Notizia bibliografica intorno alle Ultime lettere di Iacopo Ortis/VI. Werther e Ortis

VI. Werther e Ortis

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V. Pareri de' letterati su le Ultime lettere VII. Effetti morali del libro

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VI. Werther e Ortis

Assai delle opinioni riferite nel paragrafo antecedente sarebbero, con poca mutazione, applicabili al Werther e all’Ortis. Ma la piú forte questione verte: «Se il libro italiano sia imitazione»; e, in questo caso, «se ceda o sovrasti al modello». Fu chi, non potendo fondare le sue congetture sopra fatto veruno, si studiò di cavarne delle probabili da una ipotesi, ed è: che alle volle si trovano due figure umane sì fattamente simili l’una all’altra, da non poterle a prima vista discernere. E, non ostante la diversitá delle loro patrie e della loro educazione e degli accidenti, che hanno in quegli individui eccitato differenti passioni e modo differentissimo di sentire, ed hanno quindi variamente alterato la tensione e il moto de’ muscoli ne’ loro volti, s’è pur costretti ad ammirare la volontá della natura, la quale serba patenti sempre in que’ volti le somiglianze; e non solamente nelle parti, nella forma e nel permanente carattere, ma non di rado anche nelle variazioni accidentali della loro fisonomia. Non si può dunque trattar come assurda l’ipotesi che la natura abbia voluto creare degli individui dotati d’organi intellettuali della stessa tempra e dello stesso vigore e con la stessa tendenza, i quali osservino le cose umane a uno stesso modo e ne ricavino le medesime conseguenze, e quindi le esprimano con le sole diversitá degl’idiomi che scrivono. In questo caso è probabile che due autori, senza che l’uno abbia mai conosciuto l’altro, né lette le opere sue, compongano due libri dove si ammiri in tutte le sue parti ed in tutti i suoi moti la stessa fisonomia di anima. La probabilitá si convalida allorché tutti e due non narrano se non cose le quali accadono quotidianamente e in molte famiglie d’ogni paese. E la probabilitá acquista de’ gradi di certezza, se questi autori esprimono affetti che hanno provato o attentamente esplorato negli altri. Finalmente, ove i due libri, simili in tutto il resto, siano dissimili in alcune parti piú essenziali, e che portino il marchio di certi distintivi d’ingegno e d’animo originali e assolutamente individuali, la certezza delle congetture diverrá tale, che bisogneranno de’ fatti a distruggerla. Quindi il critico ammette [p. 133 modifica] che lo scrittore dell’Ortis non abbia mai letto il Werther1. Ecco adunque de’ fatti, i quali, se da una parte danno favore, dall’altra danno un gran crollo all’ipotesi. E s’è detto altrove2, ed è attestato, come quasi tutte le lettere d’amore furono scritte, quali ora si leggono nel libro, ad una fanciulla e a un amico da un giovine di poco piú di vent’anni, il quale non aveva letto il Werther. Aggiungeremo che, come si trova nel documento citato, il giovane verso quel tempo intraprese di vendicare in qualche modo la patria sua trafficata da’ francesi, e quanto scrisse restò disordinato a frammenti; come pure restarono a frammenti molti pensieri, ch’egli, costretto dalle sue disperate passioni, andava scrivendo con bollente malinconia giovanile onde persuadersi al suicidio, al quale s’era apparecchiato ed accinto; e aveva anche scritto alcune delle lettere che sono verso la fine del libro, e sentite le perturbazioni e gli affetti, cosí per l’appunto come nelle ultime pagine si descrivono da Lorenzo3. Non molto dopo, [p. 134 modifica] in quelle lettere e in que’ frammenti lo scrittore esaminò tutto lo stato passato della sua mente e delle sue viscere; e, persuaso pure delle opinioni morali e politiche che vi erano esposte, e sentendosi tuttavia commosso da alcuni di que’ fogli d’amore, si dispose d’ordinare ogni cosa in un libro; e richiese la giovane gentildonna e l’amico, che ne serbavano molti piú, specialmente di materie politiche, depositati per sospetto d’inquisizioni domestiche; e, compilato il volume, lo dava alle stampe, sotto il nome del giovine di casato Ortis ammazzatosi in Padova: se non che gli venne allora sott’occhio una traduzione italiana del Werther. Percosso dalla somiglianza, non tanto de’ due caratteri, quanto delle forme sotto le quali l’uno e l’altro si presentavano, e de’ frangenti quasi consimili in cui s’erano ambedue ritrovati, e piú ch’altro dal suicidio