Opere (Lorenzo de' Medici)/IX. La caccia col falcone

IX. La caccia col falcone

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IX

LA CACCIA COL FALCONE


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1

     Era giá rosso tutto l’oriente
e le cime de’ monti parien d’oro:
la passeretta schiamazzar si sente
e ’l contadin tornava al suo lavoro:
le stelle eran fuggite, e giá presente
si vedea quasi quel ch’amò l’alloro.
Ritornavansi al bosco molto in fretta
l’allocco, il barbagianni e la civetta.

2

     La volpe ritornava alla sua tana
e ’l lupo ritornava al suo diserto;
era venuta e sparita Dïana;
però forse saria suto scoperto.
Avea giá la sollecita villana
alle pecore e ai porci l’uscio aperto.
Netta era l’aria, fresca e cristallina,
e da sperar buon dí per la mattina.

3

     Quando fui desto da certi romori
di buon sonagli ed allettar di cani:
— Or su andianne presto, uccellatori,
perché gli è tardi e i luoghi son lontani:
il canattier sia ’l primo ch’esca fuori,
acciò che i pié de’ cavalli stamani
non ci guastassin di can qualche paio:
deh! vanne innanzi, presto, Cappellaio. —

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4

     Adunque il Cappellaio nanzi cammina:
chiama Tamburo, Pezuolo e Martello,
la Foglia, la Castagna e la Guerrina,
Fagiano, Fagianin, Rocca e Capello,
e Friza e Biondo, Bamboccio e Rossina;
Ghiotto, la Torta, Viola e Pestello,
e Serchio e Fuse e ’l mio Buontempo vecchio,
Zambraco, Buratel, Scaccio e Pennecchio.

5

     Quando hanno i can di campo preso un pezzo,
quattro seguivan con quattro sparvieri:
Guglielmo, che per suo antico vezzo
Sempre quest’arte ha fatto volentieri;
Giovanni Franco, e Dionigi il sezzo,
ché innanzi a lui cavalca il Foglia Amieri;
ma, perché era buon’ora la mattina,
mentre cavalca Dionigi inchina.

6

     Ma la Fortuna, che ha sempre piacere
di far diventar brun quel ch’è piú bianco,
dormendo Dionigi fa cadere
appunto per disgrazia al lato manco;
sí che cadendo addosso allo sparviere,
ruppegli un’alia e macerolli il fianco:
questo gli piacque assai, benché nol dica,
ché gli par esser fuor di gran fatica.

7

     Non cade Dionigi, ma rovina,
e, come debbi creder, toccò fondo;
ché, com’un tratto egli ha preso la china,
presto la truova com’un sasso tondo.
Disse fra sé: — Meglio era stamattina
restar nel letto, come fe’ Gismondo,
scalzo e in camiscia sulle pocce al fresco:
non c’inciampo mai piú, se di quest’esco.

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8

     Io ebbi pure un poco del cucciotto
ad uscire staman per tempo fuori:
ché s’io mi stavo, come il Birria, sotto,
facea per me e per gli uccellatori
che si saria meglio ordinato e cotto,
e la tovaglia coperta di fiori:
meglio è straccar la coltrice e ’l piumaccio
che il cavallo, e guastar l’uccello in braccio.

9

     Intanto vuol lo sparviere impugnare,
ma gli è sí rotto che non può far l’erta,
perché i frascon cominciano a cascare,
e da l’un lato pendea la coverta;
pur Dionigi il voleva aiutare,
ma, rassettando la manica aperta,
le man ghermilli; e lui sotto sel caccia,
saltolli addosso, e fenne una cofaccia.

10

     — Dov’è ’l Corona? Ov’è Giovan Simone? —
dimanda Braccio — ov’è quel del gran naso? —
Braccio rispose: — A me varie cagione
fatto han ch’ognun di loro sia rimaso.
Non prese mai il Corona uno starnone,
se per disgrazia non l’ha preso o a caso:
se s’è lasciato adunque, non s’ingiuria;
menarlo seco è cattiva auguria. —

11

     — Luigi Pulci ov’è, che non si sente? —
— Egli se n’andò dianzi in quel boschetto,
ché qualche fantasia ha per la mente:
vorrá fantasticar forse un sonetto;
guarti, Corona, che, se non si pente,
e’ barbottò staman molto nel letto,
e sentii ricordarli te, Corona,
ed a cacciarti in frottola o in canzona. —

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12

     Giovan Simone ha giá preso la piega
d’andarne sanza dire agli altri addio;
sanza licenzia n’è ito a bottega,
di che gran sete tiene e gran disio.
Luigi, quando il fiero naso piega,
cani e cavalli adombra e fa restio;
per questo ognun che resti si contenta;
ciò che lo vede fugge e si spaventa.

