Opere minori 1 (Ariosto)/I Cinque Canti/Canto IV

Canto IV

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CANTO QUARTO.




ARGOMENTO.


               Bradamante e Marfisa, ond’è condutto
          Gano prigione, incontran per la via
          Chi trarlo di lor man volea; ma in tutto
          Rendono vana l’opra audace e ria.
          A torto il buon Ruggier vien poi distrutto
          Dall’iniquo guerrier di Normandia:
          Si getta in mar, e in ventre a una balena
          Vivo ritrova Astolfo in simil pena.

1 Donne mie care, il torto che mi fate,
Bene è il maggior che voi mai feste altrui;
Chè di me vi dolete ed accusate
Che ne’ miei versi io dica mal di vui,
Che sopra tutti gli altri v’ ho lodate,
Come quel che son vostro e sempre fui:

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Io v’ho offeso ignorante in un sol loco;1
Vi lodo in tanti a studio, e mi val poco.

2 Questo non dico a tutte, che ne sono
Di quelle ancor c’hanno il giudicio dritto,
Che s’appigliano al più che ci è di buono,
E non a quel che per cianciare è scritto;
Dàn facilmente a un lieve error perdono,
Nè fan mortale un venïal delitto.
Pur s’una m’odia, ancor che m’amin cento,
Non mi par di restar però contento:

3 Chè, com’io tutte riverisco ed amo,
E fo di voi, quanto si può far, stima,
Così nè che pur una m’odi, bramo,
Sia d’alta sorte o mediocre o d’ima.
Voi pur mi date il torto, ed io mel chiamo;2
Concedo che v’ha offeso la mia rima:
Ma per una che in biasmo vostro s’oda,
Son per farne udir mille in gloria e loda.

4 Occasïon non mi verrà di dire
In vostro onor, che preterir mai lassi;
E mi sforzerò ancor farla venire,
Acciò il mondo empia e fin nel ciel trapassi;
E così spero vincer le vostr’ire,
Se non sarete più dure che sassi:
Pur, se sarete anco ostinate poi,
La colpa non più in me sarà, ma in voi.

5 Io non lasciai per amor vostro troppo
Gano allegrar di Bradamante presa,
Chè venir da Valenza di galoppo
Feci il signor d’Anglante in sua difesa;
Ed or costui che credea sciòrre il groppo
Di Gano, e far alle guerriere offesa,
A vostro onor udite anco in che guisa,
Con tutti i suoi, trattar fo da Marfisa.

6 Marfisa parve al stringer della spada
Una furia che uscisse dello inferno;
Gli usberghi, gli elmi, ovunque il colpo cada,
Più fragil son che le cannucce il verno;

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O che giù al petto o almen che a’ denti vada,
O che faccia del busto il capo esterno,3
O che sparga cervella o che triti ossa,
Convien che uccida sempre ogni percossa.

7 Duo ne partì fra la cintura e l’anche;
Restâr le gambe in sella e cadde il busto:
Dalla cima del capo un divise anche
Fin sull’arcion, che andò in due pezzi giusto:
Tre ferì sulle spalle o destre o manche;
E tre volte uscì il colpo acre e robusto
Sotto la poppa dal contrario lato:
Dieci passò dall’uno all’altro lato.

8 Lungo saría voler tutti li colpi
Della spada crudel, dritti e riversi,
Quanti ne sveni, quanti snervi e spolpi,
Quanti ne tronchi e fenda, porre in versi.
Chi fia che Lupo di viltade incolpi,
E gli altri in fuga appresso a lui conversi,
Poi che dal brando che gli uccide e strugge,
Difender non si può se non chi fugge?

9 Creduto avea la figlia di Beatrice
D’esser venuta a far quivi battaglia,
E si ritrova giunta spettatrice
Di quanto in armi la cognata vaglia:
Che non è alcun del numero infelice,
Che a lei s’accosti pur, non che l’assaglia;
Chè fan pur troppo, senza altri assalire,
Se pôn, volgendo il dosso, indi fuggire.

10 D’ogni salute or disperato Gano,
Di corvi e d’avoltor ben si vede esca;
Che, poi che questo ajuto è stato vano,
Altro non sa veder che gli riesca.
Lo trasser le cognate a Mont’Albano,
Che più che morte par che gli rincresca;
E fin ch’altro di lui s’abbia a disporre,
Lo fan calar nel piè giù d’una torre.

11 Ruggiero, intanto, al suo vïaggio intento,
Ch’ancor nulla sapea di questo caso,
Cercando or l’orza ed or la poggia al vento,

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Facea le prore andar volte all’occaso.
Ogni lito di Francia più di cento
Miglia lontano a dietro era rimaso.
Tutta la Spagna, che non sa a ch’effetto
L’armata il suo mar solchi, è in gran sospetto.

12 La città nominata dall’antico
Barchino Annon,4 tumultüar si vede;
Tarracona e Valenza, e il lato aprico
A cui l’Alano e il Goto il nome diede;5
Cartagena, Almería, con ogni vico,
De’ bellicosi Vandali già sede;
Malaga, Saravigna, fin là dove
La strada al mar diede il figliuol di Giove.