preparato, con differenze notabili quanto a’ moti dell’animo, ma con molte azioni rassomiglianti; e udendo inoltre quanta celebritá aveva quell’operetta, e temendo che non troverebbe vergine l’immaginazione de’ lettori, si sconfortò per allora di pubblicare il suo libro. Bensí, irritato continuamente dalle miserie della sua patria, lasciò correre alcuni di que’ frammenti che risguardavano lo stato d’Italia; e furono pubblicati in una gazzetta, che venne tre o quattro mesi dopo proibita4. Poscia lo scrittore italiano osservando piú addentro l’operetta tedesca, s’accertò, malgrado la traduzione, ch’egli aveva e sentito ed espresso diversamente le proprie passioni. Ed era pur conscio in se stesso di non avere cavato che dalle proprie circostanze, dalla sua propria mente in tumulto e dal suo carattere individuale le cose che aveva scritte, e quando non prevedeva che ne avrebbe mai fatto un libro. Ma vide altresí che l’autore tedesco, o per [p. 135 modifica] sagace esperienza dell’arte o per ispirazione del genio, aveva trovato un semplicissimo mezzo d’ammaliare i lettori, e senza che mai potessero discoprirlo. Werther soffrendo e spassionandosi sempre egli solo con un solo amico, il lettore non é mai distratto dalla persona ignota e inoperosa che riceve le lettere, e diventa egli stesso amico del misero giovine, e gli par d’essere suo confidente e in carteggio con esso; cosí che ne deriva la piú semplice insieme e la piú diretta e la piú attiva unitá che mente umana potesse ideare5. All’autore tedesco, il quale intendeva principalmente di mostrare la storia giornaliera del cuore d’un giovine innamorato e di obbligare tutti i lettori a osservarla commossi, questo espediente era utilissimo; ma all’autore dell’Ortis indispensabile e necessario. Perché l’Ortis, non essendo agitato da una sola passione, e discorrendo di piú oggetti, e con opinioni tutte sue, e spesso contrarie a’ principi delle persone a cui scriveva, deviava sopra quelle persone i lettori e offendeva il decoro. E infatti nel primo disegno del libro l’Ortis scriveva or all’amico suo, or a sua madre, ora alla fanciulla, ora al padre di lei; onde, quanto allo stile e alla perpetua impulsione che gli avvenimenti e le passioni davano d’ora in ora a quel giovine verso al suicidio, ne veniva una tal quale unitá; ma la magia della unitá adottata dall’autore tedesco non v’era. Onde lo scrittore italiano riprese ad architettare con ogni diligenza il suo libro e a dirigere tutte, da due o tre in fuori, le lettere al solo Lorenzo, stando esattissimo al modello tedesco; e gli accaddero due cose, forse degne della riflessione di quanti scrivono a cuore freddo, «onde calcolare per l’appunto», com’essi dicono, «i mezzi di commovere i cuori». L’una si è: che, volendo egli aggiungere alcuni materiali necessari alla nuova architettura, e che insieme non fossero dissimili alle cose giá scritte, ha bensí potuto frammettere in via d’episodi alcuni aneddoti ricavati dalla sua memoria, narrandoli per l’appunto com’ei gli aveva veduti e co’ sentimenti che gli avevano [p. 136 modifica] lasciato; ma, volendo parlare in quel modo stesso d’amore o d’idee malinconicamente filosofiche, non gli venne mai fatto: benché fosse appena passato l’anno che la tempesta del suo cuore fosse acquetata, e ne sentisse ancora l’ondeggiamento. L’altra si è: che, per dare a’ materiali giá preparati la debita convenienza con la nuova disposizione, lo scrittore si studiò di ridurli all’ordine e al colorito del Werther; e, per l’ordine, gli bastò traslocarli, dividere una lettera in due, farne una sola di due o tre; ma, quanto al colorito, non gli riusciva che di guastarlo, e li lasciò com’erano dianzi. Trovò migliore espediente di levare via de’ materiali, che, quantunque fossero stati dettati dalla passione, non gli parevano corrispondenti al nuovo disegno; e s’è poscia doluto di non averne levati assai piú, fra’ quali il Frammento della storia di Lauretta6. Però avrebbe scemato assai cose dalle edizioni susseguenti, s’ei non tenesse per sistema invariabile di non mutar mai (se non poche e inosservabili cose, come vocaboli e modi di dire) ne’ libri giá pubblicati, e molto meno nelle lettere d’un uomo che, secondo l’opinione di molti, non vive piú. Da questo ragguaglio l’ipotesi sovrascritta parrebbe distrutta. Per altro v’è ne’ due libri tanto di quel foco primitivo, che non può né essere umanamente trasfuso mai in chi non l’ha, né mai ricevuto; e