti a passi della marchesa di Lambert che il L. andava, nei primi del ’21, trascrivendo.
13 febbraio 1821, Z. 655 (II, 115):
Plus il y a de monde (cioè piú gente ci sta dintorno, piú ci troviamo in mezzo al mondo attualmente) et plus les passions acquièrent d’autoritè. M.me De Lambert, A vis d’une mère à sa fille (Oeuvres, p. 81).
Un philosophe assurait... «que plus il avait vu de monde, plus les passions acquéroient d’autorité» / Lettre à Madame de***, p. 395.
Così è generalmente; ma all’uomo veramente sventurato accade tutto il contrario. Ogni volta ch’egli si presenta nel mondo, vedendosi respinto, il suo amor proprio mortificato, i suoi desidèri frustrati o contrariati, le sue speranze deluse, non solamente non concepisce veruna passione, fuorché quella della disperazione, ma, per lo contrario, le sue passioni si spengono. E nella solitudine essendo lontane le cose e la realtá, le passioni, i desidèri, le speranze se gli ridestano.
E ancora pochi giorni dopo: 20 febbraio 1821, Z. 678 sgg. (II, 128 sgg.):
Nous n’avons qu’une portion d’attention et de sentiment; dès que nous nous livrons aux objects extérieurs, le sentiment dominant s’affoiblit: nos desirs ne sont-ils pas plus vifs et plus forts dans la retraite? M.me De Lambert, Rèflexions nouvelles sur les femmes, p. 188.
La solitudine è lo stato naturale di gran parte, o piuttosto del piú degli animali e probabilmente dell’uomo ancora. Quindi non è meraviglia se nello stato naturale egli ritrova la sua maggior felicitá nella solitudine; e neanche se ci trova un conforto, giacché il maggior bene degli uomini deriva dall’ubbidire alla natura e secondare, quanto oggi si possa il nostro primo destino....
E vedi il seguito in Memorie della mía vita, da cui tuttavia riferisco qui queste linee:
L’uomo disingannato, stanco, esperto, esaurito di tutti i desidèri, nella solitudine a poco a poco si rifá, ricupera se stesso, ripiglia quasi carne e lena e, piú o meno vivamente, a ogni modo risorge, ancorché penetrantissimo d’ingegno e sventuratissimo. Come questo? Forse per la cognizione del vero? Anzi per la dimenticanza del vero, pel diverso e piú vago aspetto che prendono per lui quelle cose giá sperimentate e vedute, ma che ora, essendo lontane dai sensi e dall’intelletto, tornano a passare per la immaginazione sua e quindi abbellirsi. Ed egli torna a sperare e desiderare e vivere, per poi tutto riperdere e morire di nuovo, ma piú presto di prima se rientra nel mondo.
10 agosto 1821, Z. 1477 (III, 183):
Non v’è infelicitá umana la quale non possa crescere. Bensí trovasi un termine a quello medesimo che si chiama felicitá. Può trovarsi un uomo perfettamente fortunato, che nulla possa desiderare di piú, la cui felicitá non possa piú stendersi. Augusto era in questo caso. Ma un uomo tanto infelice che non possa immaginarsi maggiore infelicitá, infelicitá non solamente fantastica, non solamente possibile, ma realizzata bene spesso in questo o quell’individuo, per quella o per questa parte; un tal uomo non si dá. La fortuna può dire a molti: — Io non ho maggior potere di beneficarti; — ma nessuno può mai vantarsi e dire alla fortuna: — Tu non hai forza di nuocermi davvantaggio e di aumentare i miei dolori. — Può mancar che sperare; ma nessuno mancherá mai di che temere. La disperazione stessa non basta ad assicurar l’uomo. Nessuno può vantarsi o sdegnarsi con veritá, dicendo: — Io non posso esser piú infelice di quel che sono. —
Intorno al «piacere» sempre futuro o passato, onde «propriamente parlando, il piacere è un ente o una qualitá di ragione e immaginario» (12 ottobre ’22) il L. insiste molte volte: ma la dimostrazione dialettica principale è del 20 gennaio 1821, Z. 532 sgg. (II, 46 sgg.):
Il piacere umano (cosí probabilmente quello di ogni essere vivente in quell’ordine di cose che noi conosciamo) si può dire che è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro. L’atto proprio del piacere non si dá. Io spero un piacere; e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere. Io ho provato un piacere, ho avuto una buona ventura; questo non è piacevole, se non perché ci dá una buona idea del futuro, e ci fa sperare qualche godimento piú o meno grande; ci apre un nuovo campo di speranze, ci persuade di poter godere, ci fa conoscere la possibilitá di arrivare a certi desidèri, ci mette in migliori circostanze pel futuro sia riguardo al fatto e alla realtá, sia riguardo alla persuasione nostra, ai successi, alle prosperitá che ci promettiamo dietro quella prova, quel saggio fàttone ecc.
E si veda il seguito in Studi e frammenti di filosofia in quella che il L. chiama la sua Teoria del piacere.
7 ottobre 1823, Z. 3622 (VI, 68-69):
Sempre che l’uomo non prova piacere alcuno, ei prova noia, se non quando o prova dolore o vogliamo dir dispiacere qualunque, o e’ non s’accorge di vivere. Or dunque, non accadendo mai propriamente che l’uomo provi piacer vero, segue che mai per niuno intervallo di tempo ei non senta di vivere, che ciò non sia o con dispiacere o con noia. Ed essendo la noia pena e dispiacere, segue che l’uomo, quanto ei sente la vita, tanto ei senta dispiacere e pena. Massime quando l’uomo non ha distrazioni, o troppo deboli per divertirlo potentemente dal desiderio continuo del piacere, cioè insomma quando egli è in quello stato che noi chiamiamo particolarmente di noia.
Su questo medesimo soggetto torna il 17 ottobre, p. 3713 (VI, 126) e 13 novembre p. 3879 sgg. (VI, 259) in appunti notati per le sue Memorie. Nelle quali piú volte accenna alle «consolazioni» del vino.
14 novembre 1820, Z. 324 (I, 391):
Il vino è il piú certo e, senza paragone, il piú efficace consolatore.
E 5 novembre 1823, Z. 3835 (VI, 219):
L’esaltazione di forze proveniente da’ liquori o da’ cibi o da altro accidente (non morboso) se non cagiona, come suole sovente, un torpore e una specie di assopimento letargico (come diceva il re di Prussia), essendo un accrescimento di vita, accresce l’effetto essenziale di essa che è il desiderio del piacere; perocché coll’intensitá della vita cresce quella dell’amor proprio, e l’amor proprio è desiderio della propria felicitá, e la felicitá è piacere.
E continua, e ritorna sull’argomento due giorni dopo p. 3847, p. 3882, e 39°5 (2 4 novembre 1823):
E da notare che l’ubbriachezza ecc., anche quando esalta le forze e cagiona una non ordinaria vivacitá ed attivitá ed azione esteriore o l’uno o l’altro, sempre però o quasi sempre cagiona eziandio nel tempo stesso una specie di letargo, di irriflessione, di αναισθησία.
Vedi le Memorie della mia vita.
DIALOGO DELLA NATURA E D’UN ISLANDESE
I richiami ai frammenti di quella che avrebbe dovuto esser «l’opera della sua vita»: Della natura degli uomini e delle cose, potrebbero esser molti: mi limito ai piú essenziali.
20 agosto 1821, Z. 1530-31 (III, 215):
A quello che ho detto altrove per iscusar gl’inconvenienti accidentali che occorrono nel sistema della natura, soggiungete che talvolta, anzi spessissimo, essi non sono inconvenienti se non relativi, e la natura li ha ben preveduti; ma, lungi dal prevenirli li ha per contrario inclusi nel suo grand’ordine e disposti a’ suoi fini. La natura è madre benignissima del tutto ed anche dei particolari generi e specie che in esso si contengono, ma non degl’individui. Questi servono soltanto a loro spese al bene del genere, della specie e dei tutto, al quale serve pure talvolta con proprio danno la specie e il genere stesso. È giá notato che la morte serve alla vita e che l’ordine naturale è un cerchio di distruzione e riproduzione e di cangiamenti regolari e costanti quanto al tutto, ma non quanto alle parti, le quali accidentalmente servono agli stessi fini ora in un modo ora in un altro. Quella quantitá di uccelli che muore nella campagna coperta di neve, per mancanza di alimenti, la natura non l’ignora, ma ha i suoi fini in questa medesima distruzione, sebben ella non serva immediatamente a nessuno. Per lo contrario, la distruzione degli animali che fanno gli uomini o altri animali alla caccia serve immediatamente ai cacciatori, ed è un inconveniente accidentale e una disgrazia per quei poveri animali; ma inconveniente relativo e voluto dalla natura che li ha destinati per cibo ecc. ad altri viventi piú forti.
E proprio mentre cominciava a scrivere il dialogo: 11 maggio 1824, 4087 (VII, 8):
Non è forse cosa che tanto consumi ed abbrevii e renda nel futuro infelice la vita quanto i piaceri. E da altra parte la vita non è fatta che per il piacere; poiché non è fatta se non per la felicitá, la quale consiste nel piacere, e senza di essa è imperfetta la vita, perché manca del suo fine; èd è una continua pena, perch’ella è naturalmente e necessariamente un continuo e non mai interrotto desiderio e bisogno di felicitá, cioè di piacere. Chi mi sa spiegare questa contraddizione in natura?
E ci tornava su il 2 giugno 24, Z. 4099 (VII, 54):
Non si può meglio spiegare l’orribile mistero delle cose e della esistenza universale (vedi il mio Dialogo della Natura e d’un Islandese, massime in fine) che dicendo essere insufficienti ed anche falsi non solo l’estensione, la portata e le forze, ma i principi stessi fondamentali della nostra ragione. Per esempio, quel principio, estirpato il quale cade ogni nostro discorso e ragionamento ed ogni nostra proposizione, e la facoltá stessa di poterne fare e concepire dei veri, dico quel principio: «Non può una cosa insieme essere e non essere» pare assolutamente falso, quando si considerino le contraddizioni palpabili che sono in natura. L’essere effettivamente, e il non potere in alcun modo esser felice, e ciò per impotenza innata e inseparabile dall’esistenza, anzi pure il non poter non essere infelice, sono due veritá tanto ben dimostrate e certe intorno all’uomo e ad ogni essere vivente quanto possa esserlo veritá alcuna secondo i nostri principi e la nostra esperienza.
Or l’essere, unito all’infelicitá ed unitovi necessariamente e per propria essenza, è cosa contraria direttamente a se stessa alla perfezione e al fine proprio, che è la sola felicitá, dannoso a se stesso e suo proprio inimico. Dunque l’essere dei viventi è in contraddizione naturale, essenziale e necessaria con se medesimo. La qual contraddizione apparisce ancora nella essenziale imperfezione dell’esistenza (imperfezione dimostrata dalla necessitá di essere infelice e compresa in lei); cioè nell’essere, ed essere per necessitá imperfettamente, cioè con esistenza non vera e propria....
Del resto, e in generale, è certissimo che nella natura delle cose si scoprono mille contraddizioni, in mille generi e di mille qualitá, non delle apparenti, ma delle dimostrate con tutti i lumi e l’esattezza la piú geometrica della metafisica e della logica; e tanto evidenti per noi (pianto lo è la veritá della proposizione. Non può una cosa a un tempo essere e non essere. Onde ci bisogna rinunziare alla credenza o di questa o di quelle. Ed in ambo i modi rinunzieremo alla nostra ragione.
L’autogr. nota:
a p. 75 1. n: La Perouse, T. I, 101-102.
a p. 76 I. 1: Encyclopédie (métodique, Padova, 1784 sgg.) Hist. natur.: Serpens. art. Serpens á sonnette.
a p. 79 1. 17: Buffon, T. III, pp. 8-9; Martinière, art. Lapons.
IL PARINI OVVERO DELLA GLORIA
Le difficoltá di conseguire la gloria, un vago senso della vanitá dell’averla conseguita tormentarono lungamente il L. giovine; e il discorso, tutto messo assieme di pensieri sparsi qua e lá nello Zibaldone, è attribuito al Parini, certo in ricordo e a svolgimento di quello che il Foscolo gli attribuí (Ortis, lett. 4 decembre). Qui riferisco solo i passi più notevoli.
18 giugno 1820, Z. 127 (I, 236):
La gloria non è una passione dell’uomo primitivo affatto e solitario; ma la prima volta che una truppa d’uomini s’uni per uccidere qualche fiera, o per qualche altro fatto dov’ebbero mestieri dell’aiuto scambievole, quegli che mostrò piú valore senti dirsi: — bravo, schiettamente e senza adulazione dalla gente che ancor non conoscea questo vizio. La qual parola gli piacque forte; e cosí egli come qualche altro spirito magnanimo che sará stato presente sentirono per la prima volta il desiderio della lode. E cosí nacque l’amor della gloria.
La qual passione è cosí propria dell’uomo in societá e cosí naturale, che anche ora, in tanta morte del mondo e mancanza di ogni sorta di eccitamenti, nondimeno i giovani sentono il bisogno di distinguersi, e non trovando altra strada aperta come una volta, consumano le forze della loro giovanezza e studiano tutte le arti, e gettano la salute del corpo e si abbreviano la vita, non tanto per l’amor del piacere, quanto per esser notati e invidiati, e vantarsi di vittorie vergognose, che tuttavia il mondo ora applaude, non restando a un giovane altra via di far valere il suo corpo e procacciarsene lode, che questa. Giacché ora pochissimo anche all’animo; ma tuttavia all’animo resta qualche parte di gloria; ma al corpo, che è quella parte che fa il piú, e nella quale consiste per natura dalle cose il valore della massima parte degli uomini, non resta altra strada.
Per queste osservazioni, si vedano anche i Detti di F. Ottonieri.
E pochi giorni dopo (22 giugno, Z. 130-31 (1, 238):
A quello che ho detto a p. 128 aggiungi:
Il giovane che entra nel mondo vuol diventarci qualche cosa. Questo è un desiderio comune e certo di tutti. Ma oggidí il giovane privato non ha altra strada a conseguirlo, fuorché quella che ho detto, o l’altra della letteratura che rovina parimenti il corpo. Cosí la gloria d’oggidi è posta negli esercizi che nuocciono alla salute, in luogo che una volta era posta nei contrari. E cosí per conseguenza s’infiacchiscono sempre piú le generazioni degli uomini; e questo effetto della mancanza d’illusioni esistenti nel mondo, come una volta, divien cagione di questa stessa mancanza, a motivo del poco vigore; secondo quello che ho detto negli altri pensieri, della necessitá del vigor del corpo alle grandi illusioni dell’animo. Sono poi troppo noti gli spaventosi effetti della ordinaria vita d’oggidi, che a poco a poco ridurranno il mondo a uno spedale. Ma che rimedio ci trovereste? Che altra occupazione resta oggi a un giovane privato, o che altra speranza? E credete che un giovane si possa contentare di una vita inattiva, senza nessuna vista e nessuna aspettativa, fuorché di un’eterna monotonia e di una noia immutabile? Anticamente la vanitá era considerata come propria delle donne, perché anche nelle donne c’è lo stesso desiderio di distinguersi, e ordinariamente non ne hanno avuto altro mezzo che quello della bellezza. Quindi il loro cultus sui, il quale diceva Celso che adimi foeminis non potest. Ora resta intorno alla vanitá la stessa opinione, che sia propria delle donne; ma a torto, perché è propria degli uomini quasi egualmente, essendo anche gli uomini ridotti alla condizione appresso a poco delle femmine, rispetto alla maniera di figurare nel mondo, e l’uomo vecchio, per la massima parte, è divenuto inutile e spregevole e senza vita né piaceri, né speranze, come la donna comunemente soleva e suol divenire, che, dopo aver fatto molto parlar di sé, sopravvive alla sua fama invecchiando.
Per quanto si riferisce alla capacitá di giudicar di cose letterarie, il 20 agosto 1820, Z. p. 227 (I, 325):
Come le persone di poca immaginazione e sentimento non sono atte a giudicare di poesia o scritture di tal genere, e leggendole e sapendo che sono famose, non capiscono il perché a motivo che non si sentono trasportate e non s’immedesimano in verun modo collo scrittore, e questo quando anche siano di buon gusto e giudizio; cosí vi sono molte ore, giorni, mesi, stagioni, anni in cui le stesse persone di entusiasmo ecc., non sono atte a sentire e ad esser trasportate, e però a giudicare rettamente di tali scritture. Ed avverrá spesso per questa ragione che un uomo, per altro capacissimo giudice di bella letteratura e d’arti liberali, concepisca diversissimo giudizio di due opere egualmente pregevoli. Io l’ho provato spesse volte. Mettendomi a leggere coll’animo disposto, trovava tutto gustoso, ogni bellezza mi risaltava all’occhio e mi riempieva di entusiasmo.... Altre volte mi poneva a leggere coll’animo freddissimo; e le piú belle, piú tenere, piú profonde cose non erano capaci di commuovermi ecc....
Questa considerazione deve servire: 1. a spiegare la diversitá dei giudizi in persone egualmente capaci, diversitá che s’attribuisce sempre a tutt’altro; — 2. a non fidarsi troppo dei giudizi anche dei piú competenti e di se stesso, ed introdurre un pirronismo necessario anche in questa parte. Il pubblico ed il tempo non vanno soggetti, nei loro giudizi, a questo inconveniente.
