Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini/Discorso intorno la vita e le opere di Luciano/Capo I. Secolo di Luciano

Discorso intorno la vita e le opere di Luciano - Capo I. Secolo di Luciano

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Discorso intorno la vita e le opere di Luciano Discorso intorno la vita e le opere di Luciano - Capo II. Vita ed ingegno di Luciano
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CAPO PRIMO.

SECOLO DI LUCIANO.


II. Luciano dipinse il suo secolo non con altri colori che con quelli della satira, che è la pittura estetica del male: se egli ebbe ragione di così fare si vedrà nella storia, pittura scientifica del male e del bene.

Nel mondo antico i Greci furono il popolo eletto, a cui la Provvidenza confidò l’educazione intellettuale dell’umanità, ed a cui diede il più vasto e lungo impero che sia stato su la terra, perchè fu impero d’intelligenza. Come Venere uscita delle acque in una conca marina in mezzo alle Nereidi, così l’Ellade circondata dalle sue isole sta fra l’Asia minore e l’Italia, alle quali porge la mano valicando il breve mare che non le sèpara ma le unisce. In questa regione lieta e frastagliata dalle acque più che ogni altra di Europa, era un popolo d’intelletto potente, di vivida fantasia, e di caldi affetti, che però sentiva un forte e continuo bisogno di godimenti intellettuali, cercava in ogni cosa il vero, e come ei lo apprendeva, lo apriva facilmente con la parola, che fa crescere il pensiero come l’aria fa crescere e vegetare la pianta. Dotato di mirabile ed unica armonia di anima, che traspariva dalle leggiadre fattezze del corpo, questo popolo nella sua serena [p. 3 modifica]giovanezza creò e trovò quanto doveva servire d’esempio a tutte le generazioni future: da Omero a Demostene rappresentò le più perfette forme del bello; da Talete ad Aristotele trovò le più riposte forme del vero: e Demostene ed Aristotele furono i due ultimi grandi esempi, le due ultime grandi creazioni della Grecia. Nell’età matura insegnò e diffuse quanto aveva creato e trovato nelle arti e nel sapere: ed ecco la libertà creatrice cadere, e sorgere la monarchia propagatrice d’Alessandro, la quale dividendosi diffonde la civiltà tra i popoli; ed il Greco uscito dell’Ellade si accasa e domina in Asia, in Siria, in Egitto, e da per tutto sparge sapere e gentilezza. Ma in Italia era un popolo fiero per forza di armi e potente di senno naturale che volle dominare su tutte le genti: i Greci per molti secoli lo combatterono, e in questa lunga lotta, che cominciò da Pirro, chiamato a difendere l’independenza delle colonie elleniche, sempre l’ingegno greco si oppose alla forza romana, Archimede a Marcello; infine dovettero cedere alle armi ed alla virtù di Roma, e perdettero la libertà politica che non seppero più difendere né meritare. Allora avvennero due cose: la prima, che l’impero del mondo fu tosto diviso fra i due popoli, i Romani tennero la forza politica delle armi e delle leggi, i Greci la forza intellettuale del sapere e delle arti; gli uni diventarono i padroni, gli altri seguitarono ad essere i maestri del mondo. La seconda, che i Romani acquistarono un tesoro immenso di cognizioni novelle, rammorbidirono i feroci costumi, si educarono e ingentilirono, ma avendo trovata una civiltà già compiuta e vecchia, e vizi e morbidezze sconosciute, in queste si tuffarono con impelo di conquistatori, e in poco tempo s’imbestiarono bruttamente, sprofondarono in una corruzione sì turpe e nefanda che è vergogna anche narrarla: i [p. 4 modifica]Greci per contrario non appresero nulla, e rimasero quali erano, anzi dispregiavano i loro imitatori; acquistarono solamente persona e diritti che prima non avevano, e così avendo parte di potere, sentirono meno la servitù comune. Già il mondo da Alessandro ad Augusto si era educato e incivilito: dal Tigri alla Bretagna, e in tutti i paesi che stanno sul Mediterraneo le scienze, le arti e la lingua dei Greci erano diffuse: ma il mondo era anche corrotto, perchè i principii onde era cominciata quella civiltà, non erano i veri principii della ragione, la quale sempre apparisce tardi nella vita degli uomini e dei popoli.

III. Questo mondo grecoromano aveva in sè stesso le cagioni della sua corruzione. Il concetto del diritto, e la piena coscienza onde i Romani il diritto esercitavano, li condusse a sterminata potenza: ma perchè quel concetto era esclusivo, li condusse ancora alla corruzione ed alla servitù più memoranda. Un popolo che per ragione della forza si crede giusto e legittimo signore della vita e delle sostanze degli altri popoli, negando la libertà agli altri, la nega a sè stesso, perchè ne perde la vera coscienza: quindi il popolo repubblicano che si teneva legittimamente signore del mondo, per conseguenza necessaria del suo principio, si tenne legittimamente servo del signore e conquistatore della repubblica; il quale fu la personificazione della forza diventata diritto, e non ebbe alcun freno umano alle sue azioni. Ecco perchè Roma non per forza straniera nè per vecchiezza, ma nel fiore della sua età e della maggiore sua potenza, e mentre acquista nuova civiltà, divien serva, si muta, si trasforma; i rozzi e duri guerrieri in poco più d’un secolo diventano mollissimi; i fieri repubblicani cadono subito in una servitù così abbietta da stomacare finanche [p. 5 modifica]chi non voleva la pubblica libertà. E però quanti delitti, e infamie, e orrori, e bestialità l’uomo è capace non pure di fare, ma d’immaginare, tutto dobbiamo aspettarci di trovare effettuato ed applaudito in Roma. Trasea che sentiva in petto la santità d’una leege superiore alla romana, non andò in Senato quando Nerone uccise la madre; ma il popolo che stava alla sua legge uscì festeggiante incontro al matricida, adorava i bardassi e le meretrici imperiali, baciava la mano che gli scannava i figliuoli ed i padri, e quando cadevano le teste de’ più santi cittadini, andava a ringraziare e sacrificare agl’Iddii per la vita e l’incolumità dell’imperatore, il cui operare era sempre giusto, la cui volontà era legge sacra. Imperator uti imperassit ita jus esto, era un concetto di diritto pubblico che nasceva da quel concetto di diritto privato espresso nella famosa legge delle dodici Tavole: Paterfamilias uti legassit.... ita jus esto.

IV. Nella vita greca era un concetto non esclusivo e rigido, ma immensamente vario e mirabilmente armonico, il concetto della bellezza. La Grecia non è una città sola; ma molti e diversi popoli congiunti insieme per un certo legame, e ritenenti ciascuno la sua personalità e la sua libertà intera. Gli eroi vanno al conquisto di Troia, liberi tutti, e re, ed eguali ad Agamennone, che solamente per necessità di guerra è scelto a duce supremo. Le città libere ed independenti, ciascuna con leggi, magistrati, culto, costumi particolari, mandano legati al nazional concilio degli Anfizioni che discutono i comuni interessi della religione e della politica; contendono tra loro per un primato che nessuna ottenne mai pieno su le altre, perchè è primato d’ingegno che di sua natura è liberissimo; e nondimeno riconoscono Atene come la più colta e gentile. Gli Dei [p. 6 modifica]non sono terribili, nè informi, nè scure astrazioni, ma persone di umana leggiadria, una celeste famiglia eroica, il cui capo è Giove, che ha diviso l’impero coi fratelli, e tutti sono soggetti allo scuro fato. Le arti crescono libere nei diversi popoli, che si radunano per farne mostra e paragone nei giuochi solenni. La filosofia ha molte sètte distinte per dottrine e pratiche diverse. La lingua ha vari dialetti, e ciascuno ha la sua bellezza ed i suoi scrittori. Questa varietà immensa aveva armonia di parti, non unita: quindi come esse parti andavano crescendo ed invigorendo ciascuna per sè, quell’armonia andò dissolvendosi: la libertà civile tosto cadde sotto il braccio di Alessandro, che invano tentò di dare unità a tante parti dissociabili, e fare un impero greco; con la liberta caddero le arti; il sapere trovatosi discordante dalla vita, si ritirò nelle scuole; il costume pigliò mollezza barbarica; il sentimento si corruppe nel profondo dell’anima, ed il popol greco arguto e gaio, rise piacevolmente de’ suoi iddii, e trattò come una sciocchezza ed una bugia quella religione che era stata il senno, la verità, la vita e la gioia della sua giovanezza. Così l’ingegno greco di acuto divenne astuto; il costume di lieto, lascivo; l’eloquenza da intima espresssione del sentimento, un freddo giuoco del pensiero; la filosofia da ricerca del vero, una sottilissima ricerca delle forme del ragionamento; la civiltà intera divenne una corruzione. Il concetto della bellezza che nei Greci era un senso squisitissimo, li condusse a quella civiltà maravigliosa, a quella libertà, a quella gloria, a quella luce di arti e di scienze: ed essi ritennero sempre questo senso, che era la loro indole, e con questo ornarono quanto fecero e quanto dissero. Scendendo in basso, essi non caddero dove sprofondarono i Romani e dove l’uomo perde la [p. 7 modifica]scienza di essere uomo: anche scaduti e corrotti furono maggiori degli altri, anche servi comandavano ai padroni, e li facevano pensare e parlare come loro.