prorompe con tali rassomiglianze insieme e dissomiglianze, da far dire che l’ipotesi non è tanto assurda quanto un po’ troppo applicata. Certo è che, se l’uno degli autori avesse in tutto imitato l’altro, non avrebbe potuto far mai discernere la propria originalitá. Il maggior numero de’ censori, stando piú alle forme esteriori somigliantissime che all’intrinseca differenza, avevano da principio ne’ giornali di letteratura e nelle gazzette confuso l’Ortis con tutte le altre imitazioni triviali del Werther; e con tanta asseveranza, che, se la calca dei lettori non li avesse smentiti, nessun libraio si sarebbe addossata la ristampa di quel romanzo. Que’ censori7 non hanno [p. 137 modifica] posto mente a una veritá antichissima, veduta da tutti ed eloquentemente esposta da molti, e che qui si potrebbe esprimere forse con maggior precisione cosí: «La natura imita sempre in tutti i suoi lavori se stessa, e li distingue ad uno ad uno e li fa nuovi e mirabili per mezzo di pochissime, minime e spesso impercettibili varietá». Dove la natura imita invariabilmente se stessa, le arti sue imitatrici non possono togliere, aggiungere, variare mai nulla. Bensí maggiore pittore o poeta è colui che sorti tale anima da sentire vivamente gli effetti delle «varietá» sparse sopra gli oggetti della natura, e tale ingegno da osservarlo prontissimo, e tale giudizio da saperle applicare dove convengono. Queste tre facoltá, riunite, equilibrate, vigorosissime in uno stesso individuo, e operanti simultaneamente, non giá per industria o per forza di regole, bensì con la spontaneitá con che opera la stessa natura, par che costituiscano il genio. L’arte, imitando la creazione invariabile, coglie il vero; ma il genio coglie l’ideale, indovinando, radunando e distribuendo sopra un solo oggetto, con le stesse leggi e con la stessa spontaneitá della natura, le varietá ch’ella ha sparso sopra diversi oggetti, o che ella avrebbe potuto creare e spargere, onde rendere piú belle le opere sue. L’ideale, scompagnato dal vero, non è che o stranamente fantastico o metafisicamente raffinato; ma, senza l’ideale, ogni imitazione del vero riescirá sempre volgare, e non avrá né la grazia delle figure del Correggio, né la divina beltá della Venere de’ Medici o della Madonna dalla Seggiola, né il sublime dell’Apollo di Belvedere. L’Apollo come figura umana è tutta realmente vera; ed è insieme ideale, per una riunione, che non si può analizzare e si sente, d’infinite bellezze, che potrebbero essere state sparse (e forse le ha sparse talvolta) dalla natura sopra un solo individuo, ma che pur non si veggono mai; e il genio ha saputo o vederle, o indovinarle, e poi raccoglierle e disporle in guisa da farle irresistibilmente sentire a chiunque getta l’occhio su quella statua. Ma, il fondamento capitale dell’arti essendo pur sempre il vero reale, accade di necessitá che, quando uno l’ha primamente colpito ed ha pigliato tal metodo da non trovarsene uno migliore, non rimane agli artefici successivi fuorché il merito della perfezione ideale; merito nondimeno per cui spessamente acquistano piú lode che non il maestro, il quale ha loro dato antecedentemente l’esempio, e da cui avranno forse anche copiato il «vero reale» che non potevano copiare diversamente dalla natura, o, se non altro, hanno certamente proceduto col [p. 138 modifica] medesimo metodo. Eschilo compose la tragedia d’Oreste che uccide la madre. Sofocle, Euripide, contemporanei, e poscia altri greci, de’ quali non restano le opere, trattarono lo stesso argomento, e molti latini, e moltissimi fra’ moderni, e fra’ recenti Voltaire e l’Alfieri. Nessuno potea dipartirsi dal fatto; nessuno volle assegnare a’ personaggi interessi o passioni o caratteri d’animo differenti dagli assegnati da Eschilo; parve a tutti che il primo imitatore della natura avesse colpito il vero; parve anche che nella orditura avesse trovato un metodo proprio all’intento8: ma sentiva altresí ciascheduno d’essi che avrebbe potuto successivamente trovare nuove e piú naturali e piú efficaci le varietá, onde migliorarne a poco a poco sino alla perfezione la parte ideale. E l’Oreste dell’Alfieri, che è l’ultimo d’epoca, prescindendo da molte varietá di grandissimo effetto, n’ha una essenziale, per cui in questo soggetto anche i critici, che non lodano il suo stile e il suo sistema tragico, confessano ch’ei per quel solo ritrovato merita d’essere primo fra i poeti dell’antico parricidio d’Oreste9.