13

     Restono adunque tre da uccellare,
e drieto a questi andava molta gente;
chi per piacer, chi pur per guardare,
Bartolo ed Ulivier, Braccio e il Parente,
che mai non vidde piú starne volare:
ed io con lor mi missi; parimente
Pietro Alamanni e il Portinar Giovanni,
che pare in sulla nona un barbagianni.

14

     Strozzo drieto a costor, come maestro
di questa gente, andava scosto un poco;
come quello che v’era molto destro,
e molte volte ha fatto simil gioco.
E tanto cavalcammo pel silvestro,
che finalmente fummo giunti al loco
piú bel che mai vedesse creatura:
per uccellar l’ha fatto la natura.

15

     E’ si vedeva una gentil valletta,
un fossatel con certe macchie in mezzo,
da ogni parte rimunita e netta;
sol nel fossato star possono al rezzo:
era da ogni lato una piaggetta,
che d’uccellar facea venir riprezzo
a chi non avessi occhi, tanto è bella:
il mondo non ha una pari a quella.

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16

     Scaldava il sole al monte giá le spalle,
e ’l resto della valle è ancora ombrosa,
quando, giunta la gente in su quel calle,
prima a vedere e disegnar si posa,
e poi si spargon tutti per la valle;
e perché a punto riesca ogni cosa,
chi va co’ can, chi alla guardia, al getto,
sí come Strozzo ha ordinato e detto.

17

     Era da ogni parte uno sparviere
alto in buon luogo da poter gittare;
l’altro a capo ne va del canattiere,
e alla brigata lo vorrá scagliare;
era Bartolo al fondo ed Uliviere
ed alcun altro per poter guardare
a mezza piaggia e in una bella stoppia:
il Cappellaio ai can leva la coppia.

18

     Non altrimenti quando la trombetta
sente alle mosse il lieve barbaresco,
parte correndo, o, vuo’ dir, vola in fretta;
cosí i cani, che sciolti son di fresco:
e se non pur che ’l canattier gli alletta,
chiamando alcuni, ed a chi scuote il pesco,
sarebbe il seguitarli troppa pena:
pur la pertica e il fischio li raffrena.

19

     — Tira, buon can, su; tira su, cammina;
andianne, andianne; torna qui, te’, torna:
ah! sciagurato Tamburo e Guerrina,
abbiate cura a Serchio che soggiorna;
ah! bugiardo, ah! poltron; volgi, Rossina:
guata buon can, guata brigata adorna!
te’, Fagiano; oh che volta fu mai quella! —
in questo modo il canattier favella.

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20

     — State avveduti. Ah! Scaccio, frulla, frulla:
e che leva cacciando l’amor mio?
ma io non veggo però levar nulla,
e n’ha pur voglia e n’ha pur gran disio.
Guarda la Torta lá che si trastulla.
O che romor faranno! e giá ’l sent’io.
Chi salta e balla e chi le leverá,
di questi cani il miglior can será.

21

     Io veggo che Buontempo è in sulla traccia:
ve’ che le corre e le fará levare:
abbi cura a Buontempo, ché le caccia;
parmi vederle e sentirle frullare:
benché e’ sia vecchio assai, non ti dispiaccia;
ch’io l’ho veduto e so quel che sa fare;
io so che ’l mio Buontempo mai non erra.
Ecco; a te, Ulivier; guardale a terra.

22

     Guarda quell’altra all’erta, una al fossato:
non ti diss’io, che mi parea sentille?
guardane una alla vigna e l’altra allato,
guardane dua da me, guardane mille. —
Alla brigata prima avea gittato
Giovan Francesco, ed empieva le ville
di grida e di conforti al suo uccello:
ma per la fretta gittò col cappello.