V. Se il mondo grecoromano corruppesi per cagioni che aveva in sè stesso, era necesità che egli si trasformasse. Come gli eserciti che mantenevano la potenza di Roma, non erano più di Romani gih infiacchiti e molli, ma si rifornivano e si rinsanguinavano di uomini barbari, i quali da prima ubbidirono, poi, appresa l’arte delle armi, comandarono e distrussero l’impero; così l’intelletto, forza dei Greci, non trovando nella vita intera di quel popolo un principio che potesse ricostituire l’antica armonia, lo ricercò nelle altre genti, e trovò un’idea nuova, la quale, perchè rozza, da prima fu disprezzata e sconosciuta, ma poi educata nelle arti e nel sapere dei Greci, e da essi spiegata e divulgata per ogni dove, ridusse ad unità i popoli e le nazioni tutte, e fece del genere umano una sola famiglia. I Greci che furono i primi e i più potenti edificatori del mondo intellettuale antico, furono anche i primi e i più potenti nel distruggerlo, come sentirono che quell’antico mondo non corrispondeva più ai bisogni della ragione; e si diedero a ricostituire il nuovo, nel quale posero tutta la forza del loro ingegno, tutta la ricchezza del loro sapere, e quanto dell’arte antica ancora rimaneva: sicchè il greco novello fu eloquente più di tutti gli altri, e teologizzò e chiacchierò anche troppo. Per questa idea l’impero greco sopravvisse al romano, come lo spirito alla materia, spirito guasto e degenerato sì, ma sempre spirito che per una nuova fede mandò un bagliore che pur fu luce; e fece conoscere al mondo ciò che v’era d’intellettuale e di vero nel Romano, le leggi, che egli raccolse e pregiò. Ma la trasformazione dell’antico doveva essere generale e profonda, perchè si mutava il [p. 8 modifica]pensiero dell’umanità, rinnovavasi il principio e l’anima del mondo: però sapere, arti, costumi, memorie, tutto doveva confondersi e mescolarsi, e in mezzo a questa confusione e rimescolio, e nelle tenebre d’una ignoranza feroce, sorgeva quest’idea ad irraggiare la civiltà nuova, e ringiovanire il genere umano.

VI. Nel secondo secolo appunto la distruzione del vecchio mondo era fatta in gran parte, e cominciava l’edificazione del nuovo. Si può dire che gli uomini in quel secolo indirizzavano il loro intelletto per tre vie che, sebbene diverse, riuscivano allo stesso termine: o per abitudine ed ignoranza conservavano l’antico: o per coltura e ragione lo dispregiavano, e dispregiando lo distruggevano senza sapere che sostituirvi; o si affaticavano a edificare il nuovo. Ma quelli stessi che conservavano l’antico, cooperavano, senza saperlo, all’universale rinnovamento, perchè serbavano l’elemento che doveva rimanere, ed essere trasformato ed assorbito nel nuovo, e che riluttò finchè non fu trasformato interamente. Così tutte queste vie erano necessarie al futuro ordine di cose. Ogni uomo senza che egli se ne accorga, e serbando la sua libertà, fa l’opera cui il suo secolo è indirizzato: se questa è d’incremento, egli edifica; se di scadimento, egli disfà: ogni sforzo contrario può essere magnanimo, ma riesce sempre inutile. La ragione umana rischiarata dalle utili cognizioni diffuse dai Greci, e fatta adulta pel tempo e per l’intrinseca sua forza, non poteva più contentarsi delle istituzioni politiche, civili e religiose nate quand’ella era ancora bambina, e doveva cercare nuove forme ed istituzioni in cui adagiarsi. Però la civiltà antica si distruggeva, e nasceva un’altra nella quale vive solamente ciò che era ragionevole nell’antica, perchè la ragione sola vive eterna nel mondo. [p. 9 modifica]

VII. Ma consideriamo più da vicino questo secondo secolo, nel quale visse Luciano: e prima di osservarne particolarmente i costumi, le credenze, ed il sapere, ricordiamone in breve gli avvenimenti principali.

L’impero romano, retto da cinque buoni principi, nel secondo secolo parve che godesse d’una rara felicita, avendo nel secolo antecedente sofferte tutte le miserie e le vergogne dell’ultima servitù. II vecchio Nerva fece sperare, e Traiano fece a tutti godere sicurezza e libertà, rimesse negli eserciti la disciplina, e vinse i Daci, fiere genti di Germania, dai quali il codardo Domiziano aveva comperata una pace obbrobriosa. Ma come se fosse fatale che i romani imperatori dovessero far patire sempre una parte del genere umano, mentre l’impero era tranquillo, Traiano per solo desio di gloria e di conquisti portò la guerra contro i Parti, e conquistò molte regioni dell’Asia quasi sino all’India. I Giudei, colta l’occasione, si levano e scannano mezzo milione di uomini in Mesopotamia, in Alessandria, in Cirene, in Cipro: ma ne fu fatta aspra vendetta, e le armi romane desolarono e pacificarono l’Asia. Adriano per prudenza o poco animo non serbò le conquiste asiane, e volle che l’Eufrate fosse l’oriental confine dell’impero. Cólto e vanitoso resse pacificamente, frenò l’arbitrio dei magistrati pubblicando l’editto perpetuo, visitò tutte le province per vedere e provvedere ogni cosa, cercò ravvivare gli studi delle scienze e delle arti, talora giusto e moderato, talora crudele, invidioso, difficile, fu più fortunato che buono. Scelse a successore Elio Vero, piaciutogli perchè giovane bellissimo e lascivo; il quale per suoi vizi e fortuna di Roma tosto si morì; ed Adriano ebbe il senno di adottare Antonino, e volere che questi adottasse il giovane Marco Aurelio. Senatore santissimo fu [p. 10 modifica]Antonino, che pari a Numa onorò il trono dei Cesari con l’innocenza dei costumi, la bontà dell’animo, e la sapienza: fu religioso senza superstizione, diede onori, uffici e stipendi ai filosofi ed ai retori in tutte le province, usò del sommo potere come di cosa non sua, e solamente per far bene. Marco Aurelio, uomo di virtù più severa e faticosa, fu filosofo stoico, principe lodatissimo. Per gratitudine ad Adriano si associò all’impero Lucio Vero figliuolo di Elio, di costumi simile al padre: e fu maraviglia vedere un sapiente e un dissoluto insieme imperatori e concordi, perchè l’uno era indulgente, l’altro rispettoso. In quel tempo Vologeso re dei Parti rompe la guerra, della quale fa menzione Luciano nel libretto. Come si deve scrivere la storia. Lucio Vero va in Asia a combatterlo, e mentre tuffato nelle voluttuose delizie di Antiochia filosofava per lettere con Marco, che governava lo Stato, i suoi capitani guerreggiavano valorosamente: Stazio Prisco prendeva Artassata; Avidio Cassio e Marcio Vero vincevano in battaglia campale Vologeso, s’insignorivano di Seleucia, ardevano Babilonia e Ctesifonte, abbattevano la reggia dei re Parti, e in quattro anni sbaragliavano eserciti di quattrocentomila combattenti. Fra tante rovine surse terribile peste. Si conta che nei sotterranei del tempio d’Apollo in Babilonia fu preso dai soldati romani un forziere d’oro, donde uscì quella peste che distrusse gran parte dell’esercito e si sparse per tutto l’impero. L. Vero tornò in Roma con l’onore della vittoria, la peste, ed una più pestifera greggia di cortigiane e di uomini perduti. Intanto i Sarmati, i Quadi e i Marcomanni chiamano all’armi tutta Germania, e minacciosi avvicinansi all’Italia desolata dalla peste, afflitta dalla fame, sbigottita da questa furia di guerra. Escono i due imperatori a combatterli, e li vincono presso [p. 11 modifica]Aquileia: muore L. Vero dopo nove anni di regno, e Marco rimane solo. Rifanno testa i barbari dal Boristene al Reno, dal mar di Germania al Danubio, e Marco deve cedere: dipoi li ricaccia, e trionfa; i vinti risorgono più fieri, ma dopo varia fortuna prevalse il senno ed il valore del guerriero filosofo. Uomo degno di vivere in tempi migliori, guerreggiava da prode, e governava coi sermoni, piacendosi d’insegnare pubblicamente nelle città della Grecia, dell’Asia, e in Roma i precetti della filosofia stoica. E quando era sul partire l’ultima volta da Roma per la Germania, i senatori, i cavalieri, il popolo in folla andarono a dimandargli consigli e norme per la vita: e l’imperatore romano per tre dì sciorinò massime stoiche al popolo radunato che l’ascoltava. Invasato delle astrazioni di una rigida filosofia, non conobbe nè il mondo nè la sua famiglia; s’associò un giovane dissoluto, indiò una moglie impudica, lasciò l’impero ad un figliuolo scellerato. La sua vita fu pura, il sapere sodo, il cuore buono, ed anche quei che ridevano della sua vanità dovevano rispettare le sue virtù.

VIII. Il secolo degli Antonini parve beatissimo non pure perchè successe ad un secolo di oscena tirannide, ma perchè fu seguito da un altro secolo anche peggiore: in cui fu veduto Commodo feroce gladiatore e cocchiere. Pertinace ucciso, come Galba, dai soldati che messere all’incanto l’impero, e Didio Giuliano lo comperò; poi i furori di Caracalla, e gl’intrighi di due scaltre donne che posero sul trono l’ultima vergogna del genere umano, l’infame Eliogabalo; poi tanti imperatori assassinati, e gli assassini divenuti imperatori; infine non altro che il nome d’impero romano, tutto il potere in alcune migliaia di soldati barbari che creavano imperatore il loro capo, e questi reputava so [p. 12 modifica]essere lo stato, il suo campo Roma, la sua volontà legge a tutti. Non v’ha dubbio che nel secondo secolo il genere umano non soffrì quei mali violenti che sono cagionati da malvagi principi, e che l’impero per lungo riposo acquistò gran potenza e maestà; ma chi considera a dentro la storia, e ricorda quanto sono sospette le lodi che gli scrittori danno ai principi che favoriscono gli studi, non s’indurrà di leggieri a credere, come si afferma, che in quel secolo il genere umano godette della maggiore prosperità. Imperocchè in quel secolo furono gli effetti del primo, e le cagioni del terzo: e quella prosperità era solo apparente. L’impero si manteneva per la sua mole, per il nome antico e gli eserciti nuovi; e non cinque buoni principi, non ottanta anni che essi durarono, non alcuna forza umana poteva impedire quello che avvenne ed era necessità inevitabile. La corruzione dei costumi, che era già grande ai tempi delle guerre civili della Repubblica, e crebbe smisuratamente nel primo secolo dell’impero, non si spense a un tratto nè scemò nel secondo, ma durò e crebbe più coperta, e però più profonda; e come se per questo apparente riposo avesse presa maggiore forza, divampò spaventevole nel terzo, e cagionò la totale rovina di tutte le istituzioni.

costumi.

IX. Questa corruzione è stata dipinta con terribile verità dal Meiners:1 io ne ho accennate le cagioni particolari; ed ora dico che non bisogna confondere Greci e Romani, i quali erano mescolati sì, ma serbavansi distinti; e la corruzione dell’un popolo era diversa [p. 13 modifica]dalla corruzione dell’altro quanto le cagioni che la producevano ed il carattere nazionale di ciascuno.