Il libretto tedesco e l’italiano rappresentano un suicida de’ nostri tempi. Tutti due hanno non solamente comune la pittura reale e gli accessorii che, dati i fatti avvenuti ed osservati dall’uno e dall’altro degli autori, non potevano essere molto diversi10; [p. 139 modifica] ma hanno parimente comune il metodo, ed in ciò la prima lode spetta a chi primo l’ha ritrovato. Né qui trattasi di sapere se per manifestare il cuore di un suicida non siavi altro metodo se non questo, ch’ei scriva le sue lettere ad una sola persona; né si potrebbe asserire che il libro italiano sarebbe con la sua prima orditura riescito o migliore o peggiore: basti che l’effetto dell’invenzione di Goethe è riescito ne’ due libri infallibile. Trattasi bensí di vedere quanto il secondo scrittore abbia alterato, migliorato o accresciuto il metodo. Or, esaminando le varietá nelle forme,e aggiungendo anche le considerazioni piú ovvie su le varietá essenziali che costituiscono la parte tutta propria al secondo scrittore, ogni lettore potrá giudicare da sé quanta imitazione e quanta originalitá siavi nell’Ortis. Il Guglielmo, che riceve le lettere di Werther, non è altro che nome; cosicché l’autore narra gli avvenimenti che il protagonista non avrebbe potuto scrivere. Lorenzo invece è uomo, che, senza richiamare a sé l’animo del lettore, consiglia nondimeno e compiange e rispetta il suo misero amico; ne riceve le lettere, le conserva, le dispone, le pubblica; v’aggiunge in via di schiarimento un ragguaglio delle cose da lui vedute o avverate, e, dove non le sa, lascia alle volte delle lacune; finalmente giustifica la fiducia che l’Ortis aveva in lui: da che Lorenzo si mostra di carattere assai piú moderato, ma, quanto alle opinioni politiche, affatto conforme, e corre gli stessi pericoli: e narra le cose in guisa da [p. 140 modifica] non lasciar traspirare il proprio dolore, affinché non pregiudichi alla sinceritá del racconto. Pare dunque che in questa parte il metodo sia stato migliorato, e che nel romanzo italiano il lettore, non che vedere la penna d’un autore, non possa neppur sospettare che altri, fuorché l’amico dell’Ortis, abbia potuto essere l’editore del libro. L’amore per una fanciulla eccita idee piú naturali, piú vereconde e piú amabili, e riscaldate di fiamma piú pura che non l’amore per una maritata. Teresa, inclinandosi con tutta l’anima verso l’Ortis, e con libera volontá, nasconde da principio l’amor suo piú per senso d’ingenuo pudore che per rimorso o per coscienza di colpa. Quand’essa apre il suo cuore a suo padre, ogni lettore da quel minimo cenno: «Mio padre sa tutto»11, s’avvede come la dissimulazione era oramai intollerabile a quella fanciulla e come incominciava a sentirsi colpevole. Il suo contegno, ch’era da principio sincero e pieno d’affettuosa fiducia verso l’Ortis, diventa di giorno in giorno piú riservato: e, dopo la sera che l’amore l’aveva quasi condotta ad abbandonarsi al suo amante, la giovine, che pure non parla quasi mai, la vediamo sempre piú afflitta e severa. E, mentre ella si arma della fiera costanza inspiratale dal suo amante, gl’inspira maggior furore di possederla e maggiore pietá per l’innocenza di lei. Ben pare che a lui il sacrificio di rispettare la virtú di Teresa gli rincresca talvolta; ed ora pare ch’ei n’abbia certa compiacenza orgogliosa, ora la virtú della giovine lo fa vaneggiare miseramente ne’ dubbi s’egli sia riamato da lei12. Ma la modesta e indulgente virtú di Teresa traspare da un atto solo, allorché gli dice: — «Non posso essere vostra mai! — e pronunciò queste parole dal cuore profondo e con un’occhiata, con cui parea rimproverarsi e compiangermi»13. La lettura de’ poeti, l’entusiasmo per le idee sublimi conferiscono alle lettere amorose dell’Ortis un non so che di platonico; non però asconde i desidèri veementi e i deliri notturni, che ardono l’uomo innamorato14. Pochi giorni innanzi, [p. 141 modifica] il rimorso e la compassione l’aveano distolto da baciare Teresa, ch’ei trovò addormentata15; e la sera ch’ei la baciò, quest’azione, anziché essere distolta, fu provocata da discorsi delicati e innocenti sull’amore purissimo del Petrarca16. L’amore nell’Ortis è malattia, di cui egli s’avvede sin da principio, e la nutre da sé come diversione di piú dure passioni, le