Ancora: 5 ottobre 1820, Z. 263 (I, 352):
Una cosa stimabile non può essere apprezzata degnamente se non da quelli che ne conoscono il valore. Perciò la raritá non porta sempre con sé la stima della cosa, anzi spessissimo l’impedisce. Un uomo di grande ingegno fra gl’ignoranti o è disprezzato o apprezzato senza ammirazione, senza entusiasmo, senza nessuno di quegli affetti che paiono conseguenze infallibili dello straordinario, e che debbano crescere tanto piú quanto la cosa è piú straordinaria relativamente. Il conto che se ne fa è come di uno che abbia un utensile migliore degli altri, i quali talvolta lo chiedono in prestito o se ne servono presso chi lo possiede e non perciò stimano che quell’uomo sia una gran cosa o superiore agli altri, a cagione di quel piccolo vantaggio compensabile e paragonabile con tanti altri. Cosí le scritture di buon gusto in un secolo o paese corrotto o ignorante, cosí la sensibilitá massimamente e l’entusiasmo, il quale anzi dalle persone ordinarie sará stimato piuttosto un μειονέκτημα che un πλεονέκτιμα e deriso come pazzia. Cosí si è veduto che, eccetto i pregi sensibili e de’ quali tutti sanno giudicare naturalmente, tutti gli altri sono stati assai meno stimati nei secoli e nei luoghi dove sono stati piú rari. Ed è cosa certa che un grande ingegno non può essere intimamente conosciuto, e però degnamente apprezzato e ammirato, se non da un altro grande ingegno; e cosí le sue opere; cosí tutto quello che spetta a discipline, arti abilitá particolari; onde, per esempio un grande uomo di guerra non riscuoterá degna ammirazione che da un altro grand’uomo dello stesso mestiere.
E rimanda all’esempio: v. p. 273, 14 ottobre (I, 359):
Spessissimo, quelli che sono incapaci di giudicare di un pregia se ne formeranno un concetto molto piú grande che non dovrebbero, lo crederanno maggiore assolutamente, e con tutto ciò, la stima che ne faranno sará infinitamente minore del giusto; sicché relativamente considereranno quel tal pregio come molto minore. Nella mia patria, dove sapevano ch’io era dedito agli studi, credevano ch’io possedessi tutte le lingue, e m’interrogavano indifferentemente sopra qualunque di esse. Mi stimavano poeta, rettorico, fisico, matematico, politico, medico, teologo ecc., insomma enciclopedicissimo. E non perciò mi credevano una gran cosa, e per l’ignoranza, non sapendo cosa sia un letterato, non mi credevano paragonabile ai letterati forestieri, malgrado la detta opinione che avevano di me. Anzi, uno di coloro, volendo lodarmi, un giorno mi disse: — A voi non disconverrebbe di vivere qualche tempo in una buona cittá, perché quasi quasi possiamo dire che siete un letterato. —
Ma s’io mostrava che le mie cognizioni fossero un poco minori ch’essi non credevano, la loro stima scemava ancora e non poco, e finalmente io passava per uno del loro grado. È vero però che talvolta può succedere il contrario; e per un’opinione simile, in tempi e luoghi ignoranti, un uomo o un pregio piccolo conseguire una somma stima.
8-10 novembre 1820, Z. p. 306 (I, 380):
Appelliamo tutto giorno ai posteri. Nelle cose dove alla giustizia, al retto giudizio, alle retribuzioni dovute nuocono i difetti o vizi de’ contemporanei in quanto contemporanei, va bene. Ma in tutto il resto, in tutto quello che spetta ai vizi degli uomini come uomini, o come animali depravati, non so quanto ci gioverá quest’appellazione. Se potessimo appellare ai passati, saremmo piú fortunati; ma il costume del mondo è stato sempre di peggiorare, e che il futuro fosse sempre peggiore del presente e del passato. Le generazioni migliori non sono quelle davanti, ma quelle di dietro; e non c’è speranza che il mondo cambi costume e rinculi invece di avanzare; e avanzando, giá non può fare altro che peggiorare. Massime a questi tempi e costumi presenti, non par che possa succedere né derivare altro che tempi e costumi peggiori. Vediamo dunque che cosa ci resti a sperare dalla posteritá.
Quid autem interest ab iis qui postea nascentur sermonem fore de te, cum ab iis nullus fuerit qui ante nati sint, qui nec pauciores et certe meliores fuerunt viri?
L’Affricano maggiore al minore, presso Cicerone, Somnium Scipionis, c. 7.
(Nota trascritta il 1 febbraio 21, Z. 193, con rimando alla traduzione che ne fece dieci giorni dopo).
E 23 decembre 1820, Z. 455 (I, 480):
Come in quei popoli che non conoscono o non pregiano oro né argento, il piú ricco de’ nostri, profondendo danaio, non sarebbe in onore; anzi, se non avesse altro mezzo per esser pregiato, sarebbe posposto all’infimo di quella gente, e per denari non otterrebbe neanche il necessario; cosí dove l’ingegno o lo spirito non è in pregio o non si sa valutare, l’uomo il piú ingegnoso, il piú spiritoso, il piú grande, se non avrá altre doti, sará dispregiato e posposto agli ultimi. Cosí s’egli avrá un certo ingegno o un certo spirito che in quel paese non si pregi. Cosí relativamente ai tempi. In ciascun luogo e in ciascun tempo bisogna spendere la moneta corrente. Chi non è provveduto di questa è povero, per molto ch’egli sia ricco d’altra moneta.
20 marzo 1821, Z. S26 (II, 207):
An censes (ut de me ipso aliquid more sentivi glorier) me tantos labores diurnos nocturnosque, domi militiaeque suscepturum fuisse, si iisdem finibus gloriavi meam quibus vitam, essem terminaturus? Nonne melius multo fuisset otiosam aetatem et quietam, sine ullo labore aut contentione traducere? Sed nescio quomodo, animus erigens se, posteritatem semper ita prospiciebat, quasi cum excessisset a vita tum denique victurus esset; quod quidem ni ita se haberet, ut animi immortales essent, haud optimi cuiusque animus maxime ad immortalem gloriam niteretur. Cicerone, Cato maior, cap. ult.
Tanto è vero che il piacere è sempre futuro e non mai presente, come ho detto in altri pensieri. Con la quale osservazione io spiego questo che Cicerone dice, e quello che vediamo negli uomini di certa fruttuosa ambizione; dico quella speranza riposta nella posteritá, quel riguardare, quel proporsi per fine delle azioni, dei desidèri, delle speranze nostre la lode ecc. di coloro che verranno dopo di noi. L’uomo da principio desidera il piacer della gloria nella sua vita, cioè presso i contemporanei. Ottenutala, anche interissima e somma, sperimentato che questo, che si credeva piacere, non solo è inferiore alla speranza (quando anche la gloria in effetto fosse stata maggiore della speranza) ma non piacere; e trovatosi, non solo non soddisfatto, ma come non avendo ottenuto nulla e come se il suo fine restasse ancora da conseguire (cioè il piacere infatti non ottenuto, perché non è mai se non futuro, non mai presente); allora l’animo suo erigens se, quasi fuor di questa vita, posteritatem respicit, come che dopo morte tum denique victurus sit, cioè debba conseguire il fine, il complemento essenziale della vita che è la felicitá, vale a dire il piacere non conseguito ancora, e giá troppo evidentemente non conseguibile da lui in questa vita; allora la speranza del piacere, non avendo più luogo dove posarsi, né oggetto al quale indirizzarsi dentro ai confini di questa vita, passa finalmente al di lá e si ferma ne’ posteri, sperando l’uomo da loro e dopo morte quel piacere che vede sempre fuggire, sempre ritrarsi, sempre impossibile e disperato di conseguire, di afferrare in questa vita.
15 settembre 1821, Z. 1708 (III, 323):
Da ciò che altrove ho detto di Machiavello, Galileo, ecc., che travagliarono a distruggere la propria fama, si può confermare e amplificare la sentenza di Cicerone circa la gloria nel Sogno di Scipione.
E dalla distinzione che quivi ho fatta tra la fama dei letterali e degli scienziati, si può dedurre questa osservazione. Il vero è immutabile e i gusti mutabilissimi. Parrebbe che lo stato delle scienze dovesse esser piú costante che della letteratura e la fama degli scienziati piú durevole [di quella] dei letterati. Pure accade tutto l’opposto. Le scienze, come dicono, si perfezionano col tempo, e la letteratura si guasta. Un secolo distrugge la scienza del secolo passato; la letteratura resta immobile o, se si muta, si riconosce ben tosto per corrotta e si torna indietro. Che cosa dunque è piú stabile, la natura o la ragione? E che cosa è la nostra pretensione di conoscere il vero? Gli antichi si immaginavano di conoscerlo al pari di noi. Che cosa è lo stesso vero? quali sono le veritá assolute? quando non siamo punto sicuri che il venturo secolo non dubiti di ciò che noi teniamo per certo; anzi, mirando all’esempio di tutti i secoli passati e del nostro, siamo sicuri del contrario.
15 marzo 1823, Z. 2683 (IV, 375):
«Invero rare volte interviene che chi non è assueto a scrivere, per erudito ch’egli si sia, possa mai conoscer perfettamente le fatiche ed industrie degli scrittori, né gustar la dolcezza ed eccellenza degli stili e quelle intrinseche avvertenze che spesso si trovano negli antichi.»
Castiglione, Cortegiano, Milano, dalla Societá tipogr. dei Classici italiani, 1803, p. 79.
Da quanto pochi adunque può sperar degna, vera ed intima e piena e perfetta stima e lode il perfetto scrittore o poeta! e per quanto pochi scrive e prepara piaceri colui che scrive perfettamente.
E, tornandoci su il 19 giugno, Z. 2796 (IV, 437):
Da questa verissima osservazione del Castiglione segue che tutte le immense fatiche che un perfetto scrittore deve spendere per dare a’ suoi scritti la finitezza, la grazia, la leggiadria, la nobiltá, la forza, insomma la bellezza della lingua, non possono esser né valutate, né gustate, neppur sentite dagli stranieri che non sono «assueti a scrivere» quella tal lingua, o non sono assueti a scriverla bene, il che è tutt’uno; e quindi elle sono tutte gittate per gli stranieri e tutte inutili alla gloria dello scrittore riguardo agli esteri. Ma quanta parte dello stile è quasi tutt’uno colla lingua! Anzi chi può veramente o gustare o giudicare dello stile di un’opera, non potendo della lingua? E si può ben dire che ogni lingua ha il suo stile o i suoi stili, che non si possono, non che giudicare, appena ben concepire, se non si è in grado di giudicare e gustare quella tal lingua perfettamente, anzi di bene scriverla; perché neppure i nazionali gustano quegli stili, se non sono sperimentati nello scrivere la propria lingua. Dunque, neppure i pregi dello stile possono esser valutati dagli stranieri, e tanto meno quanto egli è più perfetto, divenendone i pregi del suo stile come oggetti finissimi che sfuggono interamente alle viste deboli e ottuse, laddove se essi fossero stati piú grossolani sarebbero potuti esser veduti. Ora quanta parte di un’opera è lo stile! Togliete i pregi dello stile ad un’opera che voi credete di stimare principalmente per i pensieri, e vedete quanta stima ne potete piú fare. Dunque gli stranieri non sono assolutamente in grado né di valutare né di gustare nessuna opera di un perfetto scrittore, nemmeno, se non imperfettissimamente, per la parte dei pensieri. Dunque tutta la vera, piena e ragionata stima che si può fare d’un perfetto scrittore si restringe dentro i limiti della sua nazione. E tra’ suoi nazionali, quanti sono che sappiano bene scrivere, e quindi ben gustarlo e valutarlo? Che cosa è dunque quella gloria per cui tanto ha sudato un perfetto scrittore, per cui ha forse speso in una sola opera tutta la vita? E quanto piacere ed a quanti procura questa tale opera tanto lungamente e studiosamente travagliata e sudata, a solo fine ch’ella procurasse sommo e pieno e perfetto piacere? E in veritá, quanto alle opere di letteratura, tutte le sopraddette cose e le conseguenze che io ne traggo sussistono a tutto rigore.
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Colla medesima proporzione che altri viene perfettamente e veramente conoscendo e intendendo le difficoltá del bene scrivere, egli impara a superarle. Né prima si conosce e intende compiutamente, intimamente, distintamente e a parte a parte tutta la difficoltá dell’ottimo scrivere, che altri sappia giá ottimamente scrivere. E ciò per la stessa ragione per cui l’arte di bene scrivere, e il modo, e che cosa sia il bene scrivere non può essere compiutamente conosciuto e inteso se non da chi compiutamente possegga la detta arte, cioè sappia interamente metterla in opera. Sicché in un tempo medesimo e si conosce la difficoltá del perfetto scrivere, e s’impara il modo di vincerla e se n’acquista la facoltá. E solo colui che sa perfettamente scrivere ne comprende sino al fondo tutta la difficoltá, né altrimenti può mai bene scrivere, ancorch’ei giá sappia compiutamente farlo, che con grandissima difficoltá. Coloro che male scrivono stimano che il bene scrivere sia cosa facile, e scrivono al loro modo agevolmente, credendosi di scriver bene. E peggio e’ sogliono scrivere, piú facile stimano che sia lo scriver bene, e piú facilmente scrivono. Il considerare il bene scrivere per cosa molto difficile è certissimo segno di esser giá molto avanzato nel sapere scrivere, purché questo tale sia veramente ed intimamente persuaso della difficoltá ch’ei dice, e non lo affermi solo a parole e mosso da quello ch’ei ne intende dire, e dalla voce comune (perocché anche chi non sa scrivere dice che il bene scrivere è molto difficile; ma e’ nol dice per coscienza, né per prova, né con vera persuasione; e s’egli è uno di quelli che s’intrigano di scrivere e che presumono di saperlo fare, certo è ch’egli in veritá non crede che ciò sia difficile come comunemente si dice, e com’ei pur dice cogli altri). Per lo contrario lo stimare che il bene scrivere sia cosa facile o poco difficile, e il confidarsi di poterlo e saperlo agevolmente fare, o poterlo apprender con poco, è certo segno di non saper fare nulla e di esser sui principi nel possesso dell’arte, o molto indietro (cosí è generalmente di tutte le arti scienze ecc.). Da queste osservazioni si dèe raccogliere quanti possano esser quelli che perfettamente conoscano il pregio e stimino il travaglio, il sapere, l’arte e l’artifizio di una perfetta scrittura e di un perfetto scrittore.
7 settembre 1821, Z. 1650 (III, 287-8):
Quanto l’immaginazione contribuisca alla filosofia (ch’è pur sua nemica) e quanto sia vero che il gran poeta in diverse circostanze avria potuto essere un gran filosofo, promotore di quella ragione ch’è micidiale al genere da lui professato, e viceversa il filosofo gran poeta, osserviamo: — Proprietá del vero poeta è la facoltá e la vena delle similitudini (Omero, δ ποιητής, n’è il piú grande e fecondo modello). L’animo in entusiasmo nel caldo della passione qualunque ecc. ecc. discopre vivissime somiglianze fra le cose. Un vigore, anche passeggero, del corpo, che influisca sullo spirito, gli fa vedere dei rapporti fra cose disparatissime, trovare dei paragoni, delle similitudini astrusissime e ingegnosissime (o nel serio o nello scherzoso) gli mostra delle relazioni a cui egli non aveva mai pensato, gli dá insomma una facilitá mirabile di ravvicinare e rassomigliare gli oggetti delle specie le piú distinte, come l’ideale col piú puro materiale, d’incorporare vivissimamente il pensiero il piú astratto, di ridur tutto ad immagini e crearne delle piú nuove e vive che si possa credere. Né ciò solo mediante espresse similitudini o paragoni, ma col mezzo di epiteti nuovissimi, di metafore arditissime, di parole contenenti esse sole una similitudine ecc. Tutte facoltá del gran poeta, e tutte contenute e derivanti dalla facoltá di scoprire i rapporti delle cose, anche i menomi e piú lontani, anche delle cose che paion le meno analoghe ecc. Or questo è tutto il filosofo: facoltá di scoprire e conoscere i rapporti, di legare insieme i particolari e di generalizzare.
E il 4 ottobre, Z. 1833 (III, 393):
Chi non ha o non ha mai avuto immaginazione sentimento, capacitá di entusiasmo, d’eroismo d’illusioni vive e grandi, di forti e varie passioni, chi non conosce l’immenso sistema del bello, chi non legge o non sente, o non ha mai letto o sentito i poeti non può assolutamente essere un grande vero e perfetto filosofo; anzi non sará mai se non un filosofo dimezzato, di corta vista, di colpo d’occhio assai debole, di penetrazione scarsa, per diligente, paziente e sottile e dialettico e matematico ch’ei possa essere; non conoscerá mai il vero, si persuaderá e proverá colla possibile evidenza cose falsissime ecc. ecc. Non giá perché il cuore e la fantasia dicano sovente piú vero della fredda ragione, come si afferma, nel che non entro a discorrere; ma perché la stessa freddissima ragione ha bisogno di conoscere tutte queste cose, se vuol penetrare nel sistema della natura e svilupparlo.
E vedi Della natura degli uomini e delle cose in Studi e frammenti filosofici;, e anche gli Studi e frammenti letterari passim.
A p. 103, 1. 10 sgg. dell’autogr. notava: Thomas, Èloge de Descartes, n. 22, p. 143:
«Sa geometrie étoit si fort au dessus de son siècle, qu’il n’y avoit réellement que très peu d’hommes en état de l’entendre. C’est ce qui arriva depuis à Newon; c’est ce qui arrive á presque tous les grands hommes. Il faut que leur siècle coure apres eux pour les atteindre» (Trascritto il 2 luglio’24).
E la ripetuta citazione di Federico II:
«L’homme est fait pour agir et tu pretends penser» (Lettre á D’Alembert);
«L’homme est fait pour agir et non pour philosopher» (Epitre á D’Argenson).
DIALOGO DI FEDERICO RUYSCH E DELLE SUE MUMMIE
L’autografo ha in cima a questo dialogo:
Fontenelle, Èloge de M. Ruysch; Thomas, Èloge de Descartes, nota 32.
«Ruysch, un des plus grands hommes de la Hollande, anatomiste, médecin et naturaliste. Il porta à la plus grande perfection l’art d’injecter qui avait eté inventé par Graaf et Svammerdam. Perfectionner ainsi c’est être soi même inventeur. Sa méthode n’a jamais eté bien connue. Il eut un cabinet qui fut longtemps l’admiration de tous les étrangers et une des merveilles de la Hollande. Ce cabinet etoit compose d’une très grande quantitá de corps injectés et embaumés doni les membres avoient toute leur mollesse et qui conservoient un teini fleuri, sans dessechements et sans rides ecc.»