13 Avea Ruggier lasciato poche miglia
Tariffa6 a dietro, e dalla destra sponda
Vede le Gade, e più lontan Siviglia,
E nelle poppe avea l’aura seconda;
Quando a un tratto di man,7 con maraviglia,
Un’isoletta uscir vide dell’onda:
Isola pare, ed era una balena
Che fuor del mar scopría tutta la schiena.

14 L’apparir del gran mostro, che ben diece
Passi del mar con tutto il dosso usciva,
Correr all’armi i naviganti fece,
Ed a molti bramar d’essere a riva.
Saette e sassi e foco acceso in pece
Da quello stuolo, e gran rumor veniva
Di timpani e di trombe, e tanti gridi,
Che facea il ciel, non che sonare i lidi.

15 Poco lor giova ir l’acqua e l’aer vano
Di percosse e di strepiti ferendo;
Chè non si fa per questo più lontano,
Nè più si fa vicino il pesce orrendo:
Quanto un sasso gittar si può con mano,

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Quel vien l’armata tuttavía seguendo:
Sempre le appar col smisurato fianco
Ora dal destro lato, ora dal manco.

16 Andâr tre giorni ed altrettante notti,
Quanto il corso dal stretto al Tago dura,
Che sempre di restar sommersi e rotti
Dal vivo e mobil scoglio ebbon paura:
Gli assalse il quarto dì, che già condotti
Eran sopra Lisbona, un’altra cura;
Chè scoperson l’armata di Riccardo,
Che contra lor venía dal mar Piccardo.

17 Insieme si conobbero l’armate,
Tosto che l’una ebbe dell’altra vista:
Ruggier si crede ch’ambe sian mandate
Perchè lor meno il Lusitan resista;
E non che, per zizzanie seminate
Da Gano, l’una l’altra abbia a far trista:
Non sa il meschin che colui sia venuto
Per ruinarlo, e non per dargli ajuto.

18 Fa sugli arbori tutti e in ogni gabbia
E le bandiere stendere e i pennoni,
Dare ai tamburi, e gonfiar guance e labbia
A trombe, a comi, a pifferi, a bussoni:
Come allegrezza ed amicizia s’abbia
Quivi a mostrar, fa tutti i segni buoni;
Gittar fa in l’acqua i palischermi, e gente
A salutarlo manda umanamente.

19 Ma quel di Normandia, ch’assai diverso
Dal buon Ruggiero ha in ogni parte il core,
Al suo vantaggio intento, non fa verso
Lui segno alcun di gaudio nè d’amore;
Ma, con disir di romperlo e sommerso
Quivi lasciar, ne vien senza rumore;
E scostandosi in mar, l’aura seconda
Sì tolle in poppa, ove Ruggier l’ha in sponda.

20 Poi che vide Ruggiero assenzio al mêle,
Arme a’ saluti, odio all’amore opporse;
E che, ma tardi, del voler crudele
Del capitan di Normandía s’accorse;
Nè più poter montar sopra le vele
Di lui, nè per fuggir di mezzo tôrse:
Si volse e diede a’ suoi duri conforti,

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Ch’invendicati almen non fosser morti.

21 L’armata de’ Normandi urta e fracassa
Ciò che tra via, cacciando borea, intoppa;
E prore e sponde al mare aperte lassa,
Da non le serrar poi chiovi nè stoppa:
Ch’ogni sua nave al mezzo, ove è più bassa,
Vince dei Provenzal la maggior poppa.
Ruggier, col disvantaggio che ciascuna
Nave ha minor, ne sostien sei contr’una.

22 Il naviglio maggior d’ogni normando,
Che nel castel da poppa avea Riccardo,
Per l’alto un pezzo era venuto orzando:
Come sull’ali il pellegrin8 gagliardo.
Che mentre va per l’aria volteggiando,
Non leva mai dalla riviera il sguardo;
E vista alzar la preda ch’egli attende,
Come folgor dal ciel ratto giù scende.

23 Così Riccardo, poi che in mar si tenne
Alquanto largò, e vedut’ebbe il legno
Con che venía Ruggier, tutte l’antenne
Fece carcar9 fino all’estremo segno;
E, sì come era sopra vento, venne
Ad investire, e riuscì il disegno:
Che tutto a un tempo fûr l’àncore gravi
D’alto gittate ad attaccar le navi;

24 E correndo alle gomene in aita
Più d’una mano, i legni giunti furo.
Da pal di ferro, intanto, e da infinita
Copia di dardi era nissun sicuro;
Chè dalle gabbie ne cadea, con trita
Calcina e solfo acceso, un nembo scuro:
Nè quei di sotto a ritrovar si vanno
Con minor crudeltà, con minor danno.

25 Quelli di Normandia, che di luogo alto
E di numero avean molto vantaggio,
Nel legno di Ruggier fêro il mal salto,
Dal furor tratti e da lor gran coraggio:
Ma tosto si pentîr del folle assalto;
Chè non patendo il buon Ruggier l’oltraggio,

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Presto di lor, con bel menar di mani,
Fe’ squarci e tronchi e gran pezzi da cani;

26 E via più a sè valer la spada fece,
Che ’l vantaggio del legno lor non valse,
O perchè contra quattro fosson diece:
Con tanta forza e tanto ardir gli assalse!
Fe di negra parer rossa la pece,
E rosseggiare intorno l’acque salse;
Chè da prora e da poppa e dalle sponde
Molti a gran colpi fe saltar nell’onde.