23

     — Ecco, Guglielmo, a te una ne viene:
cava il cappello, ed alzerai la mano;
non istar piú, Guglielmo; ecco, a te; bene. —
Guglielmo getta e grida; — Ahi! villano. —
Segue la starna, e drieto ben le tiene
quello sparviere e in tempo momentano
détte in aria forse cento braccia;
poi cadde in terra, e giá la pela e straccia.

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24

     — Garri a quel can — Guglielmo grida forte —
che corre per cavargnene di piè; —
e però che le pertiche eran corte,
un sasso prese, ed a Guerrina die’:
poi corre giú, sanz’aspettar piú scorte;
e quando presso allo sparvier piú è,
non lo veggendo, cheto usava stare,
per udir se lo sente sonagliare.

25

     E cosí stando, gli venne veduto:
— Presto — grida, — a cavallo: e’ l’ha pur presa: —
lieto a lui vanne destro ed avveduto,
come colui che l’arte ha bene intesa;
preseli il geto e per quel l’ha tenuto;
dálli il capo, e ’l cervello non li pesa;
sghermillo, e l’unghia e ’l becco gli avea netto;
poi rimisse il cappello e torna a getto.

26

     Giovan Francesco intanto avea ripreso
il suo sparviere e preso miglior loco;
pârli veder che a lui ne venga teso
uno starnone; e come presso un poco
gli fu, egli ha tutte le dita esteso,
e gittò come mastro di tal gioco:
giunse la starna; e perché era vecchia,
si fe’ lasciare, e tutto lo spennecchia.

27

     In vero egli era un certo sparverugio
che somigliava un gheppio, tanto è poco;
non credo preso avesse un calderugio:
se non faceva tosto, o in breve loco,
non avere’ speranza nello indugio:
quando e’ non piglia, e’ si levava a gioco;
e la cagion che quel tratto e’ non prese,
fu, che non vi avea il capo e non vi attese.

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28

     Intanto venne uno starnone all’erta:
videlo il Foglia e fece un gentil getto:
lo sparvier vola per la piaggia aperta,
e présegnene innanzi al dirimpetto:
corre giú il Foglia, e pargnene aver certa,
però che lo sparvier molto è perfetto:
preselo al netto, ove non era stecco,
e in terra insanguinolli i piedi e ’l becco:

29

     e questo fe’, ché lo sparviere è soro.
Ed intanto Ulivier forte gridava:
— Chiama giú il Cappellaio, chiama costoro.
Guardate; una n’è qui (cosí parlava);
tu lega i can, però che basta loro
la Rocca che di sotterra le cava.
Vien giú, Guglielmo, non ti stare al rezzo:
e tu e ’l Foglia la mettete in mezzo. —

30

     Cosí fu fatto; e come sono in punto,
il canattier diceva: — Sotto, Rocca:
qui cadde, ve’: e se tu l’arai giunto,
siesi tuo: corri qui; te’, ponli bocca. —
Poi dice: — Avete voi guardato a punto? —
Ed in quel lo starnon del fondo scocca:
— Ecco a te, Foglia — e ’l Foglia grida e getta,
e ’l simil fe’ Guglielmo molto in fretta.

31

     Lasciò la starna andare lo sparvieri,
ed attende a fuggir quel che gli ha drieto:
disse Guglielmo: — Tu l’hai, Foglia Amieri;
e, benché nol dimostri, e’ n’è pur lieto:
— Corri tu, che vi se’ presso, Ulivieri; —
diceva il Foglia; e Guglielmo sta cheto:
corse Ulivieri; e come a loro e sceso,
vidde che l’un sparviere ha l’altro preso.

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32

     Quel del Foglia avea preso per la gorga
quel di Guglielmo, e crede che ’l suo sia,
perché a Guglielmo tal parole porga:
— La tua è stata pur gran villania:
non credo a starne lo sparviere scorga,
ma a sparvieri: egli è troppa pazzia
a impacciarsi uccellando con fanciulli:
questi non son buon giochi o buon trastulli. —

33

     Guglielmo queto sta, e gran fatica
dura a tener l’allegrezza coperta;
pur con umil parole par che dica:
— Io non lo viddi, e questa è cosa certa; —
e questo piú e piú volte riplica.
Intanto il Foglia avea giá sceso l’erta;
e come alli sparvieri è prossimano,
quel di Guglielmo è guasto, il suo è sano.