Il 24 febbraio 1S21, Z. 660 (II, 119):
Diogene, ἐρωτηθείς εἰ κακὸς ὁ θάνατος, πως, εἶπε, κακός, οὐ παρόντος οὐκ αἰσθανόμεθα; — Laerzio in Diogene Cynico, VI, 68; dalla nota del Menagio si rileva ch’egli l’ha inteso della insensibilitá dell’atto della morte.
17 ottobre 1820, Z. 281 (I, 364):
Il Buffon, Histoire naturelle de l’homme, combatte coloro i quali credono che la separazione dell’anima dal corpo debba essere dolorosissima per se stessa. A’ suoi argomenti aggiungi questo, che forse è il piú concludente. Se volessimo considerar l’anima come materiale, giá non si tratterebbe piú di separazione, e la morte non sarebbe altro che un’estinzione della forza vitale, in qualunque cosa consista, certo facilissima a spegnersi. Ma, considerandola come spirituale, è ella forse un membro del corpo che s’abbia a staccare, e perciò con gran dolore? O non piuttosto i legami tra lo spirito e la materia, qualunque sieno, certo non sono materiali; e l’anima non si svelle come un membro, ma parte naturalmente quando non può piú rimanere, nello stesso modo che una fiamma si estingue, e parte da quel corpo dove non trova piú alimento; nel che, per dire un’immagine, noi non vediamo né ci figuriamo neanche astrattamente nessuna violenza e nessun dolore, sia nel combustibile sia nella fiamma. La morte, nell’ipotesi della spiritualitá dell’anima, non è una cosa positiva, ma negativa; non una forza che la stacchi dal corpo, ma un impedimento che le vieta di piú rimanervi; posto il quale impedimento, l’anima parte da sé, perché manca il come abitare nel corpo, non perché una forza violenta ne la sradichi e rapisca. Giacché, se l’anima è spirito, non bisogna considerarla come parte del corpo, ma come ospite di esso corpo e tale che l’entrata e l’uscita sua sia facilissima, leggerissima e dolcissima, non essendovi mica nervi, né membrane né ecc. che ve la tengono attaccata o catene che ve la tirino quando deve entrarvi. E quando v’entra, la cosa è insensibile; e l’uomo certamente non se ne avvede; cosí la sua uscita dev’essere insensibile e tutta diversa dalla nostra maniera di concepire. Come l’uomo non s’accorge né sente il principio della sua esistenza, cosí non sente né s’accorge del fine; né v’è istante determinato per la prima conoscenza e sentimento di quello né di questo.
Il 21 ottobre, Z. 290 (I, 369) aggiunge:
L’uomo non si avvede mai del punto in cui egli si addormenta, per quanto voglia procurarlo. Ora il sonno non è il fine della vita, ma certo un interrompimento, e quasi un’immagine di esso fine; e se l’uomo non può sentire il punto in cui le sue facoltá vitali restano come sospese, molto meno quando sono distrutte. Forse anche si potrá dire che l’addormentarsi non è un punto, ma uno spazio progressivo piú o meno breve, un appoco appoco piú o meno rapido; e lo stesso si dovrá dir della morte. Di piú è certo che i momenti i quali precedono immediatamente il sonno e il punto o lo spazio dell’addormentarsi definitivamente, sebbene impercettibile, sono dilettevoli. Questo quando anche la cagione del sonno, come il languore, il travaglio, la malattia, la semplice debolezza non siano dilettevoli, anzi l’opposto; e però i momenti piú lontani dal sonno siano penosi. Anzi, anche il letargo proveniente da infermitá anche mortale, è dilettevole. Che il torpore sia dilettevole l’ho notato giá in questi pensieri nella Teoria del piacere, e assegnatane la ragione. Credo che su questo fondamento il napoletano Cirillo abbia opinato che la morte abbia un non so che di dilettevole. Nel che sono interamente con lui e non dubito che l’uomo (e qualunque animale) non provi un certo conforto e un tal quale piacere nella morte. Non giá che le cagioni di lei, e perciò i momenti piú lontani da lei siano dilettevoli; ma si bene i momenti che la precedono immediatamente e quello stesso punto o spazio impercettibile e insensibile in cui ella consiste. E ciò in qualunque malattia, anche nelle acutissime, nelle quali il Buffon pare che convenga che la morte possa esser dolorosa. Anzi, il torpore della morte dev’esser tanto piú dilettevole quanto maggiori sono le pene che lo precedono, e da cui esso, per conseguenza, ci libera. Quanto alle malattie dove l’uomo si estingue appoco appoco e con piena conoscenza fino all’ultimo, è certo che non v’è momento cosí immediatamente vicino alla morte dove l’uomo, anche il meno illuso, non si prometta un’ora almeno di vita, come si dice dei vecchi ecc. E cosí la morte non è mai troppo vicina al pensiero del moribondo, per la solita misericordia della natura1. E però generalmente e sempre, il torpore della morte dev’essere piú grato di quello del sonno, perché succede a molto maggior travaglio. Il qual sonno, come ho detto, non è mai penoso, quando anche sia cagionato da pene, anche da angoscie vive, come da febbre ardente ecc. Io bene spesso, trovandomi in gravi travagli o corporali o morali, ho desiderato non solamente il riposo; ma la mia anima si compiaceva naturalmente nell’idea di una insensibilitá illimitata e perpetua, di un riposo, di una continua inazione dell’anima e del corpo; la qual cosa, desiderata in quei momenti dalla mia natura, mi era nominata dalla ragione col nome espresso di morte, né mi spaventava punto. E moltissimi malati non eroi, né coraggiosi, anzi timidissimi, hanno desiderato e desiderano la morte in mezzo ai grandi dolori, e sentono un riposo in quell’idea; il quale sarebbe molto maggiore, se l’idea della morte non fosse accompagnata dai timori del futuro, e da cento altre cose estranee e d’altro genere. Del resto, il riposo ch’io desiderava allora mi piaceva piú che dovesse esser perpetuo, acciò non avessi dovuto ripigliare, svegliandomi, gli stessi travagli de’ quali ero si stanco.
Se la morte e il sonno siano un punto o uno spazio, non si ricerca riguardo a quei momenti nei quali l’uomo conserva ancora una cognizione di sé, che va scemando a poco a poco, giacché questo non si dubita che non sia uno spazio progressivo, ma riguardo al tempo, non sensibile né conoscibile, né ricordabile. Il quale pare che debba essere istantaneo, giacché il passaggio dal conoscere al non conoscere dall’essere al non essere, dalla cosa quantunque menoma al nulla, non ammette gradazione, ma si fa necessariamente per salto e istantaneamente.
28 novembre 1821, Z. 2182 sgg. (IV, 94):
È cosa osservata che non solo le stesse morti provenienti da mali dolorosissimi sogliono esser precedute da una diminuzione di dolore, anzi quasi totale insensibilitá, ma che questi sono segni certi e quasi immancabili (io credo certo immancabili) di morte vicina. Laonde tanto è lungi che la morte sia un punto di straordinaria pena o dolore o incomodo qualunque corporale, che anzi gli stessi travagli corporali che la cagionano, per veementi che siano (e quanto piú sono veementi), cessano affatto all’avvicinarsi di lei; e il momento della morte e quelli che immediatamente la precedono sono assolutamente momenti di riposo e di ristoro, tanto piú pieno e profondo quanto maggiori sono le pene che conducono a quel passo. Ciò che dico del travaglio corporale si deve pur necessariamente estendere allo spirituale; perché, quando l’insensibilitá del paziente è giunta a segno che lo rende insuscettibile di qualunque dolore corporale, per grandi che siano le cagioni che dovrebbero produrlo, il che immancabilmente accade in punto di morte, è manifesto che l’anima, essendo quasi fuori dei sensi, è fuori di se stessa, fuori de’ sensi spirituali che non operano se non per mezzi corporali, e quindi incapace di pene e di travagli di pensiero. Ed infatti il punto della morte è sempre preceduto dalla perdita della parola e da una totale insensibilitá ed incapacitá di attendere e di concepire, come si argomenta dai segni esterni, e come accade a chi sviene o a chi dorme ecc. E questo letargo precursore immancabilissimo della morte è forse, almeno in molti casi, piú lungo nelle malattie violente ed acute che nelle lente, compassionando cosí la natura alle pene de’ mortali, e togliendo loro maturamente la forza di sentire, quando ella non sarebbe piú se non forza di patire.
16 luglio 1822, Z. 2566 (IV, 309):
DETTI MEMORABILI DI FILIPPO OTTONIERI
[Questa non è, come le altre Operette, un fantastico ricamo sopra pensieri lungamente elaborati; ma piuttosto un centone di osservazioni personali, riordinate in una specie di narrazione. Cosi, meglio che notare in ordine cronologico i primi spunti, m’è parso di disporli quasi a modo di «commentario perpetuo» di capitolo in capitolo.]
Cap I.
Z. 38 (I, 134):
Uomini singolari che si siano distinti, o «data opera», o per sola natura; o, com’è infatti se non altro piú comune, per l’una o per l’altra maniera, dall’universale dei loro contemporanei, nelle operazioni, vita, istituto, metodo, ecc., ci furono anticamente, e ci sono stati ultimamente, e ci saranno stati in tutte le etá; ma è una cosa curiosa l’osservare la differenza dei tempi nella misura della differenza tra i costumi di questi uomini singolari e quelli de’ contemporanei. Giacché Rousseau, per esempio, e l’Alfieri son passati in questi ultimi tempi per uomini singolari, quanto passarono un tempo in Grecia Democrito, Diogene, ecc. e gli altri tanti filosofi che durarono anche in Roma sino a Marc’Aurelio e dopo. E questa uguaglianza di effetto è assoluta. Ma se misureremo la cagion sua, cioè la differenza tra i costumi dell’Alfieri e i presenti, messa in paragone con quella tra i costumi di Diogene e de’ greci suoi contemporanei, troveremo una disparitá infinita tra la misura dell’una differenza e dell’altra, essendo senza paragone maggiore quella di Diogene; dal che avviene che queste due differenze, assolutamente parlando, siano diversissime di peso, quantunque rispettivamente considerate abbiano un’intensitá e misura e valore uguale. Il che mostra che i costumi presenti non solo variano dagli antichi nella qualitá, in maniera che i costumi formali di Diogene passerebbero oggi per pazzie; ma ancora in questo che a segnalarsi fra essi ci bisogna una molto minore quantitá di stravaganze (prendendo questo termine in buona parte, e per singolaritá, stranezza, ecc.) che non bisognava una volta; sicché, se qualcuno differisse ne’ suoi costumi dai presenti tanto, assolutamente parlando, quando Diogene differiva dai greci, passerebbe anche cosí non per singolare, come passava Diogene, ma per matto, quantunque relativamente alla qualitá la differenza fosse consentanea e proporzionale ai costumi presenti. Bisognava piú dose anticamente per fare un effetto che ora si ottiene con molto meno; e successiva e proporzionale diminuzione o accrescimento di questa dose si può calcolare anche nei tempi che sono di mezzo fra questi due estremi, gli antichi e i moderni, che sono veramente estremi, non solo cronologicamente, ma anche filosoficamente parlando; e questa dose calcolata può servire di termometro ai costumi, anche trasportandolo dai tempi alle nazioni, giacché non è dubbio che la dose non sia presentemente molto minore in Francia che in qualunque altro paese, ecc. e cosí anticamente e in ciascuna etá differente presso questo o quel popolo.
5 marzo 1821, Z. 718 sgg. (II, 148-149):
L’uomo d’immaginazione, di sentimento e di entusiasmo, privo della bellezza del corpo, è verso la natura appresso a poco quello ch’è verso l’amata un amante ardentissimo e sincerissimo, non corrisposto nell’amore, ecc.
Vedi Memorie della mia vita.
Cap. II.
19 gennaio 1821, Z. 527. (II, 43):
I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto.
30-31 maggio 1824, Z. 4095 (VII, 15) (2a redazione):
Rassomigliava qualunque (comparava ogni) piacere umano a un carciofo, dicendo che ne bisogna rodere e trangugiare tutte le foglie, volendo arrivare a dar di morso nella castagna; e che di questi carciofi è carestia grandissima, ed anche la maggior parte di loro è sole foglie senza castagna. E soggiungeva che esso non si potendo accomodare a ingoiarsi le foglie, ecc.
13 maggio 1821, Z. 1044 (II, 363):
La rimembranza del piacere si può paragonare alla speranza, e produce appress’a poco gli stessi effetti. Come la speranza, ella piace piú del piacere: è assai piú dolce il ricordarsi del bene (non mai provato, ma che in lontananza sembra di aver provato) che il goderne; come è piú dolce lo sperarlo, perché in lontananza sembra di poterlo gustare. La lontananza giova egualmente all’uomo nell’una e nell’altra situazione; e si può conchiudere che il peggior tempo della vita è quello del piacere e del godimento.
21 agosto 1821, Z. 1537 (III, 218):
Gli odori sono quasi un’immagine de’ piaceri umani. Un odore assai grato lascia sempre un certo desiderio forse maggiore che qualunque altra sensazione. Voglio dire che l’odorato non resta mai soddisfatto neppur mediocremente; e bene spesso ci accade di fiutar con forza, quasi per appagarci e per render completo il piacere senza potervi riuscire. Essi sono anche un’immagine delle speranze. Quelle cose molto odorifere che son buone anche a mangiare per lo più vincono coll’odore il sapore, e questo non corrisponde mai all’aspettativa di quel gusto, che dall’odore se n’era conceputa. E se voi osserverete, vedrete che, odorando queste tali cose, ci viene quel desiderio che tante volte ci avviene nella vita d’immedesimarci in certo modo con quel piacere; il che ci spinge a porcelo in bocca; e fattolo, restiamo mal paghi. Né solo nelle cose buone a mangiare, ma negli altri odori ci sopravviene lo stesso desiderio; e fiutando, per esempio, con gran diletto un’acqua odorifera, e non potendoci mai appagare di quella sensazione, ci vien voglia di berla.
25 1824, Z. 4104 (VII, 23):
Il tale diceva che noi, venendo in questa vita, siamo come chi si corica in un letto duro e incomodo, che, sentendovisi star male, non vi può star quieto, e però si rivolge cento volte da ogni parte, e procura in vari modi di appianare, ammollire, ecc. il letto, cercando pur sempre e sperando di avervi a riposare e prender sonno, finché, senza aver dormito né riposato, vien l’ora di alzarsi. Tale e da simil cagione è la nostra inquietudine nella vita, naturale e giusta scontentezza d’ogni stato, cure, studi, ecc. di mille generi, per accomodarci e mitigare un poco questo letto; speranza di felicitá o almen di riposo, e morte che previen l’effetto della speranza.
Z. 69 (I, 181):
Beati voi se le miserie vostre non sapete. — Detto, per esempio, a qualche animale, alle api, ecc.
28 febbraio 1821, Z. 703 (241):
Non possiamo né contare tutti gli sventurati, né piangerne un solo degnamente.
20 maggio 1824, Z. 4050 (VII, 11):
Si riprende l’uomo che non sia mai contento del suo stato. Ma invero questo non è che la sua natura sia incontentabile, ma incapace di esser felice. Se fossero veramente felici, il povero, il ricco, il re, il suddito si contenterebbero egualmente del loro stato, e l’uomo sarebbe contento come possa essere (sic) qualunque altra creatura, perch’egli è altrettanto contentabile.
29 giugno 1822, Z. 2526-7 (IV, 291):
Τοὺς δὲ (χώρους) μὴ ἔχοντας ἐπίδοσιν (agros qui incrementum nullum haberent, cioè cosí ben coltivati giá quando si comprano che non si possano far migliori) οὐδὲ ἡδονὰς ἐνόμιζε παρέχειν· ἀλλὰ πᾶν κτῆμα καὶ θρέμμα τὸ ἐπὶ τὸ βέλτιον ἰὸν τοῦτο καὶ εὐφραίνειν μάλιστα ᾤετο. Dice queste cose Iscomaco di suo padre, il quale non voleva che si comprassero fondi ben coltivati, ma trascurati dal possessore, e le dice a Socrate (presso Senofonte Del governo della casa, cap. 20, § 23). Cosí tutto il piacere umano consiste nella speranza e nell’aspettativa del meglio; e posseduto non è piacere; e quello stato che non si può migliorare, benché ottimo e desideratissimo per sé, è sempre infelicissimo, come fu presso a poco quello d’Augusto divenuto padrone di tutto il mondo, e malcontento, com’egli si espresse.
10 agosto 1821, Z. 1477 (III 183), il pensiero qui svolto dall’Ottonieri è giá riferito a p. 259.
