Opere minori 1 (Ariosto)/Poesie latine/Liber tertius/Carmen XVII

Carmen XVII

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XVII.

LUDOVICI AREOSTI EPITAPHIUM.


Ludovici Areosti humantur ossa
     Sub hoc marmore, seu sub hac humo, seu
     Sub quicquid voluit benignus heres,
     Sive herede benignior comes, sive
     Oportunius incidens viator:
     Nam scire haud potuit futura. Sed nec
     Tanti erat vacuum sibi cadaver,
     Ut urnam cuperet parare vivens.
     Vivens ista tamen sibi paravit,
     Quæ inscribi voluit suo sepulchro
     (Olim si quod haberet is sepulchrum),
     Ne cum spiritus, exili peracto
     Præscripti spatio, misellus artus,
     Quos ægre ante reliquerit, reposcet,
     Hac et hac cinerem hunc et hunc revellens,
     Dum noscat proprium, vagus pererret.1

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Note

  1. Questo epitaffio fu tacciato di poco religioso, e si affaticò per sapere se nell’ultimo suo testamento il poeta avesse o no ordinato di scolpirlo sulla sua sepoltura. A noi pare che ben si apponesse il Baruffaldi stimandolo «un capriccio poetico scritto in gioventù, o quando in buona salute vedeva la morte più di lontano, non ad altro fine che di prendersi beffe di coloro i quali in vita hanno la vanità di prepararsi un sepolcro dagli altri separato e distinto. Vita ec., pag. 233. — Sono, del rimanente, assai note le traslazioni varie che già si fecero delle ossa di messer Lodovico, sino alla più recente, che seguì nel 1801, essendone promotore il francese generale Miollis, e della quale si ha compiuto ragguaglio nel libro intitolato Prose e Rime per il trasporto del monumento e delle ceneri di Lodovico Ariosto; Ferrara, per i Soci Bianchi e Negri, a. d. — I versi dall’autor nostro preparati, non furono mai scritti sul suo sepolcro; dove invece campeggiarono, dal 1573 al 1612 i seguenti di Lorenzo Frizolio riminese:
                                  Heic Areostus est situs, qui comico
                             Aures theatri sparsit urbanas sale,
                             Satyrâque mores strinxit acer improbos;
                             Heroa culto qui furentem carmine,
                             Ducumque curas cecinit atque prœlia.
                             Vates coronâ dignus unus triplici,
                             Cui trina constant quæ fuere vatibus
                             Graiis, latinis, vixque hetruscis singula;
    e dal 1612 al 1801 in S. Benedetto, poi sino ai dì nostri nella pubblica Biblioteca, questi altri di un anonimo gesuita (il padre Steffanio, secondo il Litta), che riporteremo nella loro integrità, sebbene gli ultimi due distici non fossero, per mancanza di spazio, scolpiti:
                             Notus et Hesperiis iacet his Areostus et Indis,
                                  Cui Musa æternum nomen hetrusca dedit.
                             Seu satyram in vitia exacuit, seu comica lusit,
                                  Seu cecinit grandi bella ducesque tubâ.
                             Ter summus vates, cui docti in vertice Pindi
                                  Tergeminâ licuit cingere fronde comas:
                             Quodque magis mirum, indoctis doctisque placere,
                                  Cunctorumque manu noctu dieque teri.
                             Scilicet hic, Phœbi amplexus decore omnia, quidquid
                                   In variis dulce est vatibus, unus habet.