quali, esacerbandogli l’anima di rabbia impotente, che lo avvilisce davanti a sé, non gli lasciano nessuna speranza di soddisfarle, e quindi nessun alimento alla vita. Ama una fanciulla, la quale, con le virtú angeliche ch’ei vede in essa e con le secrete illusioni di felicitá che adulano ogni uomo sciaguratissimo, gli presta dolcezza di sensi e coraggio da non precipitarsi verso il sepolcro. Ma non sí tosto s’accerta che Teresa è moglie d’altri, e ch’ei deve o perdere la dolcezza di quell’amore, o temere di non essere piú riamato da lei, o in ogni modo non amar che una adultera, delibera di morire. E ne’ diciotto o venti giorni, che si frappongono dal decreto all’esecuzione del suicidio 17, la sua passione lo tenta alle volte a feroci proponimenti, sino ad indurre la giovane donna al suicidio, o a trucidarle il marito18. Tale (si perdoni la frase al bisogno) è la razza primitiva dell’anima di quell’individuo, che gl’ingeniti moti di amor proprio e di compassione de’ mali altrui, le idee acquisite dalla societá e dalle lettere, i sensi d’amore ispiratigli dalla bellezza e dalla virtú, pigliano nella sua fantasia uno spirito or generoso che lo innalza sopra la comune degli uomini, or una attivitá violenta al pari del suo carattere: cosí che, s’ei non ne fosse dissuaso dal sentimento perpetuo ch’egli ha della vanitá della vita, le sue passioni lo costringerebbero alle azioni prodotte dal furore amoroso e dalla gelosia ne’ selvaggi. Il giovane Werther è carattere della stessa specie, e di razza anch’ei primitiva: non però «è fuso — come l’autore della sovra cennata ipotesi disse elegantemente — per autoritá della natura senza concorso d’arte umana nella medesima stampa». Ben la natura n’ha piena autoritá; e forse cosí ha fatto spesso, e fa. Ma ne’ loro libri Werther e l’Ortis sono individui tanto diversi fra loro, quanto la specie, comune ad entrambi, è diversa dalle tante altre specie, o piú generose o piú vili, le quali compongono il [p. 142 modifica] genere umano. L’uno e l’altro autore mostrasi d’avere cavato il «vero reale» dalla specie; e in ciò il secondo autore ha pigliato l’arte dal primo. Bensí quanto alle «varietá», sia caso, sia attenta osservazione fatta sopra i due individui dipinti19, sia vigore di genio diverso, la parte ideale è tutta propria di ciascheduno, come pure il metodo con che in questa parte l’uno ha proceduto differentemente dall’altro. L’amore nel Werther, anziché ristoro ricercato ne’ guai, si insinua nell’anima sua, allettata dalla beatitudine e dalle allegre speranze, che ingannano amabilmente la fantasia della gioventú. E, bench’ei sia quasi dell’etá stessa dell’Ortis, né la troppa esperienza della societá né il troppo fervore di mente l’avevano ancora levato da quello stato felice, in cui l’Ortis diceva d’essersi trovato nella sua prima gioventú, quando «avrebbe voluto poter versare de’ fiori su le teste di tutti i viventi»20. Il carattere sdegnoso, che a poco a poco assume il giovine Werther, deriva, senza ch’ei se ne avvegga, dalla irritazione che gli dava una passione dolcissima e occulta, e ch’ei non potea soddisfare. Onde le sue riflessioni non assumono che a poco a poco delle tinte di misantropia, e non gli escono di bocca se non suo malgrado e ne’ momenti che il suo cuore è piú esacerbato; e per lo piú la sua collera non s’arresta che sugl’individui. Nell’Ortis invece partono, quasi fossero sistematiche, dalla mente, e si estendono a tutto il genere umano. E, mentre il primo, come innocente che si quereli della ingiustizia, ci chiama ad intenerirci; l’altro, come nunzio funesto del destino, che ravvolge noi tutti negli stessi errori e nelle stesse miserie, ci riempie del suo terrore e della sua collera, e talvolta della sua sconsolata disperazione. Non sí tosto l’Ortis vede Odoardo, lo guarda con tal freddezza da lasciar traspirare il disprezzo: pur tenta ne’primi giorni d’avvicinarsegli21; ma l’anima intollerante s’arretra adirata dall’anima che non le somiglia; e quel primo disprezzo verso Odoardo si conserva nell’Ortis sino all’estremo, senza menomarsi, né crescere, né alterarsi in guisa veruna; e, quantunque l’altro abbia i diritti di sposo promesso, l’Ortis assume la [p. 143 modifica] superioritá di riamato amante, e non parla del suo rivale se non perché teme la futura