21 giugno 1823, Z. 2800-803 (V, 1-2):
È massima molto comune tra’ filosofi, e lo fu specialmente tra’ filosofi antichi, che il sapiente non si debba curare, né considerar come beni o mali, né riporre la sua beatitudine nella presenza o nell’assenza delle cose che dipendono dalla fortuna, quali ch’elle si sieno, o da veruna forza di fuori, ma solo in quelle che dipendono interamente e sempre dipenderanno da lui solo. Onde conchiudono che il sapiente, il quale suppongono dover essere in questa disposizion d’animo, non è per veruna parte suddito della fortuna. Ma questa disposizione d’animo, supponendo ancora ch’ella sia piú radicata, più abituale, piú continua, piú intera, piú perfetta, piú reale ch’ella non è mai stata effettivamente in alcun filosofo, questa medesima disposizione, dico, giá pienamente acquistata, ed anche, per lungo abito, posseduta, non è ella sempre suddita della fortuna? Non si sono mai veduti de’ vecchi ritornar fanciulli di mente, per infermitá o per altre cagioni, l’effetto delle quali non fu in balia di coloro l’impedire o l’evitare? La memoria, l’intelletto, tutte le facoltá dell’animo nostro non sono in mano della fortuna, come ogni altra cosa che ci appartenga? Non è in sua mano l’alterarle, l’indebolirle, lo stravolgerle, l’estinguerle? La nostra medesima ragione non è tutta quanta in balia della fortuna? Può nessuno assicurarsi o vantarsi di non aver mai a perder l’uso della ragione, o per sempre o temporaneamente, o per disorganizzazione del cervello, o per accesso di sangue o di umori al capo, o per gagliardia di febbre, o per ispossamento straordinario di corpo che induca il delirio o passeggero o perpetuo? Non sono infiniti gli accidenti esteriori imprevedibili o inevitabili che influiscono sulle facoltá dell’animo nostro, siccome su quelle del corpo? E di questi, altri che accadono ed operano in un punto o in poco tempo, come una percossa al capo, un terrore improvviso, una malattia acuta; altri a poco a poco e lentamente, come la vecchiezza, l’indebolimento del corpo, e tutte le malattie lunghe e preparate o incominciate giá da gran tempo dalla natura, ecc. Perduta o indebolita la memoria, non è indebolita o perduta la scienza, e quindi l’uso e l’utilitá di essa, e quindi quella disposizion d’animo che n’è il frutto, e di cui ragionavamo? Ora qual facoltá dell’animo umano è piú labile, piú facile a logorarsi, anzi piú sicura d’andar col tempo a indebolirsi od estinguersi, anzi piú continuamente, inevitabilmente e visibilmente logorantesi in ciascuno individuo che la memoria? Insomma, se il nostro corpo è tutto in mano della fortuna, e soggetto per ogni parte all’azion delle cose esteriori, temeraria cosa è il dire che l’animo, il quale è tutto e sempre soggetto al corpo, possa essere indipendente dalle cose esteriori e dalla fortuna. Conchiudo che quello stesso perfetto sapiente, quale lo volevano gli antichi, quale mai non esistette, quale non può essere se non immaginario, tale ancora sarebbe interamente suddito della fortuna, perché in mano di essa fortuna sarebbe interamente quella stessa ragione sulla quale egli fonderebbe la sua indipendenza dalla fortuna medesima.
18 febbraio 1821, Z. 876 (II, 126):
Non siamo dunque nati fuorché per sentire qual felicitá sarebbe se non fossimo nati?
Cap. III.
8 gennaio 1821, Z. 479 (II, 15):
Il veder morire una persona amata è molto meno lacerante che il vederla deperire e trasformarsi nel corpo e nell’animo da malattia (o anche da altra cagione). Perché? Perché, nel primo caso, le illusioni restano; nel secondo svaniscono e vi sono interamente annullate e strappate a viva forza. La persona amata, dopo la sua morte, sussiste ancora tal qual era, e cosí amabile come prima nella nostra immaginazione. Ma nell’altro caso la persona amata si perde affatto; sottentra un’altra persona, e quella di prima, quella persona amabile e cara, non può piú sussistere neanche per nessuna forza d’illusione, perché la presenza della realtá e di quella stessa persona trasformata per malattia cronica, pazzia, corruttela di costumi, ecc. ecc. ci disinganna crudelmente; e la perdita dell’oggetto amato non è risarcita neppure dall’immaginazione, anzi neanche dalla disperazione, o dal riposo sopra lo stesso eccesso dal dolore, come nel caso di morte. Ma questa perdita è tale che il pensiero ed il sentimento non vi si può adagiar sopra in nessuna maniera. Da ogni lato ella presenta acerbissime punte.
15 luglio 1821, Z. 1329 (III, 92):
Si suol dire: — Se il tale incomodo, ecc. ecc. fosse durevole, non sarebbe sopportabile. Anzi si sopporterebbe molto meglio, mediante l’assuefazione e il tempo. All’opposto, diciamo frequentemente: — Il tal piacere, ecc. sarebbe stato grandissimo, se avesse durato. Anzi, durando, non sarebbe stato piú piacere.
21 luglio 1821, Z. 1364 (III, 115):
Sopravvenendo un mal minore a un maggiore, o viceversa, sogliamo dire: — Se potessi liberarmi, ovvero, se non mi travagliasse questo male cosí grave, terrei per un nulla questo leggero. E accadrebbe in veritá l’opposto, che ci parrebbe maggiore che or non ci pare.
1 settembre 1821, Z. 1605 (III, 260):
È vero che l’uomo felice non suol essere molto compassionevole; ma l’uomo notabilmente infelice, ancorché nato sensibilissimo, non è quasi affatto capace di compassione spontanea e sensibile. Sviluppa questa veritá nelle sue parti e nelle sue cagioni.
Sviluppata era giá: Z. 97 sgg. (I, 207):
Si suol dire che per ottener qualche grazia è opportuno il tempo dell’allegrezza di colui che si prega. E quando questa grazia si possa far sul momento, o non costi impegno od opera al supplicato, convengo anch’io in questa opinione. Ma per interessar chicchessia in vostro favore, ed impegnarlo a prendersi qualche benché piccola premura di un vostro affare, non c’è tempo piú assolutamente inopportuno di quello della gioia viva. Ogni volta che l’uomo è occupato da qualche passion forte, è incapace di pensare ad altro; ogni volta che o la sua propria infelicitá o la sua propria fortuna l’interessano vivamente e lo riempiono, è incapace di pigliar premura de’ negozi, delle infelicitá, dei desidèri altrui. Nei momenti di gioia viva o di dolor vivo, l’uomo non è suscettibile né di compassione né d’interesse per gli altri; nel dolore, perché il suo male l’occupa piú dell’altrui; nella gioia, perché il suo bene l’inebbria e gli leva il gusto e la forza di occuparsi in verun altro pensiero. E massimamente la compassione è incompatibile col suo stato, quando egli o è tutto pieno della pietá di se stesso, o prova un’esaltazione di contento che gli dipinge a festa tutti gli oggetti, e gli fa considerar la sventura come un’illusione, per lo meno odiarla come cosa alienissima da quello che lo anima e lo riempie tutto in quel punto. Solamente gli stati di mezzo sono opportuni all’interesse per le cose altrui, o anche un certo stato di entusiasmo, senza origine e senza scopo reale, che gli faccia abbracciar con piacere l’occasione di operare dirittamente, di beneficare, di sostituir l’azione all’inazione, di dare un corpo ai suoi sentimenti e di rivolgere alla realtá quell’impeto di entusiasmo viriuoso, magnanimo, generoso, ecc., che si aggirava intorno all’astratto e all’indefinito. Ma quando il nostro animo è giá occupato dalla realtá, ossia da quell’apparenza che noi consideriamo come realtá, il rivolgerlo a un altro scopo è impresa difficilissima; e quello è il tempo piú inopportuno di sollecitar l’interesse altrui per la vostra causa, quando esso è giá tutto per la propria, e lo staccarnelo riuscirebbe penosissimo al supplicato. Molto piú se la gioia sia di quelle rare che occorrono nella vita pochissime volte, e che ci pongono quasi in uno stato di pazzia: sarebbe stolto il farsi avanti a quel tale, ed esponendogli con qualsivoglia eloquenza i propri bisogni e le proprie miserie, sperar di distòrlo dal pensiero che è padrone dell’animo suo, e che gli è sí caro; e quel ch’è piú, condurlo ad operare, o a risolvere efficacemente d’operare per un fine alieno da quel pensiero; al quale egli è cosí intento anche in udirvi, che appena vi ascolta; e se vi ascolta, cerca di abbreviare il discorso, di ridur tutto in compendio, per poi dimenticarlo affatto; ed ogni suo desiderio è rivolto al momento in cui avrete finito e lo lascerete pascere di quel pensiero che lo signoreggia, ed anche parlarvene e rivolgere immediatamente la conversazione sopra quel soggetto.
Udrai dire sovente che, per esser compatito o per interessare, giova indirizzarsi a chi abbia provato le stesse sventure o sia stato nella stessa tua condizione. Se intendono del passato, andrá bene. Ma non c’è uomo da cui tu possa sperar meno che da chi si ritrova presentemente nella stessa calamitá o nelle stesse circostanze tue. L’interesse ch’egli prova per sé soffoca tutto quello che potrebbe ispirargli il caso tuo. Ad ogni circostanza, ad ogni minuzia del tuo racconto, egli si rivolge sopra di sé, e le considera applicandole alla sua persona. Lo vedrai commosso, crederai che senta pietá di te, ma la sente di se stesso unicamente. T’interromperá ad ogni tratto con dirti: — Appunto, ancor io; — Oh, per l’appunto; — Se sapessi quello ch’io provo; — Questo è propriamente il caso mio.
Fa al proposito l’esempio d’Achille piangente i suoi mali, mentre ha Priamo a’ suoi ginocchi. Si proverá anche d’estenuare la tua miseria, il tuo bisogno, la ragionevolezza de’ tuoi desidèri, per ingrandire quello che lo riguarda: — Va bene, ma abbi pazienza; tu hai pure questo tal conforto; io all’opposto... e cosí discorrendo. Insomma sará sempre impossibile di rivolger l’interesse vivo e presente che uno ha per sé sopra i negozi altrui (parlo anche, serbata una certa proporzione, degli uomini di cuore e d’entusiasmo) e, quando l’uomo è occupato intieramente del suo dolore (o anche dalla sua gioia e di qualunque passion viva) indurlo ad interessarsi per quello d’un altro, massimamente se sia della stessa specie. Sará sempre impossibile attaccar l’egoismo cosí di fronte, quando anche da Iato è cosí difficile a spetrare. E soprattutto, trattandosi di azione, non isperar mai nulla da un giovane, che come te si trovi disgustato della vita domestica, e come te senta il bisogno di procurarsi i mezzi di troncarla, da un militare disgraziato come te, o che corra collo stesso impegno e colla stessa vivezza di desiderio agli onori, da un malato che sia tutto occupato ed afflitto da una malattia simile alla tua, ecc.
11 settembre 1820, Z. 238 sg. (I, 334):
La negligenza e l’irriflessione spessissimo ha l’apparenza e produce gli effetti della malvagitá e brutalitá. E merita di essere considerata come una delle principali e piú frequenti cagioni della tristizia degli uomini e delle azioni. Passeggiando con un amico assai filosofo e sensibile, vedemmo un giovinastro, che con un grosso bastone, passando sbadatamente e come per giuoco, menò un buon colpo a un povero cane che se ne stava pe’ fatti suoi senza infastidir nessuno. E parve segno all’amico di pessimo carattere in quel giovane. A me parve segno di brutale irriflessione. Questa molte volte c’induce a far cose dannosissime o penosissime altrui, senza che ce ne accorgiamo; (parlo anche della vita piú ordinaria e giornaliera, come di un padrone, che per trascuraggine lasci penare il suo servitore alla pioggia ecc.) e, avvedutici, ce ne duole; molte altre volte, come nel caso detto di sopra, sappiamo bene quello che facciamo, ma non ci curiamo di considerarlo, e lo facciamo cosí alla buona; considerandolo bene, non lo faremmo. Cosí la trascuranza prende tutto l’aspetto della malvagitá e crudeltá, non ostante che ogni volta che tu riflettessi, fossi molto alieno dalla volontá di produrre quel tale effetto e che la malvagitá e crudeltá non abbia che fare col tuo carattere.
Z. 38 (I, 134):
Non so se si possa far cosa piú dispiacevole altrui, quanto ad uno che v’abbia fatto un dono splendido offrirne goffamente un altro molto inferiore, col che si viene a mostrare di stimar poco quel dono, comparandolo con quello che si presenta, quasi fosse atto a compensarlo; e di credere che il dono ricevuto si sia giá compensato, sgravandosi dall’obbligo della gratitudine; e il donatore che nel donarvi si compiaceva in se stesso aspettandosi da voi e la cognizione del benefizio e la gratitudine, quantunque dovesse essere anche necessariamente e prevedutamente infruttosa, si vede nell’atto della sua maggior compiacenza privo del premio del suo sacrifizio, e di piú senza potersene lagnare, se non altro fra sé, cosí altamente e generosamente come quelli che trovano ingratitudine. La qual frustrazione di speranza, dopo un sacrifizio, e forse anche uno sforzo fatto per conseguirla effettivamente, produce nell’uomo un senso disgustosissimo.
23 luglio 1820, Z. 183 (I, 258):
Noi supponiamo sempre negli altri una grande e straordinaria penetrazione per rilevare i nostri pregi, veri o immaginari che sieno, e profonditá di riflessione per considerarli, quando anche ricusiamo di riconoscere in loro queste qualitá rispetto a qualunque altra cosa.
Cap. IV.
3 decembre 1820, Z. 375 (I, 428):
Spesso gli uomini irresoluti, preso che hanno un partito, sono costantissimi nel mantenerlo, a fronte delle maggiori difficoltá, appunto per irresoluzione e perché non si sanno risolvere a lasciar quello e prenderne un altro; perché ciò par loro piú difficoltoso; perché si spaventano di tornare un’altra volta a risolvere. Forse questo effetto accade principalmente in quelli che sono irresoluti per infingardaggine, e che trovano piú infingardo e facile il proseguire che il tornare indietro. Ma è comune, s’io non erro, a tutti gl’irresoluti.
17 aprile 1824, Z. 4069 (VI, 447):
Le persone avvezze a versarsi sempre al di fuori esclamano naturalmente, anche quando sono solissime, se una mosca le punge, o si versa loro un vaso o si spezza; quelle assuefatte a convivere con se medesime e ritenersi tutte al di dentro, anche in grande compagnia, se si sentono cogliere da un accidente, non aprono bocca per lamentarsi e chiedere aiuto.
16 settembre 1823, Z. 3447-48 (V, 393):
Gli uomini straordinari, bene spesso e forse il piú delle volte, non son tali per grandezza assoluta di niuna loro qualitá, né anche per grandezza o forza ecc. di essa qualitá, considerata rispettivamente a quel ch’ella suol essere nel comune degli uomini; insomma non sono straordinari perché veruna lor qualitá sia straordinaria (cioè non si trovi nel comune); né straordinariamente grande o perfetta ecc.; ma solo per lo squilibrio delle loro qualitá, cioè perché l’una o piú d’una di esse, senza essere né straordinaria né maggior ch’ella soglia, prepondera all’altre, e perciò risalta e dá negli occhi. Mentre molti uomini di qualitá tutte grandi (ed anche straordinarie), ma ben tra loro equilibrate, bilanciate e compensate, sicché l’una non eccede l’altra, non sono stimati straordinari, perché l’una offusca lo splendore e nuoce alla vista dell’altra scambievolmente. E spesse volte lo stesso avere, benché non tutte, però molte o parecchie qualitá grandi (ed anche straordinarie) producendo un certo equilibrio e contrappeso e facendo che l’una di loro renda l’altra meno notabile, è cagione che l’uomo non paia straordinario. Ed all’opposto, l’averne poche o una sola che sia o straordinariamente grande o straordinaria, producendo uno squilibrio e sbilancio, non solo non nuoce alla riputazione d’uomo straordinario, né la rende minore, ma la produce e l’accresce.
Segue l’adattamento di un lungo capitolo di appunti notati per le Memorie della mia vita il 18 agosto 1823, Z. 3183 sgg. (V, 231-236), che qui non riferisco, perché gli studiosi lo troveranno a suo luogo.
25 settembre 1823, Z. 3520 sgg. (VI, 2-5):
Tre stati o condizioni della vecchiezza rispetto alla giovanezza ed alle altre etá.
1. Quando il genere umano era appresso a poco incorrotto, o certo proclive ed abituato generalmente alla virtú e quando l’esperienza insegnava all’individuo le cose utili a sé ed agli altri, senza disingannarlo delle oneste e delle inclinazioni virtuose, nobili, magnanime ecc.; né gli dimostrava la perversitá degli uomini, che ancora non erano perversi, né lo disgustava e faceva pentire della virtú, che ancor non era, se non altro, dannosa; e ch’egli per naturale istituto aveva intrapreso fin da principio di seguire e seguiva; allora i vecchi, come piú ricchi d’esperienza e piú saggi, erano piú venerabili e venerati, piú stimabili e stimati ed anche in molte parti piú utili a’ loro simili e compagni, ed al corpo della societá, che non i giovani e quelli dell’altre etá.
2. Cominciata a corrompere la societá umana, e giunta la corruzione al mezzo o piú oltre, l’esperienza dovette fare tutto il contrario delle cose dette di sopra e, distruggendo le buone disposizioni naturali, e le qualitá contratte ne’ primi anni, rendere l’individuo tanto peggiore di carattere, d’animo, di costumi, di qualitá, di azioni o di desidèri quanto piú egli avesse sperimentato. Allora dunque i vecchi furono (nella gran societá) molto meno stimabili e stimati, quanto alla virtú ed alla onestá, che i giovani ecc.; molto piú tristi, svergognati, finti, coperti, furbi, traditori, malvagi, insomma alieni dal ben fare e dannosi, o inclinati a far danno, ai compagni e alla societá. Laddove quei dell’altre etá, e massime i giovani, furono molto piú degni di stima e molto piú utili o men dannosi, perché meno corrotti; piú buoni, perché piú naturali; piú proprii a ben fare, piú misericordiosi, piú benefici, perché men freddi, piú generosi per natura dell’etá, men guasti dall’esempio e dalle cattive massime, o ancor non guasti ecc.
3. Passata che fu la corruzione sociale di gran lunga oltre il mezzo e giunta, si può dire, al suo colmo, nel quale oggidí si trova e riposa; ed è, a quel che sembra, per riposar lungamente o in perpetuo, non fu e non è bisogno di molta né lunga esperienza né d’assai mali esempi per corrompere negl’individui la sempre buona natura ed indole primitiva; nascono, si può dire, gli uomini giá corrotti; il primitivo, e seco la virtú ed ogni sorta di bontá effettiva, è sparito quasi onninamente dal mondo; il giovane, anzi pure il fanciullo, in brevissimo tratto è maturo e vecchio di malizia, di frode, di malvagitá, e conosce il mondo assai piú che i vecchi stessi per lo passato non facevano ecc.