34

     E getta presto il suo logoro in terra:
lo sparvier non men presto vi si pose:
e come a vincitor in quella guerra,
vezzi li fa ed assai piacevol cose.
Vede intanto Guglielmo che lui erra,
e guasto il suo sparviere; onde rispose
al Foglia: — Tu se’ pur tu il villano; —
ed alzò presto per dargli la mano.

35

     Ma come il Foglia s’accorse dell’atto,
scostossi un poco, acciò che non li dessi.
Disse Guglielmo al Foglia: — Tu se’ matto,
se ne credi andar netto; e s’io credessi
non far vendetta di quel che m’hai fatto,
credo m’impiccherei: e s’io avessi
meco Michel di Giorgio o ’l Rannuccino,
attenderesti ad altro, cervellino. —

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36

     Il Foglia innanzi alla furia si leva
e stassi cheto, ed ha pur pazienza;
e altro viso e parole non aveva
quel che aspettava in favor la sentenza
e poi subitamente la perdeva.
Disse Guglielmo: — Voglio aver prudenza:
terrolla a mente in sino all’ore estreme,
e rivedremci qualche volta insieme. —

37

     Giá il sole in verso mezzo giorno cala
e vien l’ombre stremando che raccorcia;
dá loro proporzione e brutta e mala,
come a figura dipinta in iscorcia:
rinforzava il suo canto la cicala
e ’l mondo ardeva a guisa d’una torcia:
l’aria sta cheta ed ogni fronde salda
nella stagion piú dispettosa e calda.

38

     Quando il mio Dionigi tutto rosso,
sudando, come fassi un uovo fresco,
disse: — Star piú con voi certo non posso:
deh vientene almen tu, Giovan Francesco!
Ma venitene tutti per ir grosso;
troppo sarebbe fiero barbaresco
chi volessi or, quando la terra è accesa,
aspettar piú per pascersi di presa. —

39

     E detto questo, dié volta al cavallo
sanza aspettar Giovan Francesco ancora:
ciascun si mette presto a seguitallo,
ché ’l sol tutti consuma e divora;
il Cappellaio vien drieto, e seguitallo
i bracchi, ansando con la lingua fora:
quanto piú vanno, il caldo piú raddoppia;
pare appicciato il foco in ogni stoppia.

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40

     Tornonsi a casa chi tristo e chi lieto:
e chi ha pieno il carnaiuol di starne,
alcun si sta sanza, ed è tristo e cheto,
e bisogna procacci d’altra carne:
Guglielmo viene dispettoso a drieto,
né può di tanta guerra pace farne:
Giovan Francesco giá non se ne cura,
ché uccella per piacere e per natura.

41

     E giunti a casa, riponeva il cuoio
e i can governa e mette nella stalla
il canattier: poi all’infrescatoio
trovasi ognuno co’ bicchieri a galla.
Quivi si fa un altro uccellatoio,
quivi le starne alcun non lascia o falla.
Pare trebbiáno il vin, sendo cercone;
sí fa la voglia le vivande buone.

42

     Il primo assalto fu sanza romore:
ognuno attende a menar la mascella;
ma poi, passato un po’ il primo furore,
chi d’una cosa, chi d’altra favella;
ciascuno al suo sparvier dava l’onore,
cercando d’una scusa pronta e bella:
e chi molto non fe’ con lo sparviere,
si sforza or qui col ragionare e bere.

43

     Ogni cosa guastava la quistione
del Foglia con Guglielmo: onde si leva
su Dionigi con buona intenzione,
e in questo modo a Guglielmo diceva:
— Vuo’ ci tu tôr tanta consolazione?
e benché il caso stran pur ti pareva,
fa che tu sia, come son io, discreto,
ché averai il mio sparvier; e statti cheto. —

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44

     Queste parole e questo dolce stile,
perché Guglielmo l’ama, assai li piace;
e perché gli era pur di cor gentile,
deliberò col Foglia far la pace;
onde li disse con parole umíle:
— Star piú teco non voglio in contumace
e voglio in pace tutto sofferire. —
Fatto questo, ciascun vanne a dormire.

45

     E quel che si sognassi per la notte,
quello sarebbe bello a poter dire,
ch’io so ch’ognun rimetterá le dotte;
insino a terza vorranno dormire.
Poi ce n’andremo insieme a quelle grotte
e qualche lasca farem fuora uscire.
Cosí passò, compare, lieto il tempo,
con mille rime zucchero ed a tempo.