27 Fattosi piazza, e visto sul naviglio
Che non era uom se non de’ suoi rimaso,
Ad una scala corse a dar di piglio,
Per montar sopra quel di maggior vaso;
Ma veduto Riccardo il gran periglio
In che correr potea, provvide al caso:
Fu la provvisïon per lui sicura,
Ma mostrò di pochi altri tener cura.

28 Mentre i compagni difendeano il loco,
Andò agli schifi e fe gettargli all’acque:
Quattro o sei n’avvisò; ma il numer poco
Fu verso agli altri a chi la cosa tacque.
Poi fe in più parti al legno porre il foco,
Ch’ivi non molto addormentato giacque;
Ma di Ruggier la nave accese ancora,
E dalle poppe andò sin alla prora.

29 Riccardo si salvò dentro ai battelli,
E seco alcuni suoi ch’ebbe più cari;
E sopra un legno si fe por di quelli
Ch’in sua conserva avean solcati i mari:
Indi mandò tutti i minor vascelli
A trarre i suoi dei salsi flutti amari;
Che per fuggír l’ardente dio di Lenno
In braccio a Teti ad a Nettun si dênno.

30 Ruggier non avea schifo ove salvarse,
Chè, come ho detto, il suo mandato avea
A salutar Riccardo ed allegrarse
Di quel di che doler più si dovea;
Nè all’altre navi sue, ch’erano sparse
Per tutto il mar, ricorso aver potea:
Sì che, tardando un poco, ha da morire
Nel foco quivi, o in mar, se vuol fuggire.

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31 Vede in prua, vede in poppa e nelle sponde
Crescer la fiamma, e per tutte le bande:
Ben certo è di morir, ma si confonde,
Se meglio sia nel foco o nel mar grande:
Pur si risolve di morir nell’onde,
Acciò la morte in lungo un poco mande:
Così spicca un gran salto dalla nave
In mezzo il mar, di tutte l’armi grave.

32 Qual suol vedersi in lucida onda e fresca
Di tranquillo vivaio10 correr la lasca
Al pan che getti il pescatore, o all’esca
Ch’in ramo alcun delle sue rive nasca;
Tal la balena, che per lunga tresca
Segue Ruggier, perchè di lui si pasca,
Visto il salto, v’accorre, e senza noja
Con un gran sorso d’acqua se lo ingoja.

33 Ruggier, che s’era abbandonato e al tutto
Messo per morto, dal timor confuso,
Non s’avvide al cader, come condutto
Fosse in quel luogo tenebroso e chiuso;
Ma perchè gli parea fetido e brutto,
Esser spirto pensò di vita escluso,
Il qual fosse dal Giudice superno
Mandato in purgatorio o giù all’inferno.

34 Stava in gran tema del foco penace,
Di che avea nella nova Fè già inteso.
11Era come una grotta ampia e capace
L’oscurissimo ventre ove era sceso:
Sente che sotto i piedi arena giace,
Che cede, ovunque egli la calchi, al peso:
Brancolando, le man quanto può stende
Dall’un lato e dall’altro, e nulla prende.

35 Si pone a Dio, con umiltà di mente,
De’ suoi peccati a dimandar perdono,
Che non lo danni all’infelice gente
Di quei ch’al ciel mai per salir non sono.
Mentre che in ginocchion divotamente
Sta così orando al basso curvo e prono,

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Un picciol lumicin d’una lucerna
Vide apparir lontan per la caverna.

36 Esser Caron lo giudicò da lunge,
Che venisse a portarlo all’altra riva:
S’avvide, poi che più vicin gli giunge,
Che senza barca a sciutto piè veniva.
La barba alla cintura si congiunge,
Le spalle il bianco crin tutte copriva;
Nella destra una rete avea, a costume
Di pescator; nella sinistra un lume.

37 Ruggier lo vedea appresso, ed era in forse
Se fosse uom vivo, o pur fantasma ed ombra.
Tosto che del splendor l’altro s’accorse
Che fería l’armi e si spargea per l’ombra,
Si trasse a dietro e per fuggir si torse,
Come destrier che per cammino adombra;
Ma poichè si mirâr l’un l’altro meglio,
Ruggier fu il primo a dimandare al veglio:

38 — Dimmi, padre, s’io vivo o s’io son morto,
S’io sono al mondo o pur sono all’inferno:
Questo so ben ch’io fui dal mare absorto;
Ma se per ciò morissi, non discerno.
Perchè mi veggo armato, mi conforto
Ch’io non sia spirto dal mio corpo esterno;
Ma poi l’esser rinchiuso in questo fondo,
Fa ch’io tema esser morto e fuor del mondo. —

39 — Figliuol, rispose il vecchio, tu sei vivo,
Come anch’io son; ma fôra meglio molto
Esser di vita l’uno e l’altro privo,
Che nel mostro marin viver sepolto.
Tu sei d’Alcina, se non sai, captivo;
Ella t’ha il laccio teso, e al fin t’ha côlto,
Come côlse me ancora, con parecchi
Altri che ci vedrai, giovani e vecchi.