infelicitá di Teresa. Ma Werther, benché s’innamori di Carlotta ancora fanciulla, e senta come l’anima di lei sia in dolce armonia con la sua, non ha cuore di dolersi, fuorché sommessamente, delle nozze di lei: s’affeziona ad Alberto con lealtá; e, quando questi possiede Carlotta, Werther crede sinceramente ch’ella sia moglie felice, e si fa sempre piú amico del marito, e, non che venirgli allora nell’animo ch’ei vorrá forse un giorno tradire l’ospitalitá, par ch’ei non sappia neppure che la sua passione potrebbe turbare la tranquillitá de’ due sposi. Cosí l’amore nel Werther è malattia, che s’insinua piacevole e cresce invisibile sino alla cancrena: e, quando il misero s’accorge della insopportabile angoscia, tenta, ma non è piú in tempo, di risanarla; e allora la misantropia diventa piú amara assai che nell’Ortis: e questi al contrario, quanto piú si rassegna ad abbandonare la vita, tanto piú mostra pietá e indulgenza per gli altri. Il grande merito, che ne’ gradi lentamente crescenti della passione ha l’autore tedesco, non gli può essere oramai conteso da nessun critico; e la sua lode maggiore si è che il carattere dell’amore nel suo protagonista ha tanta combinazione d’affetti e semplicitá insieme e veritá desunta da’ cuori giovanili, quali specialmente si veggono a’ nostri giorni, che tutti i lettori ne sono colpiti e nessun ha bisogno d’indagarne il perché. Non v’è giovine ingenuo, creato dalla natura e raffermato dall’educazione ad essere onesto, che non cominci ad innamorarsi con disinteresse, e che poi non cammini a gran passi verso i deliri del vizio, avendo, per cosí dire, gli occhi abbagliati dalla virtú. E, non per tanto, tutto è reale e tutto insieme è ideale in questo carattere, temprati da sí felice armonia che non si saprebbe distinguerli mai. Per altro a Werther bisognava una donna un po’ diversa da Carlotta. Chi la raffronterá a quante oggi si veggono comunemente, la troverá piú reale di Teresa, e perciò appunto s’accorgerá che le manca molta bellezza ideale. La dissimulazione, alla quale Carlotta è dal suo matrimonio necessitata; la compiacenza, come Dante notò, d’

esser baciata da cotanto amante,

sentimento secretissimo di tutti i cuori femminili, ma che in Carlotta non è purificato da un caldissimo amore22; quell’altro stato, [p. 144 modifica] secreto parimenti in molte donne maritate, quantunque tutte di buona fede lo neghino, di nutrire due amori, benché in apparenza diversi (infatti il lettore è perplesso se ami Werther a un tempo e il marito), sono circostanze che quanto piú si conoscono desunte dalla natura volgare, tanto piú si vorrebbe che fossero nobilitate dal vero ideale. Carlotta ha un entusiasmo, che scoppia assai piú, e piú graziosamente, che non da Teresa. Anzi tutto quello che dice la giovine amata dall’Ortis, o che, dato il suo carattere, avrebbe potuto dire, non potrebbe sostene23. La tacita obbedienza filiale della fanciulla italiana è men commovente della religiosa pietá di Carlotta, la quale ama Alberto, e lo sposa per obbedire agli estremi consigli della madre, che moribonda l’avea raccomandata a quell’uomo. Pur questi bei sensi ideali sono smentiti da parecchi altri, che, quanto sono piú concludenti, tanto piú si veggono premeditati dal raziocinio freddissimo o dallo stato consueto del cuore di quella donna; e allor l’entusiasmo, col quale aveva parlato, sembra vampa passeggiera, appigliatasi in lei dall’ardore di Werther e ostentata con vanitá femminile. Ma, quando quell’ardore le si approssima piú pericoloso, essa, che non l’aveva provato mai, tenta di respingerlo co’ freddi ragionamenti che esacerbano a morte il suo amante, come se una massa di ghiaccio si frapponesse a un incendio inestinguibile. «Ei digrignava i denti e guatavala tetro. Essa il prese per mano: — Werther! — dicevagli — non foss’altro un momento, un solo momento di riflessione posata. Non v’avvedete che v’ingannate da voi? che vi precipitate a occhi aperti? Perché me, Werther? me per l’appunto? sí, me possessione d’un altro! me per l’appunto! Ho paura, ho paura che la impossibilitá di possedermi attizzi in voi tanto ardore di [p. 145 modifica] desiderio24. — E poco dopo: — Perché non cercate alcuna altra degna di voi?». — Nessuno mai ha sviscerata l’indole d’una donna quanto il signor Goethe