Quindi, per contrarie cagioni e con ben contrari effetti, son tornate le cose appresso a poco nel loro stato primiero. I giovani massimamente sono ben piú odiosi e dannosi de’ vecchi, perché in essi alla disposizione intera e alla decisa volontá di mal fare si aggiunge il potere e la facoltá; e l’ardor giovanile e la forza e l’impeto e il fiore delle passioni, che un di conduceva gli uomini al bene, ora, conducendoli dirittamente e pienamente e decisamente al male, rende gl’individui tanto piú cattivi, perniciosi ed odiabili, quanto esso ardore è piú grande. Laddove i vecchi sono, non dirò giá piú stimabili né venerabili, ma piú tollerabili, e meno da essere odiati e fuggiti che quelli dell’altre etá, siccome meno potenti di mal fare, benché a ciò solo inclinati; e siccome anche meno desiderosi di nuocere e di far bene a sé e male altrui, perché piú freddi e di piú sedate passioni, e dalla lunga esperienza piú disingannati de’ piaceri e de’ vantaggi di questa vita, e fatti meno avidi e di desidèri men vivi; essendo la freddezza e l’esperienza, che un di furon cagione d’ogni male e malvagitá, divenute oggi cagione non giá di bene né di bontá, ma di minor male e cattiveria, che non il calor naturale e l’inesperienza che giá furon cagioni di bontá, ed or sono cagioni di maggior ribalderia. Da principio dunque fu la vecchiezza rispetto alla gioventú (e proporzionatamente all’altre etá) come il meglio al bene, poscia come il cattivo al buono; in ultimo è (e probabilmente sará sempre) come il manco male al male, o come il cattivo al pessimo.
Quel che s’è detto della vecchiezza e della gioventú ecc. dicasi ancora di quei caratteri e disposizioni degl’individui, o naturali e primitive, o acquistate e avventizie, le quali hanno faccia e sembianza di vecchiezza, di gioventú ecc., e rispondono all’indole e qualitá proprie di queste etá, benché ad esse disposizioni ecc. non corrisponda in fatto l’etá reale de’ rispettivi individui, anzi sia loro ben diversa e contraria.
Cap. V.
21 luglio 1821, Z. 1362 (III, 114):
Mess.... ad uno che gli esponeva la sua passione per una donna: — Ma ella, — disse, — è tua rivale. — Soleva dire che le donne sono ardentissime rivali de’ loro amanti.
Stranezza che gli doveva piacere, perché la riscrisse, quasi con le stesse parole il 13 giugno 1824.
Z. p. 55 (I, 163):
Se tu domanderai piacere ad uno, che non possa fartisi senza ch’egli s’acquisti l’odio d’un altro, difficilissimamente, in paritá di condizione, l’otterrai, non ostante che ti sia amicissimo. E pure, per quell’odio si guadagnerebbe o si crescerebbe il vostro amore e forse grandissimo, sí che le partite par che sarebbero uguali. Ma in fatti pesa molto piú l’odio che l’amore degli uomini, essendo quello molto piú operoso. Qui si fermerebbero gli psicologi moderni, lasciando di cercare il principio di questa differenza, ch’è manifestissimo, cioè l’amor proprio. Giacché chi segue il suo odio fa per sé; chi l’amore, per altrui; chi si vendica giova a sé, chi benefica giova altrui; né alcuno è mai tanto infiammato per giovare altrui quanto a sé.
Vedi il 17 Avvertimento di Guicciardini intorno a quel mio pensiero che nessuno si vuol guadagnare la benevolenza di uno, a costo di tirarsi addosso l’odio di un altro (3 ottobre 1821.)
E ci ritorna, riportando le sue stesse parole il 22 ottobre 1820, Z. 293-4 (I, 371-72):
La cagione di questo è che l’odio è passione, la gratitudine ragione e dovere, eccetto il caso che il benefizio produca l’amore passione, giacché questa non si può dubitare che spesso non sia piú efficace ed attiva dell’odio e di tutte le altre. Ma la semplice gratitudine è tutta relativa ad altrui, laddove l’amore passione, benché sembri, non è tale, ma è fondata sommamente nell’amor proprio, giacché si ama quell’oggetto come cosa che c’interessa, ci piace; e la nostra persona entra in questo affetto per grandissima parte ecc.
Vedi Della natura degli uomini e dette cose in Studi e frammenti filosofici.
17 giugno 1822, Z. 2481 (IV, 266):
N. N. diceva che gli ossequi ecc. e i servigi interessati rade volte conseguiscono l’intento loro, perché gli uomini sono facili a ricevere e difficili a rendere (tutti ricevono volentieri e rendono mal volentieri e poco). Ma eccettuava da questo numero quelli che i giovani prestano talvolta alle vecchie ricche o potenti. E soggiungeva che non v’ha lusinghe, ossequi o servigi meglio collocati di questi, né che piú facilmente e piú spesso ottengano il loro fine.
22 agosto 1822, Z. 2611 (IV, 234):
Nessuna cosa è vergognosa per l’uomo di spirito, né capace di farlo vergognare e provare il dispiacevole sentimento di questa passione, se non solamente il vergognarsi e l’arrossire.
E ancora: 20 luglio 1823, Z. 3061 (V, 162):
Niuna cosa nella societá è giudicata né infatti riesce piú vergognosa del vergognarsi.
16 ottobre 1821, Z. 1926 (III, 445):
È cosa tuttogiorno osservabile come sieno difficili ad estirpare le opinioni e i costumi popolari (anche i piú falsi, dannosi, vergognosi, derivanti da’ piú sciocchi pregiudizi ecc.) come lunghissimi secoli dopo che n’è mancata, per cosí dire, o la ragione o l’utilitá ecc., esse tuttavia durino o se ne trovino notabili vestigi ecc. Eppur la moda cambia le usanze del vestire e di tutto ciò a cui essa appartiene, ancorché ottime, utilissime, convenientissime al tempo ecc. e le cambia in un punto e universalmente e in modo che brevemente si perde ogni vestigio della usanza passata. Questo principalmente fra i popoli cólti, i quali però non sono quasi meno restii degli altri nel disfarsi di tutto ciò che non è soggetto all’imperio della moda, per cattivo, falso, inutile, dannoso, brutto che possa essere.
21 luglio 1823, Z. 3000 (V, 125):
Delle cose veramente ridicole, nella societá o negli individui, è ben raro trovar chi ne rida. E s’alcuno ne ride, difficilmente trova il compagno che l’aiuti a farlo e che gli dia ragione, o che pur senta la causa del suo riso. Gli uomini per lo piú ridono di cose che in effetto son tutt’altro che ridicole, e spesso ne ridono per questo appunto che non sono ridicole. E tanto piú ne ridono, quanto meno esse son tali.
E vedi anche nei Pensieri, il CVI.
23-25 novembre 1820, Z. 352-53 (I, 411):
Nominando i nostri antenati, sogliamo dire: «i buoni antichi», «i nostri buoni antichi». Tutto il mondo ha opinione che gli antichi fossero migliori di noi; tanto i vecchi che perciò li lodano, quanto i giovani che perciò li disprezzano. Il certo è che il mondo in questo non s’inganna; il certo è che, senza però pensarvi, egli riconosce e confessa tutto giorno il suo deterioramento. E ciò non solamente con questa frase, ma in cento altri modi; e tuttavia neppur gli viene in pensiero di tornare indietro, anzi non crede onorevole se non l’andare sempre piú avanti e, per una delle solite contraddizioni, si persuade e tiene per indubitato che, avanzando, migliorerá, e non potrá migliorare se non avanzando; e stimerebbe di esser perduto, retrocedendo.
Roma, 13 decembre 1822, Z. 2653 (IV, 355):
Il vero certamente non è bello; ma pur anch’esso appaga o, se non altro affètta in qualche modo l’anima, ed esiste senza dubbio il piacere della veritá e della conoscenza del vero, arrivando al quale, l’uomo pur si diletta e compiace, ancorché brutto e misero e terribile sia questo tal vero. Ma la peggior cosa del mondo e la maggiore infelicitá dell’uomo si è trovarsi privo del bello e del vero, trattare, convivere con ciò che non è né bello né vero. Tale si è la sorte di chi vive nelle cittá grandi, dove tutto è falso; e questo falso non è bello, anzi bruttissimo.
20 aprile 1824, Z. 4075 (VI, 453):
Quelli che non hanno bisogni sono odinariamente piú bisognosi di coloro che ne hanno. Uno de’ grandissimi e principalissimi bisogni dell’uomo è quello di occupare la vita. Questo è altrettanto reale quanto qualunque di quelli a’ quali occupandola si provvede; anzi è piú reale e maggiore eziandio assai, perché il soddisfare a questo bisogno è l’unico o il principal mezzo di far la vita meno infelice che sia possibile, laddove il soddisfare a qualsivoglia di quegli altri per sé non è che un mezzo di mantenere la vita, la quale per se stessa nulla importa. Importa sibbene la felicitá; o, posta la vita, il menarla meno infelicemente che si possa. Ora, al detto massimo bisogno, che è continuo ed inseparabile dalla vita umana, quelli che non hanno bisogni, o che, per dir meglio, non sono necessitati di provvedere essi medesimi ai bisogni che hanno, gli suppliscono molto piú difficilmente e piú di rado, e per lo piú per molto minore spazio della loro vita, e in generale molto piú incompletamente di quelli che hanno a provvedere da sé a’ propri bisogni naturali e della vita.
27 gennaio 1821, Z. 4023 (VI, 398):
Diceva il tale che da giovanetto, quando da principio entrò nel mondo, aveva proposto di non mai adulare; ma che presto se n’era rimosso, perché essendo stato piú tempo senza lodar mai nessuna persona e nessuna cosa, e vedendo che non troverebbe nulla a lodare, se voleva durare nel suo proposito, temette disimparare per difetto d’esercizio quella parte della rettorica che tratta dell’encomiastica, la qual cosa, come fresco ch’egli era allora di studi, gli era a cuore che non succedesse, premendogli di conservarsi coll’esercizio le cose che aveva recentemente imparate.
Cap. VI.
8-10 luglio 1820, Z. 162 (I, 269):
Racconta Diogene Laerzio di Chilone lacedemonio, il quale interrogato in che differissero i dotti dagl’indotti, rispose: — Nelle buone speranze (ἐλπίσιν ἀγαθαῖς). Io non so dire se avesse riguardo alle cose di questo inondo o di una vita avvenire. Certamente rispetto a quelle, oggi avviene appunto il contrario. In che differisce l’ignorante dal savio? Nella speranza.
Il 5 settembre 1820, trascriveva dal Laerzio, Z. 231 (1, 328), e annotava:
Ἔλεγε δὲ (Socrate) καὶ ἓν μόνον ἀγαθὸν εἶναι, τὴν ἐπιστήμην, καὶ ἓν μόνον κακόν, τὴν ἀμαθίαν(Laerzio in Socrate, I. 2, segm. 31).
Oggidí possiamo dire tutto l’opposto, e questa considerazione può servire a definire la differenza che passa tra l’antica e la moderna sapienza.
19 settembre 1820, Z. 249 (I, 341):
Gli egesiaci (ramo della sètta cirenaica) dicevano secondo il Laerzio (in Aristippo, 1. 2, segm. 95) τόν τε σοφὸν ἑαυτοῦ ἕνεκα πάντα πράξειν. Questa potrebb’esser la divisa di tutti i sapienti moderni, in quanto sapienti.
6 novembre 1820, Z. 303 (I, 377):
Bione boristenite ἐρωτηθείς ποτε τίς μᾶλλον ἀγωνιᾷ (anxietate maiore dctineatur), ἔφη· ὁ τὰ μέγιστα βουλόμενος εὐημερεῖν (colui che cerca le supreme felicitá). Laerzio in Bione, 1. 4, segm. 48.
Chi sa pascersi delle piccole felicitá, raccogliere nell’animo suo i piccoli piaceri che ha provato nella giornata, dar peso presso se medesimo alle piccole fortune, facilmente passa la vita; e, se non è felice, può crederlo e non accorgersi del contrario. Ma chi non dá mente se non alle grandi felicitá, non considera come guadagno e non procura di pascersi e ruminare seco stesso i piccoli accidenti piacevoli, le piccole riuscite, soddisfazioni, conseguimenti, ecc., e tiene tutto per nulla, se non ottiene quel grande e difficile scopo che si propone, vivrá sempre cruccioso, ansioso, senza godimenti, e invece della gran felicitá ritroverá una continua infelicitá. Massimamente che, conseguito ancora quel grande scopo, lo troverá molto inferiore alla speranza, come sempre accade nelle cose lungamente desiderate e cercate.
7 agosto 1822, Z. 2602 (IV, 329):
Ἔργα νέων, βουλαὶ δὲ μέσων, εὐχαὶ δὲ γερόντων. Verso di non so qual poeta antico, applicabile e proporzionabile alle diverse etá del genere umano, come lo è qualunque cosa si possa dire intorno alle diverse etá dell’individuo. Ed infatti del secol nostro non è proprio altro che il desiderio (eternamente inseparabile dall’uomo anche il piú inetto e debole e inattivo e non curante; per cagione dell’amor proprio che spinge alla felicitá la qual mai non s’ottiene) e il lasciar fare.
5 marzo 1823, Z. 2681 (IV, 374):
Plutarco nel principio degli Insegnamenti civili (volgarizzamento di Marcello Adriani il giovane. Opuscoli 15, T. I, p. 403): «Molto meno arieno ancora gli spartani patito l’insolenza e buffoneria di Stratocle, il quale, avendo persuaso il popolo» (credo ateniese o tebano) «a sacrificare come vincitore; che poi, sentito il vero della rotta, si sdegnava, disse: — Quale ingiuria riceveste da me, che seppi tenervi in festa ed in gioia per ispazio di tre giorni?».
Agli spartani si possono paragonare i filosofi, anzi questo secolo, anzi quasi tutti gli uomini avidi del sapere o della filosofia, e di scoprir le cose piú nascoste dalla natura, e per conseguenza di conoscere la propria infelicitá, e per conseguenza di sentirla, quando non l’avrebbero sentita mai, o di sentirla piú presto. E la risposta di Stratocle starebbe molto bene in bocca de’ poeti, de’ musici, degli antichi filosofi, della natura, delle illusioni medesime, di tutti quelli che sono occupati d’avere introdotti o fomentati, d’introdurre o fomentare o promuovere de’begli errori nel genere umano o in qualche nazione o in qualche individuo.
Che danno recano essi, se ci fanno godere, o se c’impediscono di soffrire per tre giorni? Che ingiuria ci fanno se ci nascondono, quanto e mentre possono, la nostra miseria, o se in qualunque modo contribuiscono a fare che l’ignoriamo o dimentichiamo?
1 febbraio 1821, Z. 593 sgg. (II, 81):
Quid autem est horum in voluptate? melioremne efficit aut laudabiliorem virum? An quisquam in potiundis voluptatibus gloriando sese et praedicatione effert? (Cicerone, Paradoxa, I, c. 3 fine).
Oggi sibbene, o Marco Tullio, né c’è maggior gloria per la gioventú, né scopo alla carriera loro piú brillantemente, manifestamente e concordemente proposto, né mezzo di ottener lode e stima piú sicuro e comune che quello di seguire e conseguire le voluttá ed abbondarne, e ciò piú degli altri. L’oggetto delle gare ed emulazioni della piú florida parte della gioventú non è aítro che la voluttá; e il trionfo e la gloria è di colui che ne conseguisce maggior porzione e che sa e piú godere e immergersi nei vili piaceri piú degli altri. Le voluttá sono lo stadio della gioventú presente, tanto che giá non si cercano principalmente per se stesse, ma per la gloria che ridonda dall’averle cercate e conseguite. E se non di tutte le voluttá si può gloriare colui che le ottiene, in quel momento medesimo in cui le gode, (sebbene di moltissimi generi di voluttá accade tuttogiorno ancor questo) certo desidererebbe di poterlo fare, di aver testimoni del suo godimento; anzi questo godimento consiste per la massima parte nella considerazione e aspettativa del vanto che gliene risulterá; e subito dopo non ha maggior cura che di divulgare e vantarsi della voluttá provata; e questo anche a rischio di chiudersi l’adito a nuove voluttá, e colla certezza di nuocere, tradire, essere ingiusto e ingrato verso coloro onde ha ottenuto la voluttá che cercava. E sebbene certamente neanche oggi la voluttá rende l’uomo migliore, lo rende piú lodevole agli occhi della presente generazione, il che tu, o Marco Tullio, stimavi che non potesse avvenire.
Z. 62-63 (I, 173):
Nella gran battaglia dell’Isso, Dario collocò i soldati greci mercenari nella fronte della battaglia (Arriano, 1. II, c. 8, sez. 9; Curzio, 1. Ili, c. 9, sez. 2); Alessandro i suoi mercenari greci proprio nella coda (Arriano, c. 9 sez. 2). Curiosa e notabilissima differenza, e da pronosticare da questo solo l’esito della battaglia. Perché era chiaro che tutta la confidenza dei persiani stava in quei trentamila greci; e pure eran greci anche j mercenari di Alessandro (Arriano, c. 9, sez. 9) ed egli li poneva alla coda. Quindi è chiaro ch’egli confidava piú nel resto che in questi, e quello ch’era il piú forte dell’esercito persiano era il piú debole del macedone. E Dario si fidava piú del valore dei mercenari che di coloro che combattevano per la loro patria, e avea ragione; Alessandro, avendo gli stessi mercenari, sapeva che sarebbero stati piú valorosi gli altri che combattevano per l’onor loro e di lui e la vendetta della patria, ed avea somma ragione. E infatti, la propria falange macedone, venuta alle mani, essa coi trentamila mercenari, combatterono, ma furon vinti. E però da questa sola diversitá delle due ordinanze, da cui si poteva arguire l’infinita differenza fra gli animi dei due eserciti, era da congetturare quello che avvenne.