40 Vedendoti qui dentro, non accade
Di darti cognizion chi Alcina sia;
Chè se tu non avessi sua amistade
Avuta prima, ciò non t’avverria.
In India vedut’hai la quantitade
Delle conversïon che questa ria
Ha fatto in fere, in fonti, in sassi, in piante,
Dei cavalier di ch’ella è stata amante.

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41 Quei che, per nuovi successor, men cari
Le vengono, muta ella in varie forme;
Ma quei che se ne fuggon, che son rari,
Sì come esserne un tu credo di apporme,
Quando giunger li può negli ampli mari
(Però che mai non ne abbandona l’orme),
Li caccia in ventre a quest’orribil pesce,
D’onde mai vivo o morto alcun non esce.

42 Le Fate hanno tra lor tutta partita
E l’abitata e la deserta terra:
L’una nell’Indo può, l’altra nel Scita,
Questa può in Spagna e quella in Inghilterra;
E nell’altrui ciascuna è proibita
Di metter mano, ed è punita chi erra:
Ma comune fra lor tutto il mare hanno,
E pônno a chi lor par quivi far danno.

43 Tu vederai qua giù, scendendo al basso,
Degl’infelici amanti i scuri avelli,
De’ quali è alcun sì antico, che nel sasso
I nomi non si pon legger di quelli.
Qui crespo e curvo, qui debole e lasso
M’ha fatto il tempo, e tutti bianchi i velli;
Che quando venni, a pena uscían dal mento
Com’oro i peli ch’or vedi d’argento.

44 Quanti anni sien non saprei dir, ch’io scesi
In queste d’ogni tempo oscure grotte;
Chè qui nè gli anni annoverar nè i mesi
Nè si può il dì conoscer dalla notte.
Duo vecchi ci trovai, dai quali intesi
Quel da che fûr le mie speranze rotte;
Che più della mia età ci avean consunto,
Ed io li giunsi a seppellire a punto.

45 E mi narrâr che, quando giovinetti
Ci vennero, alcun’altri avean trovati,
Che similmente d’Alcina diletti,
Di poi qui presi e posti erano stati:
Sì che, figliuol, non converrà ch’aspetti
Riveder mai più gli uomini beati,
Ma con noi che tre erâmo, ed ora teco
Siam quattro, starti in questo ventre cieco.

46 Ci rimasi io già solo, e poscia dui,
Poi da venti dì in qua tre fatti eramo,

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Ed oggi quattro, essendo tu con nui:
Ch’in tanto mal grand’avventura chiamo,
Che tu ci trovi compagnia, con cui
Pianger possi il tuo stato oscuro e gramo;
E non abbi a provar l’affanno e ’l duolo,
Che a quel tempo io provai che ci fui solo. —

47 Come ad udir sta il misero il processo
De’ falli suoi che l’han dannato a morte;
Così turbato e col capo dimesso
Udía Ruggier la sua infelice sorte.
— Rimedio altro non ci è (soggiunse appresso
Il vecchio) che adoprar l’animo forte.
Meco verrai dove, secondo il loco,
L’industria e il tempo n’ha adagiati un poco.

48 Ma voglio provveder prima di cena,
Che qui sempre però non si digiuna. —
Così dicendo, Ruggier indi mena,
Cedendo al lume l’ombra e l’aria bruna,
Dove l’acqua per bocca alla balena
Entra, e nel ventre tutta si raguna:
Quivi con la sua rete il vecchio scese,
E di più forme pesci in copia prese.

49 Poi, con la rete in collo e il lume in mano,
La via a Ruggier per strani groppi scôrse:12
A salir ed a scendere la mano
Ai stretti passi anco talor gli porse.
Trâtto ch’un miglio o più l’ebbe lontano,
Con gli altri duo compagni al fin trovôrse
In più capace luogo, ove all’esempio
D’una moschéa, fatto era un picciol tempio.

50 Chiaro vi si vedea come di giorno,
Per le spesse lucerne ch’eran poste
In mezzo e per li canti e d’ogn’intorno.
Fatte di nicchi di marine croste:
A dar lor l’oglio traboccava il corno,
Chè non è quivi cosa che men coste,
Pei molti capidogli che divora
E vivi ingoja il mostro ad ora ad ora.

51 Una stanza alla chiesa era vicina,

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Di più famiglia che la lor,13 capace,
Dove su bene asciutta alga marina
Nei canti alcun comodo letto giace.
Tengono in mezzo il foco la cucina;14
Chè fatto avea l’artefice sagace,
Che per lungo condutto di fuor esce
Il fumo, ai luoghi onde sospira il pesce.

52 Tosto che pon Ruggier là dentro il piede,
Vi riconosce Astolfo paladino,
Che mal contento in un dei letti siede,
Tra sè piangendo il suo fiero destino.
Lo corre ad abbracciar, come lo vede:
Gli leva Astolfo incontra il viso chino:
E come lui Ruggier esser conosce,
Rinnôva i pianti, e fa maggior l’angosce.