in queste poche parole, ma di donna volgare. La veritá, che costei dice al suo amante, è profonda, ma il modo è crudele. Carlotta non «s’ingannava fors’ella da sé»? e, ingannandosi, non aveva «ingannato Werther»? L’amante esagera, ma non si lascia sfuggire dagli occhi i sentimenti della donna amata. Da tutte le riflessioni, che Carlotta fece poi dopo, «sentí sorgere nel suo secreto distintamente il desiderio di tenersi Werther per sé». Né si fatto desiderio poteva essere nato quel giorno; né stare sí occulto che non traspirasse a un amante, né sí innocente che un’anima «candida» come Carlotta non dovesse adombrarsene sino da’ primi giorni. Il misero Werther dunque non s’ingannava da sé. Ma, quand’anche Carlotta si fosse sentita purissima nella coscienza, il furore di Werther in quel frangente avrebbe suggerito al cuore d’un’altra donna di raddolcirlo, non giá col rimedio di vani consigli, bensí co’ conforti della pietá. Una donna innamoratissima non avrebbe pensato mai a quella «impossibilitá»; una donna delicata, e che non amasse che suo marito, avrebbe insieme avuto rispetto a se stessa e compassione all’amante, e non avrebbe proferito mai quella parola; una donna nello stato identico di Carlotta, ma d’indole un po’ piú gentile, non avrebbe mai detto a Werther che si cercasse un’altra amante. Carlotta avvilisce l’amore, che non vede perfetta che una sola persona25; [p. 146 modifica] avvilisce se stessa, e non di buona fede, accomunandosi a tante altre; avvilisce l’amante, facendogli obbliquamente sentire ch’ella non crede sí forte l’amor suo, com’egli vorrebbe mostrarle. L’insultante freddezza di tutti quei consigli fu sí velenosa nel giovine, che infatti, appena gli ebbe ascoltati, si deliberò di morire. L’autore dunque è pittore esatto e maestro, conobbe tutti i secretissimi ripostigli della mente di quella donna, sentí l’efficacia di quel discorso, e trattò la scena in guisa che nessuno potesse emularlo. Pur si domanda: «Quel carattere di Carlotta l’ha egli, o no, creduto plebeo? o piuttosto, come pare dalla sua vita, non l’ha egli stesso sperimentato realmente col suo proprio dolore?» Chi rispondesse alla prima interrogazione: «L’autore ha saputo dipingere ciò che ha veduto e come lo ha veduto, e il quadro esce di grandissimo effetto», non vi sarebbe da replicare. Ma chi, all’altra interrogazione, affermasse, resterebbe forse interdetto dalla replica desunta dal fatto, ed è che «per l’autore quel carattere fu sorgente d’angosce, ma non di morte»; e chi invece negasse, incolperebbe l’autore d’avere fatto che un giovine di cuore sí finamente temprato simpatizzasse con la freddezza di quella femmina e ne perisse. Inoltre, rappresentandola con amabili colori che illudono i lettori inesperti, e apponendo tutte le colpe del suicidio all’anima acciecata di Werther, e nessuno alla donna, l’autore potrebbe essere tacciato d’avere o non saputo o non voluto far discernere gli artifici che si possono dir naturali, invisibili, di tante altre di pari carattere, le quali pur vivono in societá, ingannando gli amanti, i mariti, il mondo e se stesse. Ma quest’ultima censura è inopportuna alla questione26. Per le altre, basta distinguere: se trattasi di opporre carattere a carattere di beltá vera insieme e ideale, anzi individuo a individuo vivente, Teresa è bellissima, e par chiamata in iscena piú per distôrre che per indurre al suicidio un amante. Infatti l’Ortis, distolto lungamente da essa, s’uccise per anteriori cancrene di cuore e per suo proprio decreto; anticipato da piú mesi, assegnandone l’esecuzione al tempo in cui Teresa sarebbe serva d’un altro e non potrebbe piú consolarlo. Se poi trattasi di ritrarre al vivo l’indole femminile, quale è spesso a’ di nostri, e ricavarne il maggiore effetto tragico possibile, molti fatti giovano d’eccezione e distruggono quasi la regola, che un [p. 147 modifica] uomo d’animo generoso non s’uccide per donnicciuole; molti fatti riducono quasi a regola che l’apparenza d’ingenua amabilitá e la pusillanimitá, che spesso acquista titolo di modestia, giustificano l’imprudenza, la vanitá e la tarda saviezza di molte giovani donne; finalmente nessun carattere forse e nessun autore avrebbe fatto risultare mai tanto effetto. E all’autore bastò: non si curò dell’analisi