Z. 29 (I, 120):
Chi mi chiedesse qual sia, secondo me, il piú eloquente pezzo italiano, direi le due canzoni del Petrarca: Spirto gentil e Italia mia. Se concedessi qualche cosa al Tasso [direi] ch’era in veritá eloquente, e principalmente parlando di se stesso, ed, eccetto il Petrarca, è il solo italiano veramente eloquente. La sventura in gran parte lo fece tale, e l’occorrergli spessissimo di difendersi, ecc. e in qualunque modo parlar di sé; perch’io sosterrò sempre che gli uomini grandi, quando parlan di sé, diventano maggiori di se stessi, e i piccoli diventano qualche cosa, essendo questo un campo dove le passioni e l’interesse e la profonda cognizione ecc. non lasciano campo all’affettazione e alla sofisticheria, cioè alla massima corrompitrice dell’eloquenza e della poesia; non potendosi cercare i luoghi comuni quando si parla di cosa propria, dove necessariamente detta la natura ed il cuore, e dove si parla di vena e di pienezza di cuore. Onde quello che si dice dell’utilitá derivante agli scrittori dal trattare materie presenti, a miglior dritto si dèe dire del parlare di se stesso, comunque paia a prima vista che il parlar di sé non debba interessare gran fatto gli uditori; cosa falsissima; e si veda nel migliore e piú celebre pezzo del Bossuet, quello in fine all’orazione di Condé, che effetto fa l’introduzione di se stesso. Al quale pezzo io paragono quello di Cicerone nella Miloniana (che è forse la sua migliore orazione, come questo è forse il piú gran pezzo di essa) il quale si combina parimente che è nel fine, dove, per intenerire i giudici, introduce menzione di se stesso; e mi pare che faccia un effetto incredibile, come e piú di quello che fa il Bossuet; tanto può l’introdurre se stesso nei discorsi eloquenti, al contrario di quello che si crede.
Z. 58 (I 178):
Una facezia del genere ch’io ho detto in un altro pensiero è quella degli Antiocheni, che dicevano dell’imperatore Giuliano, che aveva una barba da farne corde (Iulianus in Misopogone); la qual facezia, allora applaudita e sparsa per tutta la cittá e capace di muover Giuliano a scrivere un libro ironico e giocoso, (certo elegante e negli scherzi si può dir attico e lucianesco, e infinite volte superiore ai suoi Caesares, senza sofistumi nello stile né in altro, e senza affettazioni né pur nella lingua, per altro elegante e ricca; e ciò perché questo è un libro scritto per circostanza e non ἐπιδεικτικός come i Caesares) contro gli Antiocheni; ora ai nostri delicati, francesi ecc., parrebbe grossolana e di pessimo gusto.
(E p. 312, I, 384). Aggiungete che il tempo di Giuliano era tutto sofistico; e tale egli è in tutte le altre sue opere; tali sono Libanio, Temistio ecc., suoi piú famosi scrittori contemporanei. Ma nessuno è sofista quando parla di se stesso e per se stesso, e in una occasione che mette in vero movimento l’animo suo.
Ancora a p. 60 sgg. (I, 171):
A ciò che ho detto in altro pensiero, intorno all’eloquenza di chi parla di se stesso, si può aggiungere e l’esempio continuo di Cicerone, che piglia nuove forze ogni volta che parla di sé, come fa tuttora, e quello di Lorenzino de’ Medici nella sua Apologia, che Giordani crede il piú gran pezzo di eloquenza italiana, e non vinto da nessuno straniero. Ora questo è un’Apologia di se stesso. Ed è mirabile com’egli, che scriveva per sé e non poteva andar dietro alle sofisticherie, abbia trasportata come un Atlante l’eloquenza greca e latina tutta nel suo scritto, dove la vedete viva e tal quale, e tuttavia vi par nativa e non punto traslatizia, con una disinvoltura negli artifizi piú fini dell’eloquenza, insegnati e praticati ugualmente dagli antichi, una padronanza, negligenza ecc., cosí nello stile e condotta ordine ecc. interno come nell’esterno, cioè la lingua ecc. inaffèttatissima e tutta italiana nella costruzione ecc., quando lo stile e la composizione e i modi anche particolari e tutto è latino e greco. E ciò mentre gli altri miserabili cinquecentisti, volendo seguire la stessa eloquenza, e maestri ecc., come il Casa, facevano quelle miserie di composizione, di stile, di lingua affettatissima e piú latina che italiana. Onde i soli eloquenti del cinquecento sono Lorenzino qui e il Tasso qua e lá per tutte le sue opere; che ambedue parlano sempre di sé, e il Tasso dov’è piú eloquente e bello e nobile ecc., cioè nelle lettere, che sono il suo meglio. La migliore orazione di Demostene è quella per la Corona.
Cap. VII, 30 luglio 1822, Z. 2588 (IV, 320):
A un giovane il quale, essendo innamorato degli studi, diceva che della maniera di vivere e della scienza pratica degli uomini se n’imparano cento carte il giorno, rispose N. N.: — «Ma il libro (ma egli è un libro) è da quindici o venti milioni di carte».
17 aprile 1824, Z. 406X (VI, 447):
A un giovane sventatalo che, per iscusarsi di molti errori e cattive riuscite e vergogne e male figure fatte nella societá e nel mondo, diceva e ripeteva sovente che la vita è una commedia, replicò un giorno N. N.: — Anche nella commedia è meglio essere applaudito che fischiato, e un commediante che non sappia fare il suo mestiere (professione) all’ultimo si muor di fame.
Al paragrafo seguente una postilla autografa richiama:
Orazio, Ode, 2 a fine, del lib. III. Plutarco, De sera numinis vindicta, init. circa.
16 agosto 1820, Z. 212 (I, 314):
Domandava una donna a un viaggiatore (un cortigiano), avendogli a dire una cosa poco piacevole: — Volete ch’io vi parli sinceramente?
— Rispose il viaggiatore: — Anzi, ve ne prego. Noi altri viaggiatori cerchiamo le raritá.
Z. 55 (I. 163):
A. S’io fossi ricco, ti vorrei donar tesori.
B. Oibò, non vorrei che se ne privasse per me. Prego Dio che non la faccia mai ricca.
Z. 1 (I, 76):
Una dama vecchia, avendo chiesto a un giovane di leggere alcuni suoi versi pieni di parole antiche, e avutili, poco dopo rendendoglieli disse che non gl’intendeva, perché quelle parole non s’usavano al tempo suo. Rispose il giovane: — Anzi, credea che s’usassero, perché sono molto antiche. —
13 ottobre 1820, Z. 273 (I, 359):
Di un ricco avaro, al quale era stata rubata una piccolissima somma in un suo stanzino, pieno di danaio disse taluno: — S’è mostrato avaro (è stato avaro) anche nel lasciarsi rubare. —
Z. 66 (I, 178):
Di un calcolatore, che ad ogni cosa che udiva si metteva a computare, disse un tale: — Gli altri fanno le cose, ed egli le conta. —
Z. 6 (I, 82):
Messer tale, domandato da alcuni che disputavano sopra una statua antica di Giove in terra cotta, che ne sentisse, rispose:
— Meravigliomi come non vi siate accorti che questo è un Giove in Creta, volendo dire in terra cotta, ma in sembianza, nell’isola di Creta, dove Giove fu allevato. —
9 novembre 1820, Z. 309 (I, 382):
Di uno sciocco, che sempre vien fuori colla logica, dove ha gran presunzione, e la caccia in tutti i discorsi: — Egli è propriamente l’uomo definito alla greca: un animale logico. —
DIALOGO DI CRISTOFORO COLOMBO E DI PIETRO GUTIERREZ
Postille marginali all’autogr. p. 145 e p. 147 richiamano, la prima Robertson, Storia d’America, libro primo, Venezia, 1794, T. I, pp. 84-91; la seconda Robertson, l. c., 1. I, nota 2, p. 180; Arriani, Indica, cap. ult. e nota 16.
ELOGIO DEGLI UCCELLI
Postille marginali dell’autografo rimandano via via al Buffon: per la gaiezza degli uccelli in confronto alla gravitá degli altri animali p. 150, 1. 10 sgg. Quadrupedi, T. VI, p. 142; — a p. 151, 1. 3, Uccelli, T. I, 57-60; a p. 152, 1. 4 sgg. Uccelli, T. I, 52; — p. 153, Buffon, l. cit., p. 64 ecc. a p. 153, 1. 20 è richiamato Robertson, Storia d’America, lib. IV.
All’accenno a Virgilio: p. 153 Egl. IV fine.
E ad Anacreonte: Ode 20: Ἡ Ταντάλου ποτ´ ἔστη.
In quelle farragini di Disegni letterari notati alla rinfusa di cui non è quasi possibile determinar date c’è un: «Bellezze ecc. della Storia naturale, de’ quadrupedi ecc.». Deve esser posteriore al 1824, perché reca anche un «Commento o riflessioni sopra diversi luoghi di diversi autori sull’andare di quelle ch’io fo in un capitolo dell’Ottonieri. Nello Zibaldone c’è solo:
8 luglio 1820, p. 159 (I, 266):
Osservate ancora un finissimo magistero della natura. Gli uccelli ha voluto che fossero per natura loro i cantori della terra; e, come ha posto i fiori per diletto dell’odorato, cosí gli uccelli per diletto dell’udito. Ora, perché la loro voce fosse bene intesa che cosa ha fatto? Gli ha resi volatili, acciocché il loro canto, venendo dall’alto si spargesse molto in largo. Questa combinazione del volo e canto non è certamente accidentale. E perciò la voce degli uccelli reca a noi piú diletto che quella degli altri animali, fuorché l’uomo, perché era espressamente ordinata al diletto dell’udito.
E credo che ne rechi anche piú agli altri animali, che sono in uno stato naturale, e forse perciò piú capaci di trovarci tutta o in parte quell’armonia che ci trovano gli stessi uccelli e che noi non ci troviamo, perché, allontanandoci dalla natura, abbiamo perduto certe idee primitive intorno alla convenienza, non assolute e necessarie, ma tuttavia dateci forse arbitrariamente dalla natura. Io credo che i selvaggi trovino il canto degli uccelli molto piú dolce; e mi pare che si potrebbe provar lo stesso degli antichi, i quali è noto che sentivano maggior diletto di noi nel canto delle cicale ecc., delle quali pure, e simili, si può notare che cantano sopra gli alberi.
E ancora il 16 settembre 1821, Z. 1716 (III, 328):
Lo svelto non è che vivacitá. Ella piace... dunque anche la sveltezza. Cosí che il piacere che l’uomo prova ordinariamente alla vista degli uccelli (esempi di vivezza e sveltezza) massime se li contempla da vicino, tiene alle piú intime inclinazioni e qualitá della natura umana, cioè l’inclinazione alla vita.
E il giorno dopo aggiungeva, Z. 1725 (III, 333):
Cosí dico della prontezza del corpo che dello spirito, de’ discorsi ecc., della mobilitá e di altre tali qualitá umane o qualunque, che sono piacevoli per sé, per natura delle cose; piacevoli dico e non belle, anzi talvolta contrarie al bello fino a un certo punto; e pur piacciono ecc. Quello che ho detto degli uccelli dico pure de’ fanciulli in genere; il piacere ch’essi ordinariamente cagionano derivando in gran parte da simili fonti. E parimenti discorro d’altri simili oggetti piacevoli.
CANTICO DEL GALLO SILVESTRE
4 luglio 1820, Z. 151 (1, 258):
Al levarsi da letto, parte pel vigore riacquistato col riposo, parte per la dimenticanza dei mali avuta nel sonno, parte per una certa rinnovazione della vita, cagionata da quella specie d’interrompimento datole, tu ti senti ordinariamente o piú lieto o meno triste di quando ti coricasti. Nella mia vita infelicissima, l’ora meno trista è quella del levarmi. Le speranze e le illusioni ripigliano per pochi momenti un certo corpo; ed io chiamo quell’ora la gioventú della giornata, per questa similitudine che ha colla gioventú della vita. E anche riguardo alla stessa giornata, si suol sempre sperare di passarla meglio della precedente. E la sera, che ti trovi fallito di questa speranza e disingannato, si può chiamare la vecchiezza della giornata.
30 o 31 luglio 1820, Z. 193 (I, 297):
Gran magistero della natura fu quello d’interrompere, per modo di dire, la vita col sonno. Questa interruzione è quasi una rinnovazione, e il risvegliarsí come un rinascimento. Infatti anche la giornata ha la sua gioventú ecc. Oltre alla gran varietá che nasce da questi continui interrompimenti, che fanno di una vita sola come tante vite. E lo staccare una giornata dall’altra è un sommo rimedio contro la monotonia dell’esistenza. Né questa si poteva diversificare e variare maggiormente che componendola in gran parte quasi del suo contrario, cioè d’una specie di morte.
E vedi nelle Memorie della mia vita il commento alle parole di M.me de Lambert; Nous ne vivons que pour perdre et pour nous dètacher.
A p. 158 1. 4, l’autogr. ha; Salmo: Exultavit ut gigas ecc.
FRAMMENTO APOCRIFO DI STRATONE DA LAMPSACO
Ad illustrazione e commento di queste pagine bisognerebbe poter riferir tutti o quasi i frammenti di quel trattato Della natura degli uomini e delle cose di cui il L. diceva al Colletta: «sará l’opera della mia vita», e recar tutti gli elementi che lo condussero al materialismo. Troppo lunga illustrazione e fuor di luogo: mi limiterò dunque a due «pensieri» segnati, due anni dopo composta l’operetta nello Zibaldone.
18 febbraio 1827, Z. 4248 (VII, 187):
Certo molte cose nella natura vanno bene, cioè vanno in modo che esse cose si possono conservare e durare che altrimenti non potrebbero. Ma le infinite (e forse in piú numero che quelle) vanno male, e sono combinate male, sí morali sí fisiche, con estremo incomodo alle creature; le quali cose di leggieri si sarebbono potute combinar bene. Pure, perch’elle non distruggono l’ordine presente delle cose, vanno naturalmente e regolarmente male; e sono mali naturali e regolari. Ma noi da queste non argomentiamo giá che la fabbrica dell’universo sia opera di causa non intelligente; benché da quelle cose che vanno bene crediamo poter con certezza argomentare che l’universo sia fattura d’un’intelligenza. Noi diciamo che questi mali sono misteri; che paiono mali a noi, ma non sono; benché non ci cade in mente di dubitare che anche quei beni sieno misteri, e che ci paiano beni e non siano. Queste considerazioni confermano il sistema di Stratone da Lampsa o, spiegato da me in un’operetta a posta.
16 maggio 1829, Z. 4510 (VII, 446):
Quel che si dice degli stupendi ordini dell’universo e come tutto è mirabilmente congegnato per conservarsi ecc. è come quel che si dice che i semi non si depongono, gli animali non nascono se non in luogo dove si trovi il nutrimento che lor conviene, in luogo che lor convenga per vivere. Milioni di semi (animali o vegetabili) si posano; milioni di piante o d’animali nascono in luoghi dove non hanno di che nutrirsi, non posson vivere. Ma questi periscono ignorati; gli altri (e non so se sieno i piú) giungono a perfezione, sussistono e vengono a cognizione nostra. Sicché quel che vi è di vero si è che i soli animali ecc. che si conservino, si maturino, e che noi conosciamo sono quelli che capitano in luoghi dove possan vivere ecc. Ovvero che gli animali che non capitano ecc. non vivono ecc. Questo è il vero; ma questo non vale la pena di esser detto. Or cosí discorrete del sistema della natura, del mondo ecc. appresso a poco secondo le idee di Stratone da Lampsaco.
E il giorno dopo, commentando queste parole del Rousseau: «Homme, ne cherche plus l’auteur du mal; cet auteur c’est toi-même. Il n’existe point d’autre mal que celui que tu fais ou que tu souffres, et l’un et l’autre te vient de toi. Le mal general ne peut être que dans le désordre, et je vois dans le système du monde un ordre qui ne se dement point. Le mal particulier n’est que dans le sentimenit de l’être qui souffre; et ce sentiment l’homme ne l’a pas reçu de la Nature, il se l’est donnè. La douleur a peu de prise sur quiconque, ayant peu rèflèchi, n’a ni souvenir ni prevoyances. Ôtez-nous nos funestes progrès, ôtez nos erreurs et nos vices, ôtez l’ouvrage de l’homme, et tout est bien (Rousseau, Pensées, II, 200):
Anzi appunto l’ordine che è nel mondo, e il veder che il male è nell’ordine, che esso ordine non potrebbe star senza il male, rende l’esistenza di questo inconcepibile. Animali destinati per nutrimento d’altre specie; invidia ed odio ingenito de’ viventi verso i loro simili; altri mali anche piú gravi ed essenziali da me notati altrove nel sistema della natura ecc. Noi concepiamo piú facilmente de’ mali accidentali che regolari e ordinari. Se nel mondo vi fossero disordini, i mali sarebbero straordinari, accidentali; noi diremmo: l’opera della natura è imperfetta, come son quelle dell’uomo; non diremmo: è cattiva. L’autrice del mondo ci apparirebbe una ragione e una potenza limitata; niente maraviglia; poiché il mondo stesso (dal quale solo, che è l’effetto, noi argomentiamo Resistenza della causa) è limitato in ogni senso. Ma che epiteto dare a quella ragione e potenza che include il male nell’ordine, che fonda l’ordine nel male? Il disordine varrebbe assai meglio; esso è vario, mutabile; se oggi v’è del male, domani vi potrá esser del bene, esser tutto bene. Ma che sperare quando il male è ordinario? dico, in un ordine ove il male è essenziale?