53 Poi che piangendo all’abbracciar più d’una
E di due volte ritornati furo,
L’un l’altro dimandò da qual fortuna
Fosson dannati in quel gran ventre oscuro.
Ruggier narrò quel ch’io v’ho già dell’una
E l’altra armata detto, il caso oscuro,
E di Riccardo senza fin si dolse;
Astolfo poi così la lingua sciolse:

54 — Dal mio peccato (chè accusar non voglio
La mia fortuna) questo mal mi avviene.
Tu di Riccardo, io sol di me mi doglio:
Tu pati a torto, io con ragion le pene.
Ma, per aprirti chiaramente il foglio,
Sì che l’istoria mia si vegga bene,
Tu dêi saper che non son molti mesi
Ch’andai di Francia a riveder mie’ Inglesi.

55 Quivi, per chiari e replicati avvisi,
Essendo più che certo della guerra
Che ’l re di Danismarca e i Daci e i Frisi
Apparecchiato avean contra Inghilterra;
Ove il bisogno era maggior mi misi,
Per lor vietare il dismontare in terra,

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Dentro un castel che fu per guardia sito15
Di quella parte ov’è men forte il lito;

56 Chè da quel canto il re mio padre Ottone
Temea che fosse l’isola assalita.
Signor di quel castello era un barone
Ch’avea la moglie di beltà infinita;
La qual tosto ch’io vidi, ogni ragione,
Ogni onestà da me fece partita;
E tutto il mio voler, tutto il mio core
Diedi in poter del scelerato amore.

57 E senza avere all’onor mio riguardo,
Chè quivi ero signor, egli vassallo
(Chè contra un debol, quanto è più gagliardo
Chi le forze usa, tanto è maggior fallo),
Poi che dei prieghi ire il rimedio tardo,
E vidi lei più dura che metallo,
All’insidie aguzzar prima l’ingegno
Ed indi alla violenza ebbi il disegno.

58 E perchè, come i modi miei non molto
Erano onesti, così ancor nè ascosi,
Fui dal marito in tal sospetto tolto,
Che in lei guardar passò tutti i gelosi.
Per questo non pensar che ’l desir stolto
In me s’allenti o che giammai riposi;
Ed uso atti e parole in sua presenza
Da far rompere a Giob la pazïenza.

59 E perchè aveva pur quivi rispetto
D’usar le forze alla scoperta seco,
Dov’era tanto popolo, in cospetto
De’ prencipi e baron che v’eran meco;
Pur pensai di sforzarlo, ma l’effetto
Coprire, e lui far in vederlo16 cieco;
E mezzo a questo un cavalier trovai,
Il qual molto era suo, ma mio più assai.

60 A’ prieghi miei, costui gli fe vedere,
Com’era mal accorto e poco saggio
A tener dov’io fossi la mogliere,
Che sol studiava in procacciargli oltraggio;

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E saría più laudabile parere,
Tosto che m’accadesse a far vïaggio
Da un loco a un altro, com’era mia usanza,
Di salvar quella in più sicura stanza.

61 Côrre il tempo potea la prima volta
Che, per non ritornar la sera, andassi;
Chè spesso aveva in uso andare in volta
Per riparar, per riveder i passi.
Gualtier (che così avea nome) l’ascolta,
Nè vuol ch’indarno il buon consiglio passi:
Pensa mandarla in Scozia, ove di quella
Il padre era signor di più castella.

62 Quindi segretamente alcune some
Delle sue miglior cose in Scozia invia.
Io do la voce d’ir a Londra; e, come
Mi pare il tempo, il dì17 mi metto in via;
Ed ei con Cintia sua (chè così ha nome),
«Senza sospetto di trovar tra via
Cosa ch’all’andar suo fosse molesta,»18
Dal castello esce, ed entra in la foresta.

63 Con donne e con famigli disarmati
La via più dritta in verso Scozia prese:
Non molto andò, che si trovò agli agguati,
Nell’insidie19 che i miei gli avean già tese.
Avev’io alcuni miei fedel mandati,
Che co’ visi coperti in strano arnese
Gli fûro addosso, e tolser la consorte,
E a lui di grazia fu campar da morte.

64 Quella portano in fretta entro una torre,
Fuor della gente, in loco assai rimoto;
Donde a me senza indugio un messo corre,
Il qual mi fa tutto il successo noto.
Io già avea detto di volermi tôrre
Dell’isola; e la causa di tal moto
Era, ch’udiva esser Rinaldo a Carlo
Fatto nimico, ed io volea ajutarlo.

65 Agli amici fo molto; e, come io voglia
Passar quel giorno, in verso il mar mi movo;

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Poi mi nascondo, ed armi muto e spoglia,
E piglio a’ miei servigi un scudier novo;
E per le selve ove meno ir si soglia,
Verso la torre ascosa via ritrovo;
E dove è più solinga e strana ed erma
Incontro una donzella che mi ferma,

66 E dice: — Astolfo, gioveràtti poco
(Chè mi chiamò per nome) andar di piatto;20
Chè ben sarai trovato, e a tempo e a loco
Ti punirà quello a chi ingiuria hai fatto. —
Così dice; e ne va poi come foco
Che si vede pel ciel discorrer ratto:
La vô seguir; ma sì corre, anzi vola,
Che replicar non posso una parola.