critica, che, scomponendo i lavori del genio, sa piú distruggerli che rifarli: non ha creduto numerosi i lettori che si offendono della natura volgare, e forse ebbe ragione. Ma la piú alta delle ragioni si è ch’egli offeriva un racconto di semplicissima tessitura a una nazione nuova in letteratura e insieme avvezza a romanzi complicatissimi; e tanto piú ha dovuto giovarsi di colpi che vanno piú addentro nel cuore dei piú. Che s’egli avesse temuto di rincrescere ai pochi, avrebbe perduto un altro di que’ colpi, e il piú fiero. Quando Carlotta consegna le pistole con le quali Werther deve ammazzarsi, e il marito le ordina di non indugiare, i lettori sanno che Alberto ignora lo stato di Werther, ma sanno altresí che Carlotta n’ha degl’indizi, e, non foss’altro, un tremendo presentimento 27. La veggono perplessa a pigliare e a dare quell’armi, e, nelle strette o di rivelare ogni cosa al marito, o di non tentare di salvare l’amante, consegna l’armi e non parla. Il suo silenzio muove a pietá molti lettori, perché lo ascrivono a necessaria rassegnazione; e muove all’ira quei pochi, che lo ascrivono al calcolo di tepido cuore. Fra questi i piú delicati, che hanno risentito ad uno ad uno in sé i moti interni di tutti i personaggi, veggono che la gelosia giusta del marito aveva avvilito Carlotta, che la tristezza di Werther l’aveva atterrita; che quindi, per liberarsi da questo orribile stato di vita, raccolse le forze naturalmente deboli e poche dell’anima sua a dare i consigli che sospinsero il giovine nel sepolcro; né essa aveva piú forze; e quell’avvilimento e quel terrore la rattenevano a invocare la pietá del marito per l’amante, a cui essa manda tremando quelle armi. E dicono: mentr’essa nel dare silenziosa quell’armi, muove a pietá mista a disprezzo; chi s’uccide con quell’armi, muove a pietá mista a sdegno. Che se avesse avuto piú compassione all’amante, piú rispetto alla propria fama, piú riguardi al vero riposo futuro di suo marito, piú [p. 148 modifica] generositá, non foss’altro di pronto rimorso, che timore per sé, non le sarebbe sembrato cosa impossibile l’impetrare il soccorso di Alberto per Werther o l’avrebbe, non foss’altro, implorato. Finalmente que’ rari, educatisi a leggere con tanta delicatezza di senso e insieme con raffinatezza di gusto, ascrivono a Werther un desiderio vendicativo di squarciare l’anima della donna che lo strascina ad uccidersi: da che non avrebbe dovuto mandare a cercare l’armi in casa di lei, e, quando anche sí fatto desiderio fosse veramente in natura, è ad ogni modo incoerente al carattere di quel giovine e alla tenerezza con che ei scriveva alla sua donna l’ultima lettera. E davvero, quella scena delle armi dovrebbe, per chiunque è capace di notomizzare sí acutamente un libro, convertire la compassione in subitaneo ribrezzo: se non fosse che, quando uno acquista sí fatta capacitá, rarissimamente è atto a provare, leggendo, compassione o ribrezzo, né alcuna commozione improvvisa, bensí ogni altro lettore è còlto dalla pietá e dal ribrezzo riuniti in un sentimento nuovo, solo, contemporaneo; né può distinguere in Werther altro che un uomo dotato di belle qualitá d’animo, e che. condotto al sepolcro sul fior dell’etá con de’ sintomi terribili da una passione cara e necessaria a noi tutti, ci sforza a piangere ed a tremare. E vogliam pure ridirlo. L’analisi, oltre a’ difetti qui notati del signor Goethe e a quelli dell’autore italiano, riferiti sul principio del precedente paragrafo, ne scoprirebbe assai piú ne’ due libri; perché, disfacendoli in minime parti, fa loro smarrire la vita, il moto e il calore che hanno quando compongono un tutto. Or eccoci a’ due suicidii; i quali, siccome erano lo scopo a cui sin dal principio gli autori tendevano, cosí sono i punti capitali del paragone. La assoluta diversitá delle due catastrofi (coerentissime ciascheduna a’ mezzi ed al metodo con cui fu condotta) svelerá la diversitá dell’intento e del genio e della maniera de’ due romanzi. La critica scoprirá forse due inconvenienti; ma sará ad un tempo costretta a giudicarli indispensabilmente come necessari all’effetto. Il signor Goethe piglia la parte di osservatore di tutti i moti secreti dell’animo del protagonista, e tutti gli altri piú secreti de’ personaggi che indussero Werther al suicidio