DIALOGO DI TIMANDRO E DI ELEANDRO
Z. p. 87 (avanti il gennaio 1820) I, 197.
Quando l’uomo veramente sventurato si accorge e sente profondamente l’impossibilitá d’esser felice, e la somma e certa infelicitá dell’uomo, comincia dal divenire indifferente intorno a se stesso, come persona che non può sperar nulla né perdere e soffrire piú di quello ch’ella giá preveda e sappia. Ma se la sventura arriva al colmo, l’indifferenza non basta: egli perde quasi affatto l’amor di sé, ch’era giá da questa indifferenza cosí violato; o piuttosto lo rivolge in un modo tutto contrario al consueto degli uomini: egli passa ad odiare la vita, l’esistenza e se stesso, egli si abborre come un nemico: e allora è quando l’aspetto di nuove sventure, o l’idea e l’atto del suicidio gli danno una terribile e quasi barbara allegrezza, massimamente se egli pervenga ad uccidersi, essendone impedito da altrui; allora è il tempo di quel maligno, amaro e ironico sorriso, simile a quello della vendetta eseguita da un uomo crudele, dopo forte, lungo ed irritato desiderio: il qual sorriso è l’ultima espressione della estrema disperazione e della somma infelicitá.
Vedi Stael, Corinne, 1. 17, ch. 4.
E si vedano tutti gli appunti per le Memorie della vita, presi in quegli anni massimamente. Quello del'11 ottobre 1820, Z. 271 sgg. (I, 358) giá riferito a pag. 248 è specialmente da notare:
21 marzo 1821, Z. 830 (II, 209):
Non solamente è ridicolo che si pretenda la perfettibilitá dell’uomo in quanto alla mente ed a quello che si ha riguardo, come ho detto in altro pensiero, ma anche in quanto ai comodi corporali. Paiono oggi cosí necessari quelli che sono in uso che si crede quasi impossibile la vita umana senza di questi, o certo molto piú misera; e si stimano i ritrovamenti di tali comoditá tanti passi verso la perfezione e la felicitá della nostra specie; massime di certe comoditá che, sebbene lontanissime dalla natura, contuttociò si stimano essenziali ed indispensabili all’uomo. Ora io non domanderò a costoro come abbian fatto gli uomini a viver tanto tempo privi di cose indispensabili; come facciano oggi tanti popoli di selvaggi, parecchi ancora dei nostrali e sotto ai nostri occhi tutto giorno, anzi ancora quelli stessi piú che mai assuefatti a tali cose pretese indispensabili, quando per mille diversitá di accidenti si trovano in circostanza di mancarne, alle volte anche volontariamente.
Osservate in questo proposito che, essendo certo non potersi perfezionare il corpo dell’uomo, anzi deperire nella civiltá, e quindi non darsi perfettibilitá dell’uomo in quanto al corpo, la quale infatti niuno asserí né asserirebbe; tuttavia si sostiene la sua perfettibilitá infinita in quanto all’animo; quando intorno al corpo, volendo anche prendere per perfezioni quelle che oggi si credono tali, e in natura sono la maggior parte il contrario, certo però la perfettibilitá sarebbe finitissima. I quali tutti, in luogo di accorgersi della loro infelicitá, hanno anzi creduto e credono e si accorgono molto meno di essere infelici di quello che noi facciamo a riguardo nostro; e molto meno lo erano e lo sono, si per questa credenza come anche indipendentemente.
Non chiamerò in mio favore la sètta cinica e l’esempio e l’istituto loro, diretto a mostrare col fatto di quanto poco e di quante poche invenzioni e sottigliezze abbisogni la vita naturale dell’uomo. Non ripeterò che, siccome l’abitudine è una seconda natura, cosí noi crediamo primitivo quel bisogno che deriva dalla nostra corruzione; e che molti, anzi infiniti bisogni nostri sono oggi reali, non solamente per l’assuefazione, la quale, come è noto, dá o toglie la capacitá di questo o di quello e di astenersi da questo o da quello; ma anche senza essa, per l’indebolimento ed alterazione formale delle generazioni umane, divenute oggidí bisognose di certi aiuti soggette a certi inconvenienti e quindi necessitose di certi rimedi che non avevano alcun luogo nella umanitá primitiva ecc.
DIALOGO DI PLOTINO E DI PORFIRIO 19 marzo 1821, Z. 814-19 (II, 201-3):
La nostra condizione oggidí è peggiore di quella de’ bruti anche per questa parte. Nessun bruto desidera certamente la fine della sua vita; nessuno, per infelice che possa essere, o pensa a tòrsi dalla infelicitá colla morte, o avrebbe il coraggio di procurarsela.
La natura, che in loro conserva tutta la sua primitiva forza, li tiene ben lontani da tutto ciò. Ma se qualcuno di essi potesse desiderar mai di morire, nessuna cosa gl’impedirebbe questo desiderio. Noi siamo del tutto alienati dalla natura, e quindi infelicissimi. Noi desideriamo bene spesso la morte, e ardentemente, e come unico e calcolato rimedio delle nostre infelicitá; in maniera che noi la desideriamo spesso e con piena ragione, e siamo costretti a desiderarla come il sommo nostro bene. Ora, stando cosí la cosa, ed essendo noi ridotti a questo punto, e non per errore ma per forza di veritá, qual maggior miseria che il trovarsi impediti di morire e di conseguire quel bene che, siccome è sommo, cosí d’altra parte sarebbe interamente in nostra mano; impediti, dico, o dalla religione, o dalla inespugnabile, invincibile, inesorabile, inevitabile incertezza della nostra origine, destino, ultimo fine, e di quello che ci possa attendere dopo la morte? Io so bene che la natura ripugna con tutte le sue forze al suicidio; so che questo rompe tutte le di lei leggi, piú gravemente che qualunque altra colpa umana; ma da che la natura è del tutto alterata; da che la nostra vita ha cessato di esser naturale; da che la felicitá che la natura ci avea destinata è fuggita per sempre, e noi siam fatti incurabilmente infelici; da che quel desiderio della morte, che non dovevamo mai, secondo natura, neppur concepire, in dispetto della natura e per forza di ragione, si è anzi impossessato di noi; perché questa stessa ragione c’impedisce di soddisfarlo e di riparare nell’unico modo possibile ai danni ch’ella stessa e sola ci ha fatti? Se il nostro stato è cambiato, se le leggi stabilite dalla natura non hanno piú forza su di noi, perché non seguendole in nessuna di quelle cose dov’elle ci avrebbero giovato e felicitato, dobbiamo seguirle in quella dove oggidí ci nocciono, e sommamente? Perché, dopo che la ragione ha combattuta e sconfitta la natura, per farci infelici, stringe poi seco alleanza, per porre il colmo all’infelicitá nostra, coll’impedirci di condurla a quel fine che sarebbe in nostra mano? Perché la ragione va d’accordo colla natura in questo solo che forma l’estremo delle disgrazie? La ripugnanza naturale alla morte è distrutta, negli estremamente infelici, quasi del tutto. Perché dunque debbono astenersi dal morire per ubbidienza alla natura? Il fatto è questo. Se la religione non è vera, s’ella non è se non un’idea concepita dalla nostra misera ragione, quest’idea è la piú barbara cosa che possa esser nata nella mente dell’uomo; è il parto mostruoso della ragione il piú spietato; è il massimo dei danni di questa nostra capitale nemica, dico la ragione, la quale avendo scancellate dalla mente, dall’immaginativa e dal cuor nostro tutte le illusioni che ci avrebbero fatti e ci faceano bruti, questa sola ne conserva, questa sola non potrá mai cancellare se non con un intiero dubbio (ch’è tutt’uno e ragionevolmente deve produrre in tutta la vita umana gli stessi effetti né piú né meno che la certezza) questa sola che mette il colino alla disperata disperazione dell’infelice. La nostra sventura, il nostro fato ci fa miseri, ma non ci toglie, anzi ci lascia nelle mani il finir la miseria nostra quando ci piaccia. L’idea della religione ce lo vieta inesorabilmente e irrimediabilmente; perché, nata una volta quest’idea nella mente nostra, come accertarsí che sia falsa? e anche nel menomo dubbio, come arrischiare l’infinito contro il finito? Non è mai paragonabile la sproporzione che è tra il dubbio e il certo con quella che è tra l’infinito e il finito, ancorché questo certo, e quello quanto si voglia dubbio. Cosí che, siccome l’infelicitá per quanto sia grave nondimeno si misura principalmente dalia durata, essendo sempre piccola cosa quella che può durare, volendo, un momento solo, e di piú servendo infinitamente ad alleggerire qualunque male il saper certo ch’è in nostra mano il sottrarcene ogni volta che ci piaccia; cosí possiamo dire che oggi, in ultima analisi, la cagione dell’infelicitá dell’uomo misero, ma non istupido né codardo, è l’idea della religione; e che questa, se non è vera, è finalmente il piú gran male dell’uomo e il sommo danno che gli abbiano fatto le sue disgraziate ricerche e ragionamenti e meditazioni o i suoi pregiudizi.
5 luglio 1822, Z. 2549 sgg. (IV, 302):
La quistíone se il suicidio giovi o non giovi all’uomo (al che si riduce il sapere se sia o no ragionevole e preeleggibile) si ristringe in questi puri termini. Qual delle due cose è la migliore, il patire o il non patire? Quanto al piacere, è cosa certa immutabile e perpetua che l’uomo, in qualunque condizione della vita, anche felicissima secondo il linguaggio comune, non lo può provare, giacché come ho dimostrato altrove, il piacere è sempre futuro e non mai presente. E come, per conseguenza, ciascun uomo dev’esser fisicamente certo di non provar mai piacere alcuno in sua vita, cosí anche ciascuno dev’esser certo di non passar giorno senza patimento; e la massima parte degli uomini è certa di non passar giorno senza patimenti molti e gravi, ed alcuni son certi di non passarne senza lunghissimi e gravissimi (che sono i cosí detti infelici: poveri, malati insanabili, ecc. ecc.). Ora io torno a dimandare qual cosa sia migliore, se il patire o il non patire. Certo il godere, fors’anche il godere e patire sarebbe meglio del semplice non patire (giacché la natura e l’amor proprio ci spinge e trasporta tanto verso il godere che ci è piú grato il godere e patire, del non essere e non patire, e non essendo, non poter godere); ma il godere non essendo possibile all’uomo, resta escluso necessariamente e per natura, da tutta la questione. E si conclude che, essendo all’uomo piú giovevole il non patire che il patire, e non potendo vivere senza patire, è materialmente vero e certo che l’assoluto non essere giova e conviene all’uomo piú dell’essere, e che l’essere nuoce precisamente all’uomo. E però chiunque vive (tolta la religione), vive per puro e formale error di calcolo: intendo il calcolo delle utilitá. Errore moltiplicato tante volte quanti sono gl’istanti della nostra vita, «in ciascuno de’quali noi preferiamo il vivere al non vivere». E lo preferiamo col fatto non meno che coll’intenzione, col desiderio e col discorso piú o meno espresso, piú o meno tacito e implicato della nostra mente. Effetto dell’amor proprio ingannato, come in tante altre cattive elezioni ch’egli fa, considerandole sotto l’aspetto di bene, e del massimo bene che gli convenga, in quelle tali circostanze.
Che poi l’uomo debba esser certo di non passar giorno senza patimento, il che potrebbe parere una parte non abbastanza provata in questo mio ragionamento, lasciando stare i mali e i dolori accidentali, che intervengono inevitabilmente a tutti gli uomini, si dimostra anche dalla medesima proposizione la quale afferma che l’uomo dev’esser certo di non provar piacere alcuno in sua vita. Perocché l’assenza, la mancanza, la negazione del piacere al quale il vivente tende, come a suo sommo ed unico fine, perpetuamente e in ciascuno istante, per natura, per essenza, per amor proprio inseparabile da lui; la negazione, dico, del piacere il quale è la perfezione della vita, non è un semplice non godere, ma è un patire (come ho dimostrato nella Teoria del piacere); perocché l’uomo e il vivente non può esser privo della perfezione della sua esistenza, e quindi della sua felicitá, senza patire e senza infelicitá. E tra la felicitá e l’infelicitá non v’è condizione di mezzo. Quello è il fine necessario, continuo e perpetuo di tutti gli atti esterni ed interni, e di tutta la vita dell’animale. Non ottenendolo, l’animale è infelice; e questo in ciascuno di quei momenti nei quali, desiderando il detto fine, ossia la felicitá, infinitamente come sempre, non l’ottiene e ne è privo, come lo è sempre. E però l’uomo dev’esser fisicamente certo di non passar, non dico giorno, ma istante senza patire. E tutta la vita è veramente, per propria natura immutabile, un tessuto di patimenti necessari, e ciascun istante che la compone è un patimento.
Di piú l’uomo dev’esser certo di provare in vita sua piú o meno, maggiori o minori, ma certo gravi e non pochi di quei patimenti accidentali, che si chiamano mali, dolori, sventure, o che provengono dai vari desidèri dell’uomo, ecc. E quando anche questi non dovessero comporre in tutto se non la menoma parte della sua vita, com’è certo che ne comporranno la massima, essendo egli d’altra parte certissimo di passar tutta la vita senza un piacere, la quistione ritorna ai suoi primi termini; cioè se, essendo meglio il non patire che il patire, e non potendosi vivere senza patire, sia meglio il vivere o il non vivere. Un solo, anche menomo dolore riconosciuto per inevitabile nella vita, non avendo per controbilancio neppure un solo e menomo piacere, basta a far che l’essere noccia all’esistente e che il non essere sia preferibile all’essere.
Tutto questo essendo applicabile ad ogni genere di viventi, in qualunque loro condizione (ninno de’ quali può essere felice e quindi non essere infelice e non patire); e d’altronde posando sopra principi e fondamenti, quanto profondi altrettanto certissimi e immobili, ed essendo esattissimamente ragionato e dedotto, e strettamente conseguente, serva a far conoscere la distruttiva natura della semplice ragione, della metafisica, della dialettica, in virtú delle quali tutto il mondo vivente dovrebb’esser perito, per volontá e per opera propria, poco dopo il suo nascere.
23 ottobre 1821, Z. 1978 sgg. (III, 473):
Il suicidio è contro natura. Ma viviamo noi secondo natura? Non l’abbiamo al tutto abbandonata per seguir la ragione? Non siamo animali ragionevoli, cioè diversissimi dai naturali? La ragione aon ci mostra ad evidenza l’utilitá di morire? Desidereremmo noi di ucciderci, se non conoscessimo altro movente, altro maestro della vita che la natura, e se fossimo ancora, come giá fummo, nello stato naturale? Perché dunque, dovendo vivere contro natura, non possiamo morire contro natura? perché, se quello è ragionevole, questo non lo è? perché se la ragione ci ha da essere maestra della vita, l’ha da determinare, regolare, predominare; non l’ha da essere, non può far altrettanto della morte? Misuriamo noi il bene o il male delle nostre azioni dalla natura? No, ma dalla ragione. Perché tutte le altre dalla ragione e questa dalla natura?
Non c’è che dire. La presente condizione dell’uomo, obbligandolo a vivere e pensare ed operare secondo ragione e vietandogli di uccidersi, è contraddittoria. O il suicidio non è contro la morale, sebben contro natura, o la nostra vita, essendo contro natura è contro la morale. Questo no, dunque neppur quello.
Accade del suicidio come della medicina. Essa non è naturale. Il tirar sangue, tanti farmachi velenosi, tante operazioni dolorose, ecc. sono ignote ai popoli naturali e sono contro natura. Ma lo stato fisico dell’uomo essendo oggi, e sempre piú divenendo, lontanissimo dal naturale, è conveniente e necessaria un’arte e dei mezzi non naturali per rimediare agl’incomodi di un tale stato. (Vedi Celso, Sull’origine della medicina).
Ovvero: il tirar sangue è contro natura. Ma l’inconveniente che lo esige, essendo un accidente di cui l’ordine naturale non è colpevole né responsabile, il rimedio è conveniente ancorché non naturale, ma è conveniente per accidente.
Or nello stesso modo questo grande accidente che contro l’ordine naturale ha mutato la condizione dell’uomo; quell’accidente di cui la natura non è colpevole, e che non potea esser preveduto né provveduto, ma che contro l’ordine naturale ci fa desiderar la morte, rende conveniente il suicidio, per contrario che sia alla natura.
Non v’è dunque che la religione che possa condannare il suicidio. L’esser contrario alla natura, nel presente stato dell’uomo, non è prova nessuna ch’egli non sia lecito.
Che bello e felice stato dev’esser dunque quello il quale, quanto a sé, rende lecito e domanda la cosa piú contraria all’essenza di qualunque cosa, la piú contraddittoria coll’esistenza e co’ suoi principi, quella che, ridotta ad atto, distruggerebbe tutto ciò che vive e sorvertirebbe l’ordine di tutto ciò che ne dipende o vi ha relazione.
Da tutto ciò si vede che il progresso della ragione tende essenzialmente, non solo a rendere infelice, ma a distruggere la specie umana, i viventi, o esseri capaci di pensiero, e l’ordine naturale. Non v’è che la religione (assai piú favorita e provata dalla natura che dalla ragione), la quale puntelli il misero e crollante edificio della presente vita, ed entri di mezzo per metter d’accordo alla meglio questi due incompatibili ed irreconciliabili elementi dell’umano sistema, ragione e natura, esistenza e nullitá, vita e morte.
29 aprile 1S22, Z. 2402 (IV, 219):
La natura vieta il suicidio. Qual natura? Questa nostra presente?