67 E se n’andò quel dì medesimo anco
A ritrovar Gualtiero afflitto e mesto,
Che per dolor si battea il petto e ’l fianco,
E gli fe tutto il caso manifesto:
Non già che alcun me lo dicesse, e manco
Che con gli occhi ’l vedessi, io dico questo;
Ma così discorrendo colla mente,
Veggo che non puot’esser altramente.

68 Conjetturando, similmente seppi
Esser costei d’Alcina messaggera;
Che dal dì ch’io mi sciolsi da’ suoi ceppi,
Sempre venuta insidïando m’era.
Come ho detto, costei Gualtier pei greppi
Pianger trovò di sua fortuna fiera;
Nè chi offeso l’avea gli mostra solo,
Ma il modo ancor di vendicar suo duolo.

69 E lo pon, come suol porre alla posta
Il mastro della caccia e spiedi e cani;
E tanto fa, ch’un mio corrier, ch’in posta
Mandav’a Antona, gli fa andar in mani.
Io scrivea a un mio, ch’ivi tenea a mia posta
Un legno per portarmi agli Aquitani,
Il giorno ch’io volea che fosse a punto
In certa spiaggia per levarmi giunto.

70 Nè in Antona volea nè in altro porto,
Per non lasciar conoscermi, imbarcarmi:

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Del segno ancora io lo faceva accorto,
Col qual volea dal lito a lui mostrarmi,
Acciò stando sul mar tuttavia sôrto,
Mandasse il palischermo indi a levarmi;
Ed, all’incontro, il segno che dovessi
Farmi egli nella lettera gli espressi.

71 Ben fu Gualtier della ventura lieto,
Chè se gli apría la strada alla vendetta.
Fe che tornar non potè il messo, e, cheto,
Dov’era un suo fratel se n’andò in fretta,
E lo pregò che gli armasse in segreto
Un legno di fedele gente eletta.
Avuto il legno, il buon Gualtiero corse
Al capo di Lusarte,21 e quivi sôrse.

72 Vicino a questo mar sedea la rôcca,
Dov’io aspettava in parte assai selvaggia,
Sì ch’apparir veggo lontan la cocca
Col segno da me dato in sulla gaggia:
Io, d’altra parte, quel ch’a me far tocca
Gli mostro dalla torre e dalla spiaggia.
Manda Gualtier lo schifo, e me raccoglie,
Ed un scudier c’ho meco, e la sua moglie.

73 Nè lui nè alcun de’ suoi ch’io conoscessi,
Prima scopersi che sul legno fui;
Ove lasciando a pena ch’io dicessi
— Dio ajutami, — pigliar mi fece ai sui,
Che come vespe e calabroni spessi
Mi s’avventaro; e comandando lui,
In mar buttârmi, ove già questa fera,
Come Alcina ordinò, nascosa s’era.

74 Così ’l peccato mio brutto e nefando,
Degno di questa e di più pena molta,
M’ha chiuso qui, donde di come e quando
Io n’abbia a uscir, ogni speranza è tolta;
Quella protezïon tutta levando,
Che San Giovanni avea già di me tolta. — 22
Poich’ebbe così detto, allentò il freno
Astolfo al pianto, e bagnò il viso e ’l seno.

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75 Ruggier, che come lui non era immerso
Sì nel dolor, ma si sentía più sorto,23
Gli studiava, inducendogli alcun verso
Della Scrittura, di trovar conforto.
— Non è (dicea) del Re dell’universo
L’intenzïon che il peccator sia morto,
Ma che dal mar d’iniquitadi a riva
Ritorni salvo, e si converta e viva.

76 Cosa umana è il peccar; e pur si legge
Che sette volte il giorno il giusto cade;
E sempre a chi si pente e si corregge,
Ritorna a perdonar l’Alta bontade:
Anzi, d’un peccator che fuor del gregge
Abbia errato, e poi torni a miglior strade,
«Maggior gloria è nel regno degli eletti,
Che di novantanove altri perfetti.» — 24

77 Per far nascer conforto, cotal seme
Il buon Ruggier venía spargendo quivi:
Poi ricordava ch’altra volta insieme
D’Alcina in Orïente fur captivi;
E come di là usciro, anco aver speme
Dovean d’uscir di questo carcer vivi.
— S’allora io fui, dicea, degno d’aita,
Or ne son più, chè son miglior di vita. —

78 E seguitò: — Se quando nell’errore
Della dannata legge era perduto,
E nell’ozio sommerso e nel fetore
Tutto d’Alcina, come animal bruto,
Mi liberò il mio sommo almo Fattore;
Perchè sperar non debbo ora il suo ajuto,
Che per la Fede essendo puro e netto
Di molte colpe, io so che m’ha più accetto?