Roma quanto maggiore delle altre città, tanto era peggiore. Le antiche case patrizie spiantate dagl’imperatori imbastardite per adulterii forestieri: le genti nuove salite a subite ricchezze non per fatiche o industrie, ma per rapine o favori di principi, o accuse, o altre male arti: senatori e cavalieri perduti di lascivie, inetti alle armi, abiettissimi nell’adulare, ricordevoli d’esser romani solo nel morire. La plebe che sdegnava di lavorare, superbamente mendica, viveva delle quotidiane distribuzioni degl’imperatori che la pascevano, delle sportule dei patroni, del grano che le veniva d’Egitto: niente produceva, tutto consumava, occupata solo di sollazzi, non curante di ogni altra cosa. E plebe, e nobili, e imperatori, e liberi, e servi, e tutti parteggiare pei cocchieri nel circo, o pei pantomimi nei teatri, o feroci anche nelle mollezze, starsi a vedere accoltellare tra loro o con le bestie le centinaia e le migliaia di prigionieri di guerra: poi l’infame mestiere piacque a tutti, furono veduti senatori e donne discender nell’arena, e un principe che fu ghiotto di tutte le turpitudini, compiacersi di essere chiamato col nome di un famoso gladiatore.2 Immenso numero di servi di tutte le nazioni cui era negato ogni diritto, e in cui si comportava ogni più sozzo vizio; liberti furbi, strumenti di tutte le volontà dei padroni, e spesso arbitri dello stato e dell’esercito: mimi, cocchieri, gladiatori, buffoni, ballerini che svergognavano sinanche il talamo imperiale, colluvie di tristi, schiuma di tutte le città, impostori, astrologi, fattucchieri, ruffiani, meretrici, bardassi, tutte le superstizioni e le lascivie, e quanto [p. 14 modifica]può corrompere ed essere corrotto si ragunava in quella cloaca massima di tutte le sozzure del mondo. Il palazzo imperatorio era un bordello, dove Nerone, Commodo ed Eliogabalo furono più turpi che meretrici: e se si guarda dentro le camere degli stessi imperatori più lodati, si vede Adriano impazzire per Elio Vero e per il bellissimo Antinoo, mentre la moglie Sabina infamasi per vendetta: si vedono le due Faustino, l’una moglie del buono Antonino, l’altra del filosofo Marco, rotte in libidini quanto Messalina.

X. Le città greche per contrario serbando leggi, magistrati, culto ed usanze municipali lasciate loro dai Romani, quanto più piccole erano, tanto più modeste e meno corrotte. Atene, antica e tranquilla stanza di studi e di gentilezza, accoglieva i giovani di ogni paese, che ivi andavano a studiare sapienza ed eloquenza. Il suo popolo riteneva lo squisitissimo senso dell’urbanità, parlava ancora la lingua di Aristofane; ascoltava i filosofi disputare, e gl’intendeva e li giudicava sennatamente; andava a teatro per ascoltare i drammi dei suoi poeti, ai tribunali per udir gli oratori; gloria vasi del suo Areopago, dei misteri celebrati con tanta solennità, dei monumenti maravigliosi delle arti; ma era molle ed inetto, incredulo e cianciatore, aveva perduto la forza, la ricchezza, l’attività e la fede dei padri suoi. Le altre città elleniche piccole e di poca ricchezza e di pochi vizi, serbavansi modeste col lavoro e l’industria, e gareggiavano tra loro solamente nei giuochi solenni, poco curando gladiatori e cocchieri, perchè spettacolo senza mostra d’ingegno non piacque ai Greci se non tardi assai. Non dirò di Tessalonica e di Filippopoli in Macedonia, non delle cinquecento città dell’Asia, tra le quali Smirne, Efeso e Pergamo contendevano del primato: ma ricorderò solamente di [p. 15 modifica]Antiochia e di Alessandria, già metropoli dei regni di Siria e di Egitto, e che a mala pena cedevano a Roma per vastità ed opulenza.

Antiochia, che spesso fa dimora e sedia d’imperatori, popolata di mezzo milione di uomini, ricca delle ricchezze dell’Asia che in essa raccoglievansi, piena di piaceri, di spettacoli, di retori, di filosofi, di giudei, di cristiani, di sacerdoti della dea Siria, era la città più molle e voluttuosa dell’oriente. I suoi abitatori, come tutti i cittadini delle città popolose, arguti e beffardi ridevano del pudore, della vecchiaia, di tutto, non avevano altro scopo ed altra religione che il piacere, ed alla stemperatezza degli Asiani univano il gusto dei Greci. Cinque miglia distante da Antiochia e in un gran bosco di lauri e di cipressi era il famoso tempio di Apollo, e pressogli il villaggio di Dafne nel bosco. Il tempio era ricco di oro, di gemme e delle opere dei greci artefici: la statua del dio era colossale. Come in Delfo, vi era una fonte detta Castalia, le cui acque si credevano profetiche: v’era uno stadio, dove ogni cinque anni si celebravano giuochi olimpici con profusissime spese e grande concorso di gente, che dalle più lontane contradevi accorrevano continuamente: e quivi tra le ombre di quei boschetti irrigati da mille freschi ruscelli e in quell’aere profumato, celebravano tutti i misteri del piacere.3

Alessandria è dipinta dall’imperatore Adriano in una lettera a Serviano suo cognato, la quale è giunta sino a noi. «Qui ho trovata una gente leggiera, capricciosa, voltabile come il vento. Gli adoratori di Serapide sono cristiani, e quei che si dicon vescovi di Cristo adoran Serapide: i capi della Sinagoga, i [p. 16 modifica]Samaritani, i sacerdoti cristiani sono astrologi, aruspici, ciurmadori. Una parte del popolo costringe il patriarca dei Giudei ad adorar Cristo, un’altra ad incensar Serapide. È una gente nata per far sedizioni.» La città di Alessandria poi è bella, industriosa, ricca, potente: nessuno vi sta in ozio: chi lavora il vetro, chi la carta, e parecchi anche la seta: tutti lavorano, anche i ciechi e i podagrosi, secondo le loro forze: tutti hanno un mestiere: cristiani e giudei riconoscono un solo dio, che è l’interesse. Peccato che una città sì bella non racchiuda abitanti migliori. Sono una gente ingratissima. Io ho dato loro quanti privilegi e grazie hanno voluto: ed essi, finchè io sono stato presente mi hanno profuse le più stemperate adulazioni: come sono partito, hanno insultato il mio diletto Vero, e diffamato Antonino. Non desidero a costoro altra pena, se non che sieno costretti dalla necessita a mangiare per solo cibo quei polli che essi fanno nascere dentro i letamai.»4 Parecchi scrittori antichi ci dipingono l’indole del popolo Alessandrino, ma nessuno meglio di Adriano ritrae così schiettamente la natura di quella gente sediziosamente religiosa e insieme operosa, adulatrice, e beffarda. Alessandria mandava a Roma i frumenti, le tele di lino, la carta del papiro, l’avorio dell’Etiopia, le perle del Mar rosso, i profumi dell’Arabia, la cannella ed i diamanti del Geilan, le opere dei letterati, le facezie popolaresche, buffoni, bei garzoni, sacerdoti d’Iside e di Serapide, impostóri, e indovini che Roma spesso cacciava e sempre riteneva. Città bella, capricciosa, voluttuosa come l’ultima Cleopatra che anche nel morire mostrò coraggio di regina, ed ingegnosa leggiadria di donna greca. [p. 17 modifica]

La moderna Europa ha qualche città più popolosa di Roma, molte più ricche, e quasi tutte piene di tanti agi e comodità che agli antichi parrebbero lusso insopportabile e mollezza; ma nessuna è corrotta quanto Roma, e quanto Antiochia ancora ed Alessandria; in nessuna si vede il vizio sì oscenamente sfacciato, e personificato in un imperatore come Caio o Nerone, o Commodo, o Eliogabalo. La cagione di questa differenza sta dentro, ed è l’idea che regge la vita moderna tanto diversa dall’idea che reggeva la vita antica.