Noi siamo di tutt’altra natura da quella ch’eravamo. Paragoniamoci colle nazioni naturali, e vediamo se quegli uomini si possono stimare d’una stessa razza con noi. Paragoniamoci con noi medesimi fanciulli, e avremo lo stesso risultato. L’assuefazione è una seconda natura; massime l’assuefazione cosí radicata, cosí lunga e cominciata in sì tenera etá, com’è quell’assuefazione (composta d’assuefazioni infinite e diversissime) che ci fa esser tutt’altri che uomini naturali o conformi alla prima natura dell’uomo e alla natura generale degli esseri terrestri. Pasti dire che volendo con ogni massimo sforzo rimetterci nello stato naturale, non potremmo, né quanto al fisico, che non lo sopporterebbe in verun modo, né, posto che si potesse quanto al fisico ed esternamente, si potrebbe quanto al morale ed internamente; il che viene ad esser tutt’uno, non potendo noi esser piú partecipi della felicitá destinata all’uomo naturalmente, perché l’interno nostro, ch’è la parte principale di noi, non può tornar qual era, per nessuna cagione o arte. Che ha dunque a fare in questa quistione del suicidio, e in ogni altra cosa che ci appartenga, la legge o l’inclinazione di una natura che non solo non è nostra, ma anche volendo noi e procurandolo per ogni verso non potrebbe piú essere? Il punto dunque sta qual sia l’inclinazione e il desiderio di questa seconda natura, ch’è veramente nostra e presente. E questa, invece d’opporsi a! suicidio, non può far che non lo consigli e non lo brami intensamente; perché anch’ella odia sopratutto l’infelicitá e sente che non la può fuggire se non con la morte, e non tollera che la tardanza di questa allunghi i suoi patimenti. Dunque la vera natura nostra, che non abbiamo da far niente cogli uomini del tempo di Adamo, permette, anzi richiede il suicidio. Se la nostra natura fosse la prima natura umana, non saremmo infelici; e questo è inevitabilmente e irrimediabilmente; e non desidereremmo, anzi abboniremmo la morte.
La nostra natura presente è appresso a poco la ragione. La quale anch’essa odia l’infelicitá. E non v’è ragionamento umano che non persuada il suicidio, cioè piuttosto di non essere che di essere infelice. E noi seguiamo la ragione in tutt’altro, e crederemmo di mancare al dover di uomo facendo altrimenti.
23 giugno 1822, Z. 2492 (IV, 272):
Intorno al suicidio. È cosa assurda che, secondo i filosofi e secondo i teologi, si possa e si debba viver contro natura (anzi non sia lecito viver secondo natura) e non si possa morir contro natura. E che sia lecito d’essere infelice contro natura (che non avea fatto l’uomo infelice) e non sia lecito di liberarsi dalla infelicitá in un modo contro natura, essendo questo l’unico possibile, dopo che noi siamo ridotti cosí lontani da essa natura e cosí irreparabilmente.
10 dicembre 1821, Z. 2241-2 (IV, 124):
Se la natura è oggi fatta impotente a felicitarci, perché ha perduto il suo regno su di noi, perché dev’ella essere ancora potente a interdirci l’uscita da quella infelicitá che non viene da lei, non dipende da lei, non ubbidisce a lei, non può rimediarsi se non con la morte? S’ella non è piú l’arbitro né la regola della nostra vita, perché dev’esserlo della nostra morte? Se il suo fine è la felicitá degli esseri, e questo è perduto per noi vivendo, non obbedisce meglio alla natura, non procura meglio il di lei scopo chi si libera con la morte dall’infelicitá altrimenti inevitabile, di chi s’astiene di farlo, osservando il divieto naturale, che, non vivendo noi piú naturalmente, né potendo piú godere della felicitá prescrittaci dalla natura, manca ora affatto del suo fondamento?
Giá fin dalle prime pagine, nel 1817 o 18 aveva notato (Z. 57, I, 166):
Di alcuni principi che si sieno uccisi per evitare qualche grande sventura, o per non saperne sopportare qualcuna giá sopraggiunta loro, si legge, come di Cleopatra, Mitridate, ecc. e piú, anzi forse solamente, fra gli antichi. Ma di quelli che si sieno uccisi per le altre cagioni che producono ora il suicidio, come la malinconia, l’amore, ecc., non si legge, ch’io sappia, in nessuna storia. Eppure lo scontento della vita e la noia e la disperazione dovrebb’essere tanto maggiore in loro che negli altri, in quanto questi possono supporre, se non colla ragione, la quale è ben persuasa del contrario, almeno coll’immaginazione, che non si persuade mai, che ci sia uno stato miglior del loro; ma quelli, giá nell’apice della umana felicitá, trovandola vana, anzi miserabilissima, non possono piú ricorrere neppur col pensiero in alcun luogo, arrivati, per cosí dire al confine e al muro, e quindi dovrebbono guardar questa vita come abitazione veramente orribile per ogni parte e disperata, se giá i loro desiderii non si volgono ai gradi e condizioni inferiori, ovvero a quei miserabili accrescimenti di felicitá che un principe si può sognare, come conquiste, ecc.
Infine, tra i fogli sparsi editi in Scritti vari inediti tratti dalle carte napoletane son queste pagine (pp. 387-389) alle quali non saprei su quali elementi i dotti editori han segnata la data (1832?): — ma io le crederei di qualche anno prima, — è questo appunto:
Che vale il dire che l’uomo è cambiato? Se anche la natura invecchiasse o potesse mai cambiarsi ecc. Ma poiché ecc. e la felicitá che la natura ci ha destinata, e le vie d’ottenerla sono sempre immutabili e sole, a che fine ci condurrá l’averle abbandonate? Che cosa dimostrano tante morti volontarie ecc. se non che gli uomini sono stanchi e disperati di questa esistenza? Anticamente gli uomini si uccidevano per eroismo, per illusioni, per passioni violente ecc. e le morti loro erano illustri, ecc. Ma ora che l’eroismo e le illusioni sono sparite, e le passioni cosí indebolite, che vuol dire che il numero dei suicidi è tanto maggiore, e non solamente nelle persone illustri per grandi sventure, come una volta, e nutrite di grandi immaginazioni, ma in ogni classe, tanto che queste morti neanche sono piú illustri? Che vuol dire che l’Inghilterra n’è stata sempre piú feconda che le altre parti? Vuol dire che in Inghilterra si medita piú che altrove, e dovunque si medita, senza immaginazione ed entusiasmo, si detesta la vita; vuol dire che la cognizione delle cose conduce il desiderio della morte ecc. Ed ora si vedono morti volontarie fatte con tutta freddezza. E infatti, se togliamo il timore o la speranza del futuro, non è cosí meschino calcolatore che ragguagliando le partite di una vita nulla e morta e piena di dolore e di noia certa e inevitabile ecc. ecc. E pure il suicidio è la cosa piú mostruosa in natura ecc. ecc.
Non è piú possibile l’ingannarci o il dissimulare. La filosofia ci ha fatto conoscer tanto che quella dimenticanza di noi stessi ch’era facile una volta, ora è impossibile. O la immaginazione tornerá in vigore, e le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita energica e mobile, e la vita tornerá ad esser cosa viva e non morta, e la grandezza e la bellezza delle cose torneranno a parere una sostanza, e la religione riacquisterá il suo credito; o questo mondo diverrá un serraglio di disperati, e forse anche un deserto. So che questi parranno sogni e follie, come so ancora che chiunque, trent’anni addietro, avesse prenunziata questa immensa rivoluzione di cose e di opinioni della quale siamo stati e siamo spettatori e parte, non avrebbe trovato chi si degnasse di mettere in beffa il suo vaticinio ecc. In somma il continuare in questa vita della quale abbiamo conosciuto l’infelicitá e il nulla, senza distrazioni vive, e senza quelle illusioni su cui la natura ha stabilita la nostra vita, non è possibile.
Tuttavia la politica segue ad esser quasi puramente matematica, in cambio d’esser filosofica, quasí che sconvenisse alla filosofia, dopo aver distrutto ogni cosa, l’adoprarsi a riedificare (quando anzi questo dev’essere il suo vero oggetto presentemente, al contrario de’tempi d’ignoranza), e ch’ella non dovesse mai fare un gran bene agli uomini, perché fin qui non ha fatto loro altro che beni piccoli e mali sommi.
Oggetto primitivo della natura nel variare le cose: la distrazione dell’uomo, e il non farlo fermare a lungo in nessun oggetto, neanche nel piacere, il quale dopo lungo desiderio allora ch’è conseguito ci diventa arena tra le mani; e come quegli ebrei che dicevano haec est illa Noemis? cosí noi sempre e inevitabilmente diciamo allora: «questo è quel gran piacere?». Tutto il piano della natura intorno alla vita umana si aggira sopra alla gran legge di distrazione, illusione e dimenticanza. Quanto piú questa legge è svigorita, tanto piú il mondo va in perdizione.
Pochissimi convengono che le cose antiche fossero veramente piú felici delle moderne, e questi pochissimi le riguardano come cose alle quali non si dèe piú pensare perché le circostanze sono cambiate. Ma la natura non è cambiata, e un’altra felicitá non si trova, e la filosofia moderna non si dèe vantar di nulla se non è capace di ricondurci a uno stato nel quale possiamo esser felici. O sieno cose antiche o non antiche, il fatto sta che quelle convenivano all’uomo e queste no, e che allora si viveva anche morendo, e ora si muore vivendo, e che non ci sono altri mezzi che quegli antichi per tornare ad amare e a sentir la vita.
DIALOGO D’UN VENDITORE D’ALMANACCHI
E DI UN PASSEGGERE
Firenze, 1 luglio 1827, Z. 4283-4 (VII, 229-30):
Che la vita nostra, per sentimento di ciascuno, sia composta di piú assai dolore che piacere, male che bene, si dimostra per questa esperienza. Io ho dimandato a parecchi se sarebbero stati contenti di tornar a rifare la vita passata, con patto di rifarla né piú né meno quale la prima volta. L’ho dimandato anche sovente a me stesso. Quanto al tornare indietro a vivere, ed io e tutti gli altri sarebbero stati contentissimi; ma con questo patto, nessuno; e piuttosto che accettarlo tutti (e cosí io a me stesso) mi hanno risposto che avrebbero rinunziato a quel ritorno alla prima etá, che per se medesimo sarebbe pur tanto gradito a tutti gli uomini. Per tornare alla fanciullezza, avrebbero voluto rimettersi ciecamente alla fortuna circa la lor vita da rifarsi, e ignorarne il modo, come s’ignora quel della vita che ci resta da fare. Che vuol dir questo? Vuol dire che nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti abbiam provato piú male che bene; e che, se noi ci contentiamo e anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per l’ignoranza del futuro e per una illusione della speranza, senza la quale illusione e ignoranza, non vorremmo piú vivere, come non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti.
DIALOGO DI TRISTANO E DI UN AMICO
Firenze, 23 maggio 1832, Z. 4525 (VII, 462):
Gli uomini verso la vita sono come i mariti in Italia verso le mogli: bisognosi di crederle fedeli, benché sappiano il contrario. Cosí chi dèe vivere in un paese ha bisogno di crederlo bello e buono; cosí gli uomini di credere la vita una bella cosa. Ridicoli agli occhi miei come un marito becco e tenero della sua moglie.
E il 16 settembre (ivi):
Due veritá che gli uomini non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte.
E per quel che dice ironicamente Tristano del miglioramento della specie umana vedi il pensiero del 21 marzo 1821 riferito qui sopra a p. 305 a illustrazione del Dialogo di Timandro e di Eleandro.
12 febbraio 1821, Z. 646 (II, III):
Nessun secolo de’ piú barbari si è creduto mai barbaro, anzi nessun secolo è stato mai che non credesse di essere il fiore dei secoli e l’epoca piú perfetta dello spirito umano e della societá. Non ci fidiamo dunque di noi stessi nel giudicare del tempo nostro, e non consideriamo l’opinione presente, ma le cose, e quindi congetturiamo il giudizio della posteritá, se questa sará tale da poterci giudicar rettamente.
E ancora il 15 ottobre 1824, Z. 4120 (VII, 41):
Non solo come ho detto altrove, nessun secolo barbaro si credette esser tale, ma ogni secolo si credette e si crede essere il non plus ultra dei progressi dello spirito umano, e che le sue cognizioni, scoperte ecc., e massime la sua civilizzazione difficilmente o in niun modo possano essere superate dai posteri.
E rimandava a «un bel luogo del Petrarca, citato e tradotto elegantemente dal Perticari nel trattato Degli scrittori del Trecento, 1. I c. 16, 92-93».
Cosí non v’è nazione né popoletto cosí barbaro e selvaggio che non si creda la prima delle nazioni; e il suo stato il piú perfetto, civile, felice, e quel delle altre tanto peggiore, quanto piú diverso dal proprio. (Vedi Robertson, Storia d’America, Venezia, 1794, T. II, pp. 126, 232-33). Cosí le nazioni mezzo civili e imperfette, anche in Europa ecc. E cosí sempre fu.
20 marzo 1821, Z. 822-25 (II, 205-7):
Non solamente ciascuna specie di bruti stima o esplicitamente e distintamente, o certo implicitamente e confusamente, di esser la prima e piú perfetta nella natura e nell’ordine delle cose, e che tutto sia fatto per lei, ma anche nello stesso modo ciascun individuo. E cosí accade tra gli uomini, che implicitamente e naturalmente ciascuno si persuade la stessa cosa.
Parimente non v’è popolo sí barbaro che non si creda implicitamente migliore, piú perfetto, superiore a qualunque altro, e non si stimi il modello delle nazioni.
Parimente non v’è stato secolo si guasto e depravato che non si sia creduto nel colmo della civiltá, della perfezione sociale, l’esemplare degli altri secoli, e massimamente superiore per ogni verso a tutti i secoli passati, e nell’ultimo punto dello spazio percorso fino allora dallo spirito umano.
Con questa differenza però che, sebbene tutto è relativo in natura, è relativo per altro alle specie, cosí che le idee che una specie ha della perfezione ecc., appresso a poco, sono comuni agl’individui tutti di essa (massime se sono le idee naturali alla specie). Quindi è naturale e conseguente che un individuo, sebben portato naturalmente a credersi superiore al resto della sua specie, e tutto il mondo destinato all’uso e vantaggio suo, contuttociò con poco di raziocinio, facilmente possa riconoscere la superioritá ii altri individui della stessa specie, e credere il mondo avere per fine la sua specie intera, e questa essere tutta la piú perfetta delle cose esistenti e l’apice della natura. Quindi parimente un popolo, un secolo (ho parlato e parlo degli uomini, e si può applicare proporzionatamente agli altri viventi) o qualche individuo in essi possono ben riconoscere la superioritá di altri popoli e secoli, perché le idee relative del bello e del buono sono però, almeno in gran parte, generali in ciascuna specie, quando non derivino da pregiudizi, da circostanze particolari o da alterazione qualunque di questa o di quella parte della specie, come è avvenuto fra gli uomini, essendo alterata la loro natura, e diversamente alterata, e quindi anche alterate le idee naturali, e diversificate le opinioni ecc.
Questo, dico, accade facilmente all’individuo umano, rispettivamente alla sua propria specie. Ma rispetto ad un’altra specie non cosí:
1. perché le idee che son vere relativamente alla specie nostra, noi (e cosí ciascuna specie di viventi) le crediamo (e ciò per natura) vere assolutamente; quello ch’è buono e perfetto per noi lo crediamo buono e perfetto assolutamente; e quindi, misurando le altre specie sulla nostra misura, le stimiamo tutte inferiori d’assai; né possiamo mai credere che in una specie diversa dalla nostra ci sia tanta bontá e perfezione quanta in essa nostra, perché la perfezione essendo relativa e particolare, noi la crediamo assoluta e norma universale;
2. perché non ci possiamo mai porre nei piedi e nella mente di un’altra specie (come nessun bruto), per concepire le idee che essa ha del buono, del bello, del perfetto, e misurare quella specie secondo queste idee, le quali sono diversissime dalle nostre, e non entrano nella capacitá della nostra natura e nel genere della nostra facoltá né intellettiva né immaginativa né ragionatrice né concettiva ecc. ecc.
17 gennaio 1829, Z. 4439 (VII, 372):
N. N. legge di rado libri moderni; perché, dice, io veggo che gli antichi a fare un libro mettevano dieci, venti, trent’anni; e i moderni un mese o due. Ma per leggere, tanto tempo ci vuole a quel libro ch’è opera di trent’anni quanto a quello ch’è opera di trenta giorni. E la vita, da altra parte, è cortissima alla quantitá de’ libri che si trovano.
DIALOGO D’UN LETTORE DI UMANITÀ E DI SALLUSTIO
14 febbraio 1821, Z. 606 (II, 88-89)
Cum proelium inibitis (moneo vos ut) memineritis vos divitias, decus, gloriavi, praeterea libertatem atque patriam in dextris vestris portare. Parole che Sallustio (Bellum Catilinarium, c. 58, alii 61) mette in bocca a Catilina, nell’esortazione ai soldati prima della battaglia. Osservate la differenza dei tempi. Questa è quella figura rettorica che chiamano «gradazione». Volendo andar sempre crescendo, Sallustio mette prima le ricchezze, poi l’onore, poi la gloria, poi la libertá e finalmente la patria, come la somma e piú cara di tutte le cose. Oggidí volendo esortare un’armata in simili circostanze, ed usare quella figura, si disporrebbero le parole al rovescio; prima la patria che nessuno ha, ed è un puro nome; poi la libertá, che il piú delle persone amerebbe, anzi ama per natura, ma non è avvezzo neanche a sognarla, molto meno a darsene cura; poi la gloria che piace all’amor proprio, ma finalmente è un vano bene; poi l’onore, del quale si suole aver molta cura, ma si sacrifica volentieri per qualche altro bene; finalmente le ricchezze per le quali onore, gloria, libertá, patria e Dio, tutto si sacrifica e s’ha per nulla: le ricchezze, il solo bene veramente solido, secondo i nostri valorosi contemporanei; il piú capace, anzi di tutti questi beni il solo capace, di stuzzicar l’appetito e di spinger davvero a qualche impresa anche i vili.
- ↑ Nemo enim est tam senex qui se annum non putet posse vivere. Cicerone, Cato maior, c. 7, fine; e lo dice in proposito dei contadini che seminano, ancorché vecchissimi, per l’anno futuro. (Notato il 2 febbraio 1821).