79 Creder non voglio che ’l demonio rio,
Dal qual la forza di costei dipende,
Possa nuocere agli uomini che Dio
Per suoi conosce e che per suoi difende.
Se vera fede avrai, se l’avrò anch’io,
Dio la vedrà che i nostri cori intende:

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E vedendola vera, abbi speranza
Che non avrà il demonio in noi possanza. —

80 Astolfo, presa la parola, disse:
— Questo ogni buon cristian dê tener certo.
Non scese in terra Dio, nè con noi visse,
Nè in vita e in morte ha tanto mal sofferto,
Perchè il nimico suo di poi venisse
A riportar di sua fatica il merto.
Quel che sì ricco prezzo costò a lui,
Non lascerà sì facilmente altrui.

81 Non manchi in noi contrizïone e fede;
E di pregar con purità di mente;
Chè Dio non può mancarci di mercede:
Egli lo disse, e il dir suo mai non mente.
Scritto ha nel suo Evangelio: — Chi in me crede,
Uccide nel mio nome ogni serpente,
Il venen bee senza che mal gli faccia,
Sana gl’infermi e li demonî scaccia. —

82 E dice altrove: — Quando con perfetta
Fede ad un monte a comandar tu vada:
— Di qui ti leva, e dentro il mar ti getta; —
Che ’l monte piglierà nel mar la strada. —
Ma perchè fede quasi morta è detta,
Quella che sta senza fare opre a bada,
Procacciamo con buon’opre, che sia
Più grata a Dio la tua fede e la mia.

83 Proviam di trarre alla vera credenza
Quest’altri che son qui presi con nui;
Di che già fatto ho qualche esperïenza,
Ma poco un parer mio può contra dui.
Forse saremo a mutar lor sentenza
Meglio insieme tu ed io, ch’io sol non fui;
E se possiam questi al demonio tôrre,
Non ha qua dentro poi dove si porre.

84 E Dio, tutti vedendone fedeli
Pregar la sua clemenza che n’ajute,
Dal fonte di pietà scender dai cieli
Farà qua dentro un fiume di salute. —
Così dicean; poi salmi, inni e vangeli,
Orazïon che a mente avean tenute,
Incominciâro i cavalier devoti,
E a porre in opra i prieghi e i pianti e i voti.

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85 Intanto gli altri dui con studio grande,
Cercavan di far vezzi al novell’oste.
Di varî pesci varie le vivande
Arrosto e lesso al foco erano poste.
Poco innanzi, un navilio dalle bande
Di Vinegia, spezzato nelle coste,
La balena s’avea cacciato sotto,
E tratto in ventre in molti pezzi rotto;

86 E le botti e le casse e li fardelli
Tutti nel ventre ingordo erano entrati.
I naviganti soli coi battelli
Ai legni di conserva eran campati;
Si che v’è da far foco, e nei piattelli
Da condir buoni cibi e delicati
Con zucchero e con spezie; ed avean vini
E côrsi e grechi, prezïosi e fini.

87 Passavano pochi anni, ch’una o due
Volte non si rompesson legni quivi;
Donde i prigion per le bisogne sue
Cibi traean da mantenersi vivi.
Poser la cena, come cotta fue.
S’avesson pane o se ne fosson privi,
Non so dir certo: ben scrive Turpino,
Che sotto il gorgozzule era un molino,

88 Che con l’acque ch’entravan per la bocca
Del mostro, il grano macinava a scosse,
Il quale o in barca o in caravella o in cocca
Rotta, là dentro ritrovato fosse.
D’una fontana similmente tocca,
Ch’a ridirla le guance mi fa rosse:
Lo scrive pure, ed il miracol copre
Dicendo ch’eran tutte magich’opre.

89 Non l’afferm’io per certo nè lo niego:
Se pane ebbono o no, lo seppon essi.
Li dui fedèl, de’ dui infedeli al prego,
Fêr punto ai salmi, e a tavola son messi.
Ma di Astolfo e Ruggier più non vi sego:25
Diròvvi un’altra volta i lor successi.

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Finch’io ritorno a rivederli, ponno
Cenare ad agio, e di poi fare un sonno.

90 Intanto, Carlo alla battaglia intento
Che ’l re boemme aver dovea con lui,
Senza sospetto alcun che tradimento
(Quel che non era in sè) fosse in altrui,
Facea provar destrier, chè cento e cento
N’avea d’eletti alli bisogni sui;
E li migliori, a chi facea mestieri,
Largamente partía fra i suoi guerrieri.

91 Non solo aver per sè buona armadura,
Quanto più si potea forte e leggiera,
Ma trovarne ai compagni anco avea cura,
Chè se mai lor ne fu bisogno, or n’era.
Seco gli usava alla fatica dura
Due fïate ogni dì, mattina e sera;
E seco in maneggiar arme e cavallo
Facea provarli, e non ferire in fallo.

92 Ma Cardoran, che non ha alcun disegno
Di por lo stato a sorte d’una pugna,
Viene aguzzando tuttavía l’ingegno,
Sì come tronchi all’Augel santo l’ugna.
Aspetta e spera d’Unghería, e dal regno
Delli Sassoni omai, ch’ajuto giugna:
La notte e il giorno intanto unqua non resta
Di far più forte or quella cosa or questa.