XI. La corruzione dei costumi nei Greci e nei Romani aveva una fonte comune, la religione del politeismo. Il piacere è una gran verità della vita, e però la fantasia degli antichi ne fece un iddio, e la ragione lo pose a fondamento d’una filosofia: ma esso non è tutta la verità, e però nella religione, nella filosofia e quindi nel costume fu principio di molti errori, e di vizi, e di mali. Essendo indiato il piacere, fu cosa santa goderlo in ogni modo, e ciascun popolo ne godè secondo sua indole, gli Asiani con rilassatezza, i Greci con saccenteria, i Romani con violenza. Credevasi da tutti di fare cosa grata ad un dio cercare e godere ogni specie di diletto, sprofondarsi nelle lascivie, le donne prostituirsi, gli uomini infemminire. Invano la ragione si opponeva alle conseguenze nefande d’un errore che nasceva da un principio religioso; erano savi solamente quei pochissimi che non ne abusavano, ma l’abuso non era vietato da alcuna legge, anzi vi furono filosofi che posero il sommo bene nel piacere che muove il senso, ed altri che lodarono l’amor dei garzoni, e lo proposero come premio ai valorosi. Nondimeno i primi abitatori della boscosa Italia e dell’alpestre paese dell’Eliade sentivano più forte altre passioni che la voluttà. Saturno e Mavorte, l’agricoltura e la guerra sono antichi dei di [p. 18 modifica]nome, d’indole e di costumi italiani: Pallade e Nettuno, le arti ed il commercio marittimo, furono gli dei che si disputarono la signoria d’Atene e dell’Eliade. Afrodite venne dalle isole dell’Egeo e dai lidi dell’Asia, dove la bellezza del cielo, la grassezza della terra, e la caldezza del clima facevano sentire più potenti gli stimoli del senso. Gli Elleni accolsero volentieri la bella marina, ma le diedero per ancelle le Grazie, figliuole dell’ingegno; i Romani che volevano per loro ogni cosa, la vollero genitrice della loro schiatta. La religione del politeismo avendo indiate tutte le passioni e le virtù ed i vizi, e le follie umane, le quali tutte sono la gran realtà della vita, non aveva quella morale pura che è conseguenza della ragione divenuta legge eterna ed iddio. Però quasi tutti i popoli politeisti sono rilassati nel costume, e facilmente nel godimento del piacere trapassano i limiti da natura assegnati, e quasi tutti sono lerci del medesimo peccato. I Greci ne furono tinti non più degli altri, come è fama, ma più degli altri ne parlarono, perchè avendo ingegno e parole da indorare ogni cosa, indorarono anche questo vizio. Il quale, nasce da desiderio di nuovi piaceri, ed è abuso di liberta che sforza anche natura; e presso gli antichi era molto comune per i servi, i quali erano cose, e dei quali era lecito abusare in ogni modo; pel costume degli esercizi ginnastici, in cui i giovani mostravano i corpi nudi; e sopra tutto per la religione. Quando Giove rapitore di tante donne mortali, rapì anche il bel Ganimede, e se lo teneva in cielo; quando Apollo amatore di tanti garzoni, e spiacente a molte donne, andò sì perduto di Jacinto; non deve far maraviglia a leggere le nefandezze di Caligola e di Nerone, e la pazzia di Adriano che rizzò templi al suo Antinoo, e lo fece adorar come Dio. I filosofi stessi [p. 19 modifica]sacerdoti della sapienza, erano travolti dal mal costume, e cercavano di scusarlo con sofismi. Onde gli antichi dovevano fare maggiori sforzi che non dobbiamo noi per praticare la virtù della continenza: e noi nel giudicarli dobbiamo aver l’occhio al loro tempo, ai loro costumi, ed a tutta la vita antica sì diversa e discordante dalla nostra. E se taluni uomini d’intelletto e di cuore nobilissimo non seppero forbirsi della scabbia del mal costume, non però noi dobbiamo biasimarli, perchè quel che ora è mal costume allora non era. E chiunque si fa a leggere i greci scrittori, non deve scandalizzarsi di quel loro parlare non pur libero ma sbarbazzato, considerando che era senza ipocrisia, e che anche dalle lordure essi dispiccano luce e bellezza. Chi fosse vissuto nel secondo secolo non avria biasimata la libertà d’uno scrittore greco, vedendo pubblicamente le pazzie superstiziose di Adriano, le lascivie dei due Veri, i furori meretricii di Faustina in Gaeta, e le infamie di Commodo.

religione.

XII. Sebbene la religione dei Greci e quella dei Romani fosse il politeismo, pure l’una era ben differente dall’altra. La romana era intimamente unita allo stato, istitutori e sacerdoti ne furono i re, conservatori i patrizi; religione del jus, che nasceva da Jous-pater, dio ottimo, massimo, statore, che sedeva sul Campidoglio a conservare l’impero. La greca era unita all’arte, e però istitutori sacerdoti e conservatori ne furono i poeti ed i savi: religione del bello, in cui principale iddio era Febo, φάος βίου, luce di vita, il sole che genera tutte le cose e le abbellisce, e la luce intellettuale che crea le arti, trova la sapienza, predice l’avvenire, [p. 20 modifica]diffonde la civiltà tra gli uomini. Quindi la religione romana visse con lo stato; l’impero e Giove capitolino caddero lo stesso giorno: la greca visse con l’arte; e, se finì di esser religione quando il greco trasse novella vita da una credenza più razionale, essendo ella unita all’arte che è eterna, rimase e rimane ancora viva nella bellezza dell’arte. Ora è da considerare la religione greca, e specialmente quale era nel secondo secolo.

XIII. La religione degli antichi Elioni era quel vergine sentimento sereno di cui gode l’anima nella giovanezza della vita quando entrammo in questo mondo che ci parve pieno di tanta bellezza, di tante maraviglie, e di tanto amore. Il Greco palpitante di affetti e lieto di vivida fantasia animava ed abbelliva tutta la natura, e i monti, e i boschi, e i fiumi, e le fonti, e gli antri, e il mare, e gli alberi, e i fiori della sua patria, che gli erano cari quanto l’anima sua che egli aveva posta in quelli. E le leggi dell’anima sua che egli riconobbe nella natura, e delle quali sapeva rendersi qualche ragione, furono i suoi iddii; che però furono molti, e ritraenti l’armonica bellezza della facoltà che li creava, esseri formati di attributi delia natura esterna e dell’anima. Quello poi che nell’anima era oscuro, e di cui non si sapeva rendere ragione, chiamò il fato, che fu cieco, inesorabile, senza figura; legge superiore alla corta intelligenza, verità astratta superiore alle verità concrete che sono gli dei, creazioni belle, di cui essa è la ragione segreta, la cagione profonda e prima, e ancora sconosciuta. Ma come l’intelligenza cresce, e le verità concrete vanno dilargandosi in certe generalità, gl’iddii perdono la loro bellezza particolare, e quella luce onde erano splendenti e distinti: dipoi viene quasi un presentimento della prima verità astratta, che pure [p. 21 modifica]non si conosce ancora, e le si rizza un tempio dedicato al Dio ignoto: infine l’intelligenza fatta adulta la vede, la conquista, ed ora l’uomo ha sotto le sue mani il fato. La più bella e compiuta rappresentazione della verità concreta fu la triplice rappresentazione dell’uomo greco. Nella sua prima rozzezza e robustezza eroica il Greco rappresentò se stesso in Ercole, domatore di mostri e di ladroni, istitutore di giuochi, e ceppo degli Eraclidi che regnarono lungamente nel Peloponneso. Il greco artista è simboleggiato in Febo Apollo, bellissimo di persona e d’ingegno, poeta, musico, indovino, bravo in tutte le arti, savio in tutte le scienze, nato in Dolo centro delle Cicladi, dimorante in Delfo, umbilico dell’Eliade, però tutto greco, con ire, amori, capricci, sventure che sogliono avere gli artisti. Fra questi due tipi, l’uno informe, l’altro perfetto, è il terzo più vero, il Greco nella vita reale rappresentato da Ermete, facondo, astuto, faccendiere, rimescolatore, veloce di piedi come di mente, inventore della lira, ladro, datore di guadagni, sì che la sua statua era innanzi ogni casa. Tutti e tre eran figliuoli di Giove: ma Ercole è semideo e soggiace alla morte, perchè la forza corporale perisce, e se ne serba memoria solamente quando è adoperata ad un fine di bene: Apollo ed Ermete, potenze della mente, sono dii immortali. Tutti e tre furono datori di civiltà agli uomini, ed istitutori della palestra,5 istituzione civile e cara ai Greci, che [p. 22 modifica]abborrivano la guerra furiosa e sterminatrice, e dissero che Marte era tracio non greco. I Romani lo fecero padre di Romolo. La terra ove il Greco viveva, le rive della Sicilia e dell’estrema Italia, i monti dell’Ellade, le isole dell’Egeo, e i lidi dell’Asia furono la patria sua e de’ suoi numi: e non pure le città, ma i monti e i boschi e i fiumi e gli alberi erano sacri a qualche iddio, serbavano memorie di sventure, di amori, di gioie. Una degli uomini e degli Dei è la stirpe, e d’una madre viviamo, diceva Pindaro (nella ode 6ª delle Nemee): l’uomo aveva animata tutta la natura, e la natura rispondeva con mille voci all’uomo, il quale veramente le udiva e le sentiva, perchè erano le voci dell’anima sua. Quest’anima sì bene armonizzata di sentimento e di fantasia creò la religione e l’arte egualmente belle, come due gemine sorelle che vivono d’una madre, per modo che nella religione era tutta la vaghezza artistica, e nell’arte tutta la solennità religiosa. Però la religione ebbe per sacerdoti gli artisti; ed essa ispirò i poemi d’Omero e di Esiodo, le tragedie di Eschilo e di Sofocle, le odi di Pindaro e d’Anacreonte, il Giove di Fidia, la Venere ed il Cupido di Prassitele: e però il popol greco teneva come sacri i libri dei suoi poeti, li serbava a mente e li cantava, gl’intendeva e li credeva pienamente. I Romani per contrario tenevano sacri i libri sibillini e di Numa, scuri, segreti, letti solamente da pochi patrizi, e interpetrati secondo l’interesse dello stato. Questa credenza nel popol greco era dunque naturale e necessaria, perchè il bisogno di credere è potente in noi quanto quello di pensare: e doveva credere nei poeti, perchè quella religione, più di [p. 23 modifica]quante altre sono state al mondo, era una schietta poesia.

XIV. Se non che i savi sentivano che quelle liete creazioni se piacevano alla fantasia e movevano caramente gli affetti, non però contentavano la ragione, severa ed eterna avversaria della fede religiosa: quindi cercarono di trovare in quelle creazioni le verità razionali nascoste sotto il velo dell’allegoria. Ma perchè il popolo non poteva nè voleva conoscere la verità nuda, che avrebbe irritate e concitate molte passioni, fecero questa ricerca in segreto, e stabilirono i misteri. Quali e quante verità si contenessero nei misteri è inutile investigare: si può dire che erano quante e quali si conoscevano in quei tempi: e non è a credere che fossero state molte e profonde, nè interamente spoglie d’immagini, anzi pare che esse spogliando la veste comune si adornassero di altra più sacra, il popolo non si lagnava nè sospettava, perchè sapeva che i misteri non contenevano altra religione dalla sua, e li rispettava, perchè vi erano i grandi ed i savi, e non si curava di conoscere le verità nascoste, perchè, secondo il senno comune, le credeva pericolose. Prometeo tolse il fuoco al sole, e nascostolo in una canna, lo diede agli uomini che ne ebbero tanto bene: ma il preveggente non seppe prevedere il male che gli verrebbe da questo benefizio: fu il misero strabalzato nelle solitudini del Caucaso, e legato ad una rupe, dove l’aquila vendicatrice gli rode le viscere rinascenti: così il savio che svela agli uomini certe nascoste verità, che fanno l’effetto del fuoco, illuminano sì ma bruciano e fanno dolore, tardi si accorge e si pente, e fugge nella solitudine, dove lo strazia il rimorso di aver prodotto un male che egli non aveva voluto nè preveduto. Così il senno volgare: ma un senno magnanimo e sublime diceva: No, [p. 24 modifica]o popolo, no: questo savio ha tutto preveduto, e magnanimo ha voluto, ha voluto sofferire. Ei non prega perchè non sente colpa, nè vuole che altri preghi per lui: egli seguita a fare il bene anche nella sua sventura, e conforta di consigli e di speranze chi soffre come lui. La verità che a voi pare di aver prodotto un male breve, sarà cagione di larghissimi beni in avvenire: verrà tempo e sarà conosciuta da tutti: ella nascerà dall’errore stesso, dalla stessa tirannide nascerà la libertà, da Giove nascerà l’Ercole che dovrà liberare il mondo, e diffondervi la verità. Guarda, o popolo, questo savio come sta tranquillo e confidente, e come spregia le minacce e i tormenti. Già la folgore stride, e lo sprofonda nel tartaro; ma egli non può morire, perchè il vero che è l’anima sua non muore mai: e questo Titano, questo figlio del sole, è l’intelligenza umana che vive eterna, e trionfa di tutte le forze del mondo. Ecco il Prometeo legato: ed ecco come Eschilo iniziato nei misteri ne rivelava le verità al popolo, il quale alla voce del gran poeta si riscoteva e sentiva che veramente l’Ercole era nato, ed aveva combattuto e vinto a Maratona e Salamina.

XV. Le leggi e le religioni nascono spontaneamente dai bisogni dei popoli: e quelli che le stabiliscono non le creano mai, ma esprimono ciò che da tutti è sentito necessario; e però sono creduti ed ubbiditi. Il politeismo nasce da un bisogno dell’umanità, nella quale le prime facoltà che appariscono sono la fantasia e l’affetto, e tardi viene la ragione. Esso piglia diversa forma per la fantasia, e varia secondo i luoghi, i climi e l’indole dei diversi popoli: e la forma che pigliò in Grecia fu singolare ed unica, per singolare ed unica condizione di quel popolo. Ma in generale il politeismo, da ciò che in esso è invariabile, può dirsi la religione del pathos, [p. 25 modifica]cioè l’indiazione delle passioni, ed è proprio di tutti i popoli nella prima loro gioventù intellettuale. Gli è opposta la religione del logos, della ragione indiata, propria di quei popoli di cui la ragione è giunta a certa maturità. L’antico politeismo, sia della forma bella dei Greci, sia della forma politica dei Romani, e sia ancora delle forme rozze e selvagge dei barbari, doveva, dove più presto, dove più tardi, cedere alfine, perchè la ragione umana era cresciuta, le cognizioni dilargate, tutti i popoli del mondo s’incontravano, si mescolavano, discutevano. E questo cedere fu secondo che cede ogni opinione: della quale prima si dubita, poi non si crede, poi si sprezza, poi si beffa, poi si butta via, si muta, si dimentica. In Grecia, nutrice di tanti ingegni acuti e mirabili, si cominciò assai per tempo a ricercare la natura degli Dei. Certamente il concetto che i filosofi avevano della divinità era ben diverso dal concetto che ne aveva la moltitudine: e parecchi di essi, tra i quali Anassagora e Democrito, insegnarono dottrine non punto religiose, che per la loro forma scientifica rimasero tra le persone colte, e non si sparsero nel popolo. Nondimeno il popolo che amava tanto la sua libertà, e la gaiezza, e la piacevolezza, talvolta rideva anch’esso de’ suoi Dii come dei suoi magistrati, ma non andava più in là del riso, e stimava tirannide disfare questi, empietà negare quelli. Quindi gli stessi Ateniesi che senza scandalezzarsi udivano le piacevolezze e talora anche gli strazi che Aristofane diceva degli dei pubblicamente su la scena, condannarono a morte Socrate che popolarmente gli Dei negava, ed insegnava nuove dottrine che corrompevano la gioventù. Se noi ascoltiamo i discepoli di questo filosofo non sappiamo concepire come un uomo di tanto sapere e di tanta virtù fosse dannato a morte da un popolo sì colto ed [p. 26 modifica]amico di ogni bella azione: ma quando udiamo Aristofane, rappresentante il senno popolare, il quale lo morde perchè negava seriamente gli Dei, Socrate ci pare più uomo perchè commise l’errore di affrettarsi di troppo, e gli Ateniesi più ragionevoli perchè serbavano intatte le loro istituzioni. Dipoi mutarono i tempi ed i costumi: Epicuro potè sicuramente insegnare che gli Dei non si curano delle cose di quaggiù, e i suoi discepoli dicevano più aperto, e pubblicamente nelle piazze discutevano, che gli Dei non esistono, che la provvidenza è un vano nome, che il piacere è il sommo bene dell’uomo. Queste dottrine si sparsero per tutte le classi e nel popolo stesso, il quale non credette più ai suoi iddii patrii, e andò perduto dietro tutte le superstizioni forestiere, e cercò altri iddii, perchè senza iddii non poteva vivere. Le persone colte o d’ingegno svegliato non credettero interamente a nulla, e tennero la religione antica come un’istituzione civile ed un costume che bisognava conservare perchè non v’era di meglio, e non faceva gran male; come una cosa non più divina ma umana; ed infine per la ragione più potente, che ella era unita all’arte e serbava molte bellezze. Insomma sentimento religioso non v’era più, ma bassa superstizione nel popolo, pieno scetticismo negli uomini di conoscenza. La plebe romana come più ignorante della greca, era più superstiziosa, e matta di religioni forestiere: i savi per solo fine politico serbavano l’antica, nella quale non credevano affatto. Quando i Romani liberi credevano negl’iddii, avriano stimato empietà dare ai loro grandi uomini onori divini; ma i Romani servi, irreligiosi e corrotti indiarono i loro imperatori: e l’accorto Tiberio accettò di essere un iddio, non perchè ei si tenesse tale, ma perchè al suo divino onore era congiunta la venerazione del Senato. [p. 27 modifica](Tac., An. lib. 4, e. 37.) Così la religione del bello degenerò in religione del piacere, e la religione del diritto degenerò in religione della forza: onde l’una fu derisa come stolta, l’altra abborrita come ingiusta: entrambe mantenevano la corruzione e la servitù del genere umano.

XVI. A mali sì grandi e sì gravi cercava di rimediare la filosofia, ma essa li aveva accresciuti col riuscire che ella fece allo Scetticismo, che divenne dottrina e pratica generale: e vanamente gli Stoici presumevano di correggere e raddrizzare l’umanità; essi furono impotenti ipocriti. A ridestare la vita non ci voleva la verità astratta che è verità morta, ma una verità viva d’immaginazione ed animata di novelli affetti, non bastava la filosofia presente, ma bisognava una nuova religione. Era questo il bisogno dell’umanità tuttaquanta, sentito da molto tempo, e specialmente nelle infime classi del popolo, e nei servi, e nelle donne, e nei miseri, che erano esclusi dall’umanità antica. Però la novella religione non poteva uscire delle scuole dei filosofi, e surse spontanea nel popolo con tutti gli affetti, le speranze, i timori, i dolori, gli errori, i vizi e le virtù che il popolo aveva. Per questo informe involucro che la circondava, ella dapprima spiacque come cosa vile: per tre secoli andò a poco a poco crescendo e sollevandosi nelle classi superiori, secondo il movimento generale del tempo che abbassava gli antichi patrizi degenerati, e sollevava gli uomini nuovi, i servi ed i barbari sino all’altezza dell’impero. Alcuni savi non la spregiarono, e tentarono di foggiarla a modo loro, aggiungendole alcune dottrine antiche, e alcune loro immaginazioni; ma ella che era nata spontanea rigettò ogni esterna apposizione degli Gnostici, crebbe sola, sofferse, combattè, e infine a un tempo stesso convertì [p. 28 modifica]Costantino, trionfò dell’impero, e stabilì la sua dottrina nel primo generale concilio. Il Cristianesimo essendo nato nel popolo doveva contenere grande verità, che era la cagione del suo nascimento ed incremento, e molti errori, che erano la ragione della sua esistenza nel tempo e nel popolo. Essendo opposto a tutte le religioni del secolo, esso, come tutte le opinioni estreme, fu abbracciato da pochissimi uomini puri, aventi coscienza chiara di ciò che facevano, da moltissimi sciocchi per impeto pazzo e fanatico, da molti furbi per interesse, e fu generalmente sprezzato dagli uomini di giudizio. I quali nel secondo secolo non lo conoscevano e non potevano conoscere, perchè esso non conosceva ancora sè stesso, non era ancora formato; e sebbene già sapessero ed ammettessero le verità fondamentali del Cristianesimo, come l’unità di Dio e l’immortalità dell’anima, e lodassero la morale ed i costumi dei cristiani; pure non potevano certamente lasciarsi persuadere dalle superstizioni che ravviluppavano quella verità, e che erano appunto la religione allora; non potevano credere ai miracoli ed alle profezie che allora ogni cristianello pretendeva di fare, alla risurrezione dei corpi, e ad altre fantasie vanite col tempo. Dalle quali, come pianta nascente che ributta le prime fronde, il Cristianesimo si andò spogliando, e così crebbe e dilargossi, ed i savi si ricoverarono sotto la sua ombra benefica, e si cibarono sicuramente dei frutti di quest’albero della vita. Non bisogna dimenticare di distinguere quale esso fu dapprima, e quale dappoi: ne bisogna credere così ciecamente a quello che si dice, che esso dapprima fu migliore che dappoi; per costumi sì, perchè i cristiani eran pochi e ferventi di fede; per dottrine no, appunto perchè pochi ed ignoranti. La lettera di Adriano riferita innanzi è una fedele dipintura della confusione religiosa [p. 29 modifica]che a quel tempo era non pure in Alessandria, ma in moltissime altre città, e in Roma stessa. In mezzo a quella gran confusione, un uomo di senno che fare, che scegliere? A noi venuti dopo tanti anni, e tanto lontani dalla vita e dai costumi veri di quel secolo, pare facile indicare la scelta a farsi: ma chi viveva allora, e stava in mezzo alla corruzione, alla rilassatezza, alla ferocia, al fanatismo, alla stoltezza delle sètte, se era uomo di senno si asteneva da scegliere, stavasi a parte con la sua ragione, e rideva, o compativa al povero genere umano, che cieco andava brancolando nel buio, per trovare a che afferrarsi e sostenersi. Biasimeremo noi Tacito, Plinio, Plutarco, Epitteto, Marco Aurelio, e Luciano, cioè gl’intelletti più eminenti del secondo secolo, perchè non furono cristiani? Ma e il Cristianesimo allora aveva tanta luce, si era spiegato in tante verità, da farsi conoscere e però seguire da questi uomini? Essi erano savi, dabbene, amantissimi della verità, e se l’avessero scorta in esso l’avrebbero tosto abbracciata. Non la videro, e non per colpa loro, nè per manco d’intelligenza o di volontà, ma perchè ella era ancora greggia, e coverta da scorie superstiziose. Il tempo la scoprì, la forbì, la rendette splendidissima, e non si può imputare a quelli di non averla conosciuta; perocchè ogni uomo con l’ingegno non si estende di là dal suo secolo, come con la vista non si estende di là dal suo orizzonte.

sapere.

XVII. Il sapere antico appartiene ai Greci, che non pure lo trovarono, ma recarono a perfezione, e lo diffusero tra tutte le genti. Il sapere degl’Indiani e dei Cinesi, per quanto si voglia antico e vasto, ha un certo [p. 30 modifica]che d’incondito e di disarmonico, e rimase chiuso agli altri popoli, i quali però non ne ebbero alcun bene. Il sapere dei Persiani e degli Egizi fu oscurato da quello dei Greci, come la Persia e l’Egitto furono conquistati dai Greci, e ridotti a gentilezza. Sia pure il Greco un fanciullo per età a petto dell’Egizio e del Persiano; ma questo fonciullo diventò subito un uomo straordinario, e quei suoi vecchi maestri rimasero mediocri. Il sapere dei Romani, come tutte le cose loro, era nello stato e per lo stato, era solamente prudenza civile; e quel popolo non ebbe propria altra scienza che quella delle armi e delle leggi. I fanciulli romani imparavano a leggere sul libro delle dodici tavole:6 i loro gran savi furono giureconsulti, che spesso comandavano anche le armi,7 e fiorirono massimamente nell’impero, perchè nell’impero l’idea romana del diritto ebbe nuovo e più largo esplicamento, le leggi moltiplicate per la corruzione si separarono dal costume, divennero cosa astratta, e però la scienza del giure slette da sè, e giunse a maturità piena. Quando appresero il sapere dei Greci, ne pregiarono solamente la parte morale e politica, tennero le scienze speculative come sconvenienti a senatori ed a Romani,8 e le arti belle come puri ornamenti ed occupazioni geniali:9 e quando, deposta la nativa ruvidezza, vollero anche essi trattar le arti, riuscirono imperfetti imitatori. Quei loro poeti ed istorici, [p. 31 modifica]e lo stesso loro magno Cicerone, che a noi paiono sì grandi, erano spregiati dai Greci, che neppure li nominarono mai: ed anche oggi chi ha molta pratica dei greci scrittori che ci rimangono, scorgendo dove e come furono imitati, non ha molta ammirazione pei romani: i quali eziandio non trovarono le arti e le scienze vive e giovani in un popolo libero, ma ormai invecchiate e cortigiane nella reggia di Alessandria; onde furono imitatori e di non ottimi esempi. Un solo scrittore originale a me pare che essi ebbero, e fu Tacito, povero di arte, ma ricchissimo di senno tutto romano.

XVIII. Il sapere dei Greci nei due suoi elementi del vero e del belio fu vasto assai: pure il suo carattere proprio non è la vastità, ma l’armonia di questi suoi elementi, la quale è appunto la sua perfezione. Quest’armonia era ancora tra tutto il sapere, e la sua principale forma, la lingua, che facile e melodiosa esprimeva mirabilmente tutti i moti e gli atteggiamenti del pensiero. Il sapere, come la luce, tende a diffondersi per ogni verso: ed il Greco senti un certo istinto di portarlo in tutte le parti e di propagarlo con ogni mezzo. Infatti dal favoloso Giasone sino ad Alessandro, il Greco sente il bisogno di uscire del suo paese, lanciarsi sul mare, frugare in tutti i seni del Mediterraneo, fondare colonie su tutte le rive, dove s’accasa, e porta la religione, la lingua, i costumi, il governo, gli usi della sua patria, insegna a tutti e non impara da nessuno, si mescola con tutti e rimane sempre greco schietto. Oggi gl’Inglesi hanno il medesimo istinto, portano la lingua loro e la civiltà di Europa nelle più remote regioni della terra, e sia sotto il polo, sia nei bollori della zona torrida rimangono sempre inglesi. Le colonie greche non furono punto inferiori alle città donde uscirono, anzi talune divennero più potenti e più ricche, [p. 32 modifica]ed accrebbero il comune patrimonio del sapere. Le colonie italiche ebbero due grandi scuole di filosofia, la pitagorica e l’eleatica; furono prime insegnatrici di eloquenza, trovarono e perfezionarono la commedia, portarono le arti ed il lusso a mirabile squisitezza in Taranto e in Sibari; e difesero in Sicilia la libertà di tutti i Greci combattendo contro i Cartaginesi ad Imera nello stesso giorno che fu combattuto a Salamina. Le colonie d’Asia si gloriavano della prima filosofia insegnata da Talete fondatore della scuola ionica, ebbero il primo grande storico, e forse il primo ed il massimo dei poeti. E quasi in ogni città delle tante che i Greci fondarono in ogni regione, nacquero ingegni potenti nelle scienze e nelle arti: e così il sapere per il lavorio di tanti intelletti che avevano la stessa natura, ma in diversi luoghi e modi e per diversi aspetti contemplavano la verità e la bellezza, crebbe come da un sol tronco in molti rami e produsse maravigliosi frutti. Ma poi che la civiltà greca fu fatta e compiuta, il pensiero seguendo sua natura e sempre più aprendosi e dilargandosi, scioglie l’armonia greca, per comporre un’armonia assai più vasta. I re Tolomei raccolgono in Alessandria gli studi, gl’ingegni, e le gentilezze: ma il Greco aveva perduta la sua personalità e si andava nell’umanità confondendo; però il sapere si era allontanato dalla vita reale ed era rimasto un’astrazione: la filosofia spaziava in ispeculazioni sterili e sottili, le arti non più creatrici e libere si affaticavano nella critica e nell’erudizione. Ora dobbiamo considerare a che stato era giunto nel secondo secolo lo scadimento della filosofia e delle arti.

XIX. Nel mondo antico la filosofia, come scienza, fu solamente dei Greci; i quali avendola applicata al Cristianesimo, la insegnarono ai moderni popoli [p. 33 modifica]di Europa cominciando dall’osservazione della natura, vennero a discoprire il più segreto ed intricato lavorio dello spirito, e le leggi che lo governano, che pur sono quelle che governano l’universo: e riguardando la verità nei suoi diversi momenti, si divisero in sètte, ciascuna delle quali prelendeva di avere scoperta la verità, e di conoscerla pienamente, mentre non ne vedeva che un lato particolare. Da prima venerarono questa scienza con una specie di culto religioso, perchè ella era umanata ed incarnata in tutta la vita; e i filosofi scrivevano le leggi alle città, ne regolavano i consigli, ammaestravano e beneficavano le moltitudini ignoranti ed obbedienti: tali furono i Pitagorici in Italia, Licurgo a Sparta, Solone e Pittaco annoverati tra i sette savi. Ma le moltitudini quanto più s’istruivano, tanto meno avevano bisogno di maestri: altri uomini di conoscenze pratiche e speciali ne governavano la politica, ne difendevano la libertà, ne accrescevano le ricchezze, ne facevano ammirare la gloria: la scienza allora fu distinta dalle opere, rimase nella vita interna, nella vita morale ed intellettuale, e fu rispettata, perchè giovava ancora: se non che quando parve contrastare alla vita reale, destò lo sdegno della moltitudine che condannò a morie Socrate e Focione. Eppure la scienza, per essere perfetta come scienza, doveva interamente staccarsi dalla vita reale, diventare una pura astrazione, e giungere fino a negare sè stessa, per poi affermarsi in una forma più ampia e riabbracciare la realtà vera tuttaquanta. Erano già dilargate assai le cognizioni, i bisogni cresciuti, e la scienza che andava più e più disciogliendosi da ogni legame con la vita, non poteva correggere quei costumi, soddisfare a quei bisogni, e contentare gli avidi intelletti; e rimase inutile, e però fu disprezzata, anzi talora odiata [p. 34 modifica]da molti che la credettero nociva alla virtù operativa, specialmente i Romani che la conobbero quando ella era giunta a questo termine. A ciò si deve aggiungere che i filosofanti, che avevano la mente fuori del mondo, e non intendevano i bisogni del mondo, prosumevano stoltamente di dare leggi e consigli agli uomini, che ormai ne sapevano più di loro, erano migliori di loro, e non volevano le loro astrazioni. Questa a me pare la cagione per la quale la prima scienza generatrice di tutte le altre fu tanto spregiata e generalmente abborrita dagli uomini discreti di quel tempo. Ella non era più; e noi che da lontano riguardiamo al secondo secolo, vediamo che ella aveva già compiuto il suo primo periodo, e pareva sterile, perchè stava per entrare in un altro momento, per ringiovanire con l’idea cristiana, e rinnovare il mondo.

XX. Fra le tante dottrine filosofiche, tre specialmente erano più sparse nel secondo secolo, l’Epicureismo, lo Stoicismo, e lo Scetticismo: le altre erano ristrette nelle scuole, nei libri, e nelle solitarie speculazioni di pochi studiosi.

La dottrina di Epicuro intesa nel suo più largo senso, come certo l’intendeva il temperatissimo e savio suo fondatore, la dottrina del piacere non pure fisico ma intellettuale e morale come sommo bene dell’uomo, è la dottrina più veramente greca fra tutte le altre, perchè è l’espressione della vita greca, di ciò che i Greci sentivano e facevano; di che Epicuro trovò l’idea principale, e ne formò una dottrina. Ma i puri e nobili godimenti intellettuali e morali non erano per tutti, e chi poteva goderne, li trovava assai scemati per la perduta libertà, il guasto costume, il sentimento religioso distrutto, le arti scadute: i soli godimenti fisici restavano facili e voluti dai principi come [p. 35 modifica]strumenti di servitù: e però godere di questi soli, fu tenuto sapienza epicurea. Così fu calunniato un grande e virtuoso filosofo, come autore di una dottrina che pone a sommo bene il piacere sensuale, e fa dell’uomo una bestia docile ad ogni tirannide. Ma noi vediamo che pochi sennati uomini che conoscevano la vera dottrina, ebbero in grande venerazione il filosofo osservatore profondo della natura e valentissimo nelle conoscenze fisiche: la moltitudine sciocca ne spregiava il nome, e spregiava sè stessa che bestialmente vivea.

Contro questa corruzione, e contro la dottrina che indirettamente l’aveva originata, surse tra le altre la magnanima dottrina degli Stoici: i quali insegnavano, che soli piaceri veri sono gl’intellettuali, sola forza vera è la ragione, che il solo savio è libero, è ricco, è bello, è forte, è re, ed ogni cosa, che tutti gli sciocchi sono servi, tutti i delitti sono eguali; che niente è lecito fare, neppure levare un dito, se la ragione noi concede.10 Questa teorica era l’estremo opposto della vita reale, pretendeva fare dell’uomo un puro ragionevole, ne sconosceva le passioni e l’immaginazione che sono tanta parte della vita, e non poteva discendere nella pratica e nella moltitudine. Epperò ella fu ultimo rifugio ai pochissimi onesti che avevano a schifo le lordure onde erano circondati; ed ai generosi, che perduta la liberta vera, si sottraevano dalla comune servitù ritirandosi in sè stessi, vivendo in una libertà astratta, e morendo da forti: ma fu ancora un’insegna sotto la quale si accolsero grandissimo numero d’ipocriti, di furbi e di ribaldi, che sogliono seguire sempre le opinioni più estreme per nascondersi più facilmente. Gli uomini di senno pratico che vedevano la volpe [p. 36 modifica]sotto il mantello del filosofo, e sapevano che nel mondo non si vive di astrazioni, non si lasciavano abbagliare dalle apparenze, e ridevano di una dottrina che non bastava ai buoni, e giovava tanto ai tristi. Questa dottrina fu comune tra i Romani più che le altre, perchè essi apprendendo filosofia quando erano già corrotti e quando questa era già declinante, non ebbero che due dottrine a seguitare: o l’Epicureismo o lo Stoicismo; due vie a tenere, o andando a seconda del secolo sprofondarsi nei piaceri ed aggradire ai potenti, o opponendosi al secolo vagheggiare una libertà astratta, e far guerra agli oppressori; o vivere corrottamente come Mecenate ed Orazio, ricchi e cari ai padroni, o morire incontaminati come Catone, Bruto e Trasea. Il principio dello Stoicismo si accordava al modo onde i Romani concepivano il diritto, alla loro indole severa, e porgeva certa utilità nella fierezza dei tempi: però fu professato dai più eminenti Romani, i quali si svenavano con lo stoico a lato che ragionava dell’immortalità dell’anima e della libertà.

Il Greco che era vissuto nella sua armonica unità nazionale, non aveva avuto valore individuale: ciascuno aveva operato nella città, nella tribù, nella fratria cui apparteneva, e aveva pensato nella scuola cui egli seguitava. Quell’unità si ruppe, perchè l’uomo sentì di avere un valore per se medesimo; quindi operò da sè solo, e pensò con la sua ragione propria. Ed ecco lo scetticismo, filosofia di liberi intelletti, la quale si va spargendo nella moltitudine e diventa pratica, perchè ormai nel mondo la libertà era il gran bisogno cui si doveva soddisfare, e l’uomo in ogni cosa sentiva di avere un valore per sè solo. Specie di anarchia intellettuale è questa, che, come la politica, è inevitabile e necessaria quando si rinnova uno stato: e allora [p. 37 modifica]rinnovavasi il genere umano. I Romani diedero all’uomo un valore pel diritto, i Greci un valore per la bellezza, il Cristianesimo un valore per lo spirito: però lo scetticismo fu il precursore necessario del Cristianesimo, e fu non pure la dottrina dei più sennati, ma il sentimento del secolo, la comune pratica degli uomini.

XXI. Queste dottrine filosofiche vi erano, ma filosofi non vi erano. La scienza antica era compiuta, e giunta sino alla negazione di se stessa; per ricominciare un altro corso aveva bisogno di altri uomini con altre idee; e i pochi veri cultori di quella scienza antica non potevano fare nulla di nuovo, dovevano star contenti a sporre, dichiarare, ampliare, applicare più largamente le verità conosciute. E questi erano anche rari, perchè la tirannide imperatoria, la corruzione dei costumi, e la superstizione avevano spenti i mighori, infiacchite le anime più salde, perseguitato ogni specie di sapere. Onde nel primo secolo non è a parlare di filosofi; e tra i Romani non vedi altro che Seneca, tipo di tutti gli altri, vecchio cianciatore di stoicismo, che vendè lingua, coscienza e onore a Nerone, e n’ebbe cinque milioni e mezzo, e poi la morte. Nel secondo secolo i buoni imperatori tentarono di ristorare gli studi, fondando biblioteche, dando onori, uffici e stipendi ad ogni specie di studiosi; ma, a dire di Tacito, come i corpi crescono a poco a poco e muoion subito, così gl’ingegni e gli studi è più agevole spegnere che richiamare: e le arti tutte e le scienze hanno loro vicenda per cagione propria ed intrinseca, non per odio o favore di governanti. Se togli Epitteto, Marco Aurelio, e pochi altri, i rimanenti erano una turba d’impostori e di furfanti degnissimi di frusta. Bastava mettersi un mantello indosso, farsi crescer la barba, sciorinar massime trite sul disprezzo delle ricchezze, scagliarsi contro di tutti per farsi tenere un [p. 38 modifica]filosofo. La più nobile delle scienze era diventata un mestiere; ed ogni ciarlatano, ogni tristo, ogni dappoco l’esercitava; e ne faceva mercato nelle vie, nelle piazze, nei bagni, ai conviti dei grandi, nelle aule imperatorie. Spento il vero sapere, le forze dell’ingegno, che erano vive e dovevano operare, si volsero alla ciarlataneria: e i Greci che avevano ingegno pronto e rigoglioso, ed erano facili parlatori, seppero fare mirabilmente quest’arte, e furono astrologi, maghi, indovini, impostori celebratissimi. Ingannatori ed ingannati insieme essi dominavano su le deboli intelligenze dei Romani, governarono l’animo sospettoso di Tiberio, animarono Nerone e Otone a prender l’impero, persuasero a Vespasiano che aveva la virtù di risanare gli storpi, rimescolarono a posta loro il credulo animo di Adriano. La virtù dell’intelligenza non si volgeva a contemplare la verità, ma a disputare di argomenti sciocchi e vuoti, a vincere l’avversario, a sorprendere tutti con furberie divinatorie: e così si preparavano le dispute teologiche del secolo seguente. Se gli uomini giudiziosi avevano qualche ragione di non credere in quella filosofia, avevano tutte le ragioni del mondo a vituperare e sprezzare quei filosofi. Si può dire che il saper vero di quel secolo era negativo, era non altro che conoscere la falsità di quei prosuntuosi saccenti.

XXII. Le arti non erano in miglior punto. Nella generale dissoluzione del sapere, della religione, e dei costumi l’idea della bellezza si era disciolta anch’essa, non appariva più presente e viva, ma era lontana e morta: quindi non più creazioni, ma imitazioni delle opere antiche, sposizioni, critiche, cementi, vocabolari, precetti, ed altri lavori letterarii, non di arte. Ma possiamo noi dire veramente che bellezza non v’era affatto, e che nessuna anima ne sentiva neppure un [p. 39 modifica]raggio? Non è ella una rivelazione celeste che viene all’anima in ogni tempo, e in ogni luogo? Io dico che non v’era quella bellezza che nasce dall’armonia generale della vita, non v’era quel fiume di luce che viene continuo nell’anima dell’artista, e da questa si riflette e si spande intorno a lui: la vita era brutta, e la sua rappresentazione non poteva essere bella interamente, lo dico che vi poteva essere, e vi fu, qualche anima che nella bruttezza di quella vita scorgesse un lume di bellezza e lo rappresentasse: ma questo fu e sarà sempre privilegio di pochissimi; la moltitudine, benchè corrotta, poteva avere qualche sentimento, qualche pensiero non ignobile, ma breve come lampo, sì che l’arte appena poteva coglierlo e dargli una forma. Il pensiero poetico sì vasto ed armonizzato in Omero, sì grave e solido nei tragici, così vario e lucente nei comici, viene a confondersi e minuzzarsi nell’epigramma, che piace sempre alla moltitudine, e non è luce, ma favilla poetica. Nella vita adunque non vi era bellezza, e però non vi furono artisti che la rappresentassero: quello che v’era, il male e l’errore, fu rappresentato nelle due forme possibili, o nudamente nella storia, in opposizione del vero e del bene nella satira: la prima forma appartiene più ai Romani, la seconda più ai Greci, che non perdettero mai quel loro senso, e la memoria della bellezza onde erano impressi dentro.

La tirannide dei primi Cesari aveva cercato di spegnere sinanco la coscienza del genere umano: e quando dopo le guerre civili ed il regno di Domiziano apparve tempo men reo, e cessò quell’angoscia mortale che stringeva il cuore e opprimeva tutte le forze dell’anima, gli uomini si trovarono dimentichi di ogni buona arte, e, come Plinio afferma di sè stesso, si [p. 40 modifica]accorsero che non sapevano più parlare. Come poterono rilevare il capo e respirare, non seppero altro che narrare la storia dei dolori e delle vergogne sofferte. Cornelio Tacito la narrò da sennato romano e da consolo; Svetonio da retore; entrambi atterriti da quell’immenso cumulo di mali che essi avevano veduti o uditi, e che dopo tanti secoli fanno ancora spavento a chi li legge. Giovenale li dipinse nelle sue satire che sono acute strida di dolore, sfogo di un’anima generosa che si vede gettata a vivere fra tutte le sozzure e le abiezioni d’una età maladetta. Terribili pittori son questi, cui mancò l’arte, non l’ingegno nè la materia. Lo sgomento sentito dai Romani in quel tempo, e manifestato dai pochi loro scrittori, non era nei Greci, che da più secoli avevano perduta la libertà e provati non minori mali, e allora vivevano nella muta stanchezza della servitù, contenti di nuovi dritti avuti dai Romani, delle antiche loro istituzioni municipali, e lontani dai furori delle belve imperatorie. I loro savi non potevano altro che raccogliere e serbare le gloriose memorie del passato, quasi a vergogna del presente, nel quale non trovavano nulla di bello e di grande da mostrare agli avvenire. Plutarco nella solitudine di Cheronea, sdegnando di vedere l’intelligenza soggetta ad una forza stolta e turpemente feroce, e sentendo che i Greci anche servi erano maggiori dei loro fortunati padroni, ardì di fare non una storia, ma un paragone fra i due popoli. I punti di questo grande paragone sono gli uomini illustri, che danno occasione a parlare di leggi, di religione, di arte militare, di politica, di eloquenza, e di tutta la civiltà dei due popoli più difTusamente che non si saria potuto in una storia: e perchè il paragone riuscisse più compiuto e più vero, discese a riferire la vita privata, i detti e i fatti dei grandi uomini, e così fece meglio [p. 41 modifica]conoscere essi e le loro nazioni. Opera bella e vasta, fatta da un uomo savio ed amabile, il cui concetto non poteva nascere se non quando fra i due popoli cominciava a disputarsi di quel primato, che indi a poco fu del popolo intelligente: e la forma, se non è della sobrietà e perfezione antica, è sempre greca e conveniente ai tempi. Le sue opere morali poi sono un raccolto di quanto i Greci sapevano in quel tempo: non vi trovi una dottrina propria dello scrittore, nè fine critica, ma gran copia di cose dette assai piacevolmente. Un’altra raccolta copiosissima di cognizioni letterarie è l’opera intitolata i Dipnosofisti, ossia il Banchetto de’ savi, scritta da Ateneo. Questi, nativo di Eucrate in Egitto, uomo di molti studi, e di molta dottrina, ricordando il tempo de’ Tolomei, certamente bello per un Egiziano, quando i letterati di tutte le contrade erano accolti alla mensa reale, immaginò un banchetto in casa di un ricco signore, dove convengono letterati, scienziati, ed artisti, e ragionano di ogni cosa. Ateneo ha i vizi di Plutarco, poco giudizio proprio e poca arte, ma non ha le virtù, non ha quella placida e continua vena di parole che escono dal pieno petto del savio di Cheronea. Entrambi rappresentano una parte del loro secolo, le cognizioni: ma questo secolo fu rappresentato da un grande scrittore, il quale fu solo ed unico, perchè unica era la forma artistica onde quel secolo si poteva rappresentare. Questi fu Luciano, solitario poeta, che con amaro sorriso cantò la dissoluzione che gli era intorno.

XXIII. Luciano apparteneva ad una classe di uomini, che avevano tra i Greci molta importanza; e questi erano i sofisti, dai quali egli si staccò e fece parte per sè stesso. Le citta greche sebbene private della loro independenza, pure conservavano le loro istituzioni, i senati, e le ecclesie o comizi, nei quali si [p. 42 modifica]dibattevano molte e gravi faccende riguardanti la giustizia, la elezione di alcuni magistrati, e la religione: molti interessi erano ancor vivi, e purchè non si toccasse quello che concerneva i padroni, si poteva parlare liberamente; anche perchè i Greci con bel garbo parlavano, ed ai bei parlatori si suole concedere certa licenza. L’eloquenza però era coltivata come utile e necessario strumento di vita civile; e si studiava negli antichi, e si cercava di accomodarla all’uso moderno. La lingua da Demostene a Luciano, cioè per cinque secoli, anzi fino a Libanio che visse due secoli dopo, non mutò grandemente, perchè i Greci insegnavano e non imparavano idee e parole: e la loro lingua sino ad un certo tempo seguì solamente le vicende del loro pensiero, non si corruppe per introduzione di elementi forestieri. Il sapere era nei costumi, che sopravvivono anche alla perdita della libertà: e però i Greci anche nella servitù ebbero una classe di uomini intelligenti e bene parlanti, i quali se non potevano discutere dei grandi interessi dello stato, che danno tanta altezza alla mente e tanta forza alla parola, avevano nondimeno ampia materia a ragionare degli interessi particolari di ciascuna città, e della filosofìa, e delle arti, e delle scienze, e di ogni cosa che toccava la vita greca. Questi sofisti difendevano cause, discutevano di leggi, si mescolavano nelle pubbliche faccende, ragionavano di filosofia, insegnavano eloquenza ai giovani, recitavano dicerie alla moltitudine nelle pubbliche adunanze, nei teatri, nei giuochi solenni o in alcune case costruite a questo fine, e talvolta ancora parlavano improvviso sopra argomenti che loro erano proposti. In tempo che non v’erano molti libri, nè si poteva leggere le opere nuove, si correva da ogni parte a udire i sofisti, i quali col mezzo della parola acquistavano fama, autorità, [p. 43 modifica]onori e ricchezze, erano provvisionati dalle città per insegnare ai giovani le lettere e la filosofia, erano consultati nei pubblici bisogni, andavano ambasciatori ai principi alle città, e spesso ancora ebbero province a governare. Nè la loro importanza era solamente nella Grecia; ma dovunque si cercava di acquistare gentilezza e sapere si chiamava un sofista greco. In Roma non v’era casa di patrizi in cui non fosse un sofista, che educava i giovani, consigliava tutti, e confortava a morire con fortezza di animo. L’imperatore Traiano quando tornò dalla guerra contro i Daci, si teneva dietro sul cocchio trionfale il sofista Dione, quasi volendo significare che a questo savio ed egli ed il popolo romano dovevano quella vittoria. In Gallia erano celebri le scuole greche di Marsilia, di Autun, di Lione, e vi andavano anche giovani romani a studio; e la scuola di Marsilia vantavasi di Favorino lodalo filosofo gallo. In Bretagna ed in Ispagna e in Pannonia e per tutto si davano ricchi stipendi dalle citta a retori, a filosofi, a medici greci. Egli è naturale che essendo la profession di sofista così impestante e lucrosa, ve ne fosse un grandissimo numero; dei quali pochi erano buoni, ed i più abusavano dell’ingegno e del nome; e fra tanta corruzione di costumi fossero maestri d’imposture, ministri di scelleratezze e di turpitudini. E però il nome di sofista, che dapprima significò savio, maestro di filosofia e di eloquenza, passò dipoi a significare impostore, ingannatore e tristo. Ma sieno buoni, sieno cattivi, i sofisti erano uomini considerevoli, perchè principali diffonditori del sapere: e troppo leggermente sono accusati di avere impettegolita l’eloquenza con le loro declamazioni, dicerie che essi componevano e davano a comporre ai giovani sopra argomenti immaginari, e spesso sciocchi e strani. Le declamazioni sono certamente una [p. 44 modifica]falsa eloquenza, e a noi spiacevole: ma bisogna considerare che era la sola eloquenza possibile in quel tempo. Taluno dirà con Tacito, che sub Nerone silentium pro sapientia fuit; ma se il tacere è la prima virtù del servo che non deve pensare, non tutti possono e debbono tacere, e di ogni cosa: e val meglio adoperare l’ingegno in qualche cosa, che lasciarlo morire d’inerzia. Certamente le rassegne, le mostre, e gli esercizi militari in tempo di pace non mostrano nei soldati il valore, che si spiega solamente nella guerra: ma quando guerra non v’è, si ha pure in qualche pregio chi è valente negli esercizi. Non bisogna confondere l’eloquenza vera, e l’eloquenza di esercizio: l’una e l’altra ha il suo pregio: e se le declamazioni riuscirono sciocche ed insulse, se ne deve riconoscere la cagione nella generale confusione del pensiero e dei sentimenti, non in una classe di uomini, tra cui erano anche i savi, i discreti, e gli eloquenti.

XXIV. Possiamo adunque conchiudere che il secondo secolo fu senza mali violenti, ma tutto guasto nei costumi, e senza fede religiosa: le scienze, le lettere, e le arti erano sparse per tutto, ma senza grandi savi né grandi artisti: tutti i popoli con le loro idee, i loro sentimenti, e le loro istituzioni andavano confondendosi e mescolandosi, e già appariva la necessità inevitabile di un generale mutamento. Tutto questo secolo, questo ammasso di errori e di lordure ci è dipinto da Luciano; il quale da queste tenebre dispicca luce, da queste sozzure trae la bellezza.





Note

  1. Storia de’ costumi dei Romani nei due primi secoli dell’era cristiana.
  2. Commodo si faceva chiamare Paulo, nome di famoso gladiatore che egli fece imprimere anche su le sue monete. Vedi Gibbon, Storia, cap. IV.
  3. Un simile bosco circondava il tempio di Venere in Gnido, ed è descritto negli Amori tra le opere di Luciano.
  4. Storia Augusta, pag. 245.
  5.          Mercuri facunde, nepos Atlantis,
                Qui feros cultus hominum recentum
                Voce formasti catus, et decoræ
                         More palestræ ec.

    Hor.


    Questo Mercurio, come la poesia d’Orazio, è d’imitazione greca. Il Mercurio romano, detto da mercor, era dio de’ soli guadagni, e delle trappolerie nel mercanteggiare. Il greco Ermete è da ἔρω, dico, onde nascono molte parole greche che significano parlare, interpretare, eloquenza ec.

  6. Mi ricorda di aver letto una sentenza di Cicerone (forse nel libro De Oratore), che il libretto delle Dodici Tavole conteneva più sapienza che tutti i libri dei filosofi.
  7. Papiniano ed Ulpiano, i due più grandi giureconsulti, furono Prefetti del Pretorio: ed Ulpiano fu ucciso in una sedizione de’ soldati.
  8. Vedi Tacito nella Vita di Agricola.
  9. Lelio si vergognò di comparire autore delle commedie che vanno sotto il nome di Terenzio, africano, e servo. Un forestiero non poteva scrivere con quel sapore di urbanità, nè un servo con quella gentilezza.
  10. Nil libi concessit ratio, digitiim exsore, peccas.

    Persio.