93 E ridur si fa dentro a poco a poco
E vettovaglie e munizione e gente,
Chè, per la tregua, in assediar quel loco
L’esercito era fatto negligente;
E parea quasi ritornata in gioco
La guerra ch’a principio era sì ardente;
E scemata di qui più d’una lancia,
Contra Rinaldo era tornata in Francia.

94 Sansogna e Slesia ed Ungheria una bella
E grossa armata insieme posta avea:
La gente di Sansogna, e così quella
Di Slesia, i pedestri ordini movea:
Venir con questi, e la più parte in sella
L’esercito dell’Ungar si vedea:
Poi seguía un stuol di Traci e di Valacchi,
Bulgari, Servïan, Russi e Polacchi.

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95 Questi mandava il greco Costantino,
E per suo capitano un suo fratello;
Sì come quel ch’a Carlo di Pipino
Portava iniqua invidia ed odio fello,
Per esser fatto imperador latino,
Ed usurpargli il coronato augello.
Ben di lor mossa e di lor porse in via
Avuto Carlo avea più d’una spia:

96 Ma, com’ho detto, Gano con diversi
Mezzi gli avea cacciato e fisso in mente,
Che si metteva insieme per doversi
Mandar verso Ellesponto quella gente,
E tragittarsi in Asia contra i Persi,
Ch’avean presa Bitinia nuovamente;
E ch’era a petizion fatta ed instanza
Del greco imperador la ragunanza.

97 Nè ch’ella fosse alli suoi danni volta
Prima sentì, ch’era in Boemia entrata;
Sì che ben si pentì più d’una volta,
Che la sua più del terzo era scemata.
Già credendo aver vinto, quindi tolta
N’avea una parte ed al nipote data.
Ma quel ch’oggi dir vuolsi, è qui finito:
Chi più ne brama, a udir domani invito.




Note

  1. Cioè, con la novella raccontata dall’oste a Rodomonte, nel canto XXXVIII del Furioso.
  2. Dichiaro, protesto, confesso di averlo. Non nuova significazione; ma nuovo è certamente il costrutto.
  3. Esterno; cioè separato, disgiunto. L’usò il Poeta in questo senso anche nella st. 38 di questo canto. — (Molini.)
  4. Cioè Barcellona, così denominata da Amilcare Barca, che la fondò. L’aggiunto Annon fu distintivo di molti capitani cartaginesi. — (Molini.)
  5. Parla della Catalogna, quasi Gotalania, dai popoli Goti ed Alani che vi dominarono. Ne’ due versi seguenti intende parlare dell’Andalusia. E all’ultimo della stanza, intende le Colonne d’Ercole. — (Molini.)
  6. Tariffa è l’antica Mellaria, città nell’Andalasia sullo stretto. Gade, oggi Cadice. — (Molini.)
  7. Modo spiegato nella seguente stanta 15: «Quanto un sasso gittar si può con mano.»
  8. Pellegrino, è una specie di falcone. — (Molini.)
  9. Caricar di vele, cioè spiegandole tutte quante.
  10. Il Molini stampò, con nuovo esempio, vivai. Usò questo trittongo il nostro poeta ancora nelle Satire.
  11. L’idea di questa balena la levò il poeta da Luciano, sul fine del primo libro della sua Vera istoria. — (Barotti.)
  12. Attivamente e coll’accusativo di cosa, come in Dante (Inf. VIII, 95.) secondo la comune lezione: «Che gli hai scôrta sì buia contrada.»
  13. Cioè dei quattro che allora si trovano entro la balena.
  14. Iperbato, come osservò il Barotti, per dire: in mezzo la cucina tengono il fuoco. È probabile che, non volendo far verso troppo prosaico, come sarebbe «Tengono il fuoco in mezzo ec.,» l’Ariosto scrivesse, o avrebbe scritto limando: «Tengono in mezzo il fuoco alla cucina.»
  15. Add., per Situato. Ne produssero esempio di prosatore le Giunte Veronesi.
  16. Nel vedere l’effetto, o fatto.
  17. Il Barotti: «un dì.»
  18. Sono due versi del Petrarca, Parte I, son. 5. — (Molini.)
  19. II Molini legge: «in gli agguati Nell’insidie.» I sinonimisti possono valersi dell’esempio per istudiarvi la differenza tra insidia ed agguato.
  20. Di soppiatto. Vedi Furioso, c. XXVII, st. 106.
  21. Il Barotti: «di Lesardo.»
  22. Quando, cioè, gli concesse di riavere il perduto suo senno come si favoleggia nel can. XXXIV del Furioso, in ispecie alla st. 86, dove si fa allusione a a questo peccato d’amore ohe venne di nuovo a privarnelo.
  23. Sollevato, consolato. Esempio raccolto dal Brambilla, ma che non avrà facilmente imitatori.
  24. Sono versi del Petrarca, Part. IV, son. 3. — (Molini.)
  25. Per Seguo. Licenza imitata da quello del Petrarca: «Talor in parte ov’io per forza il sego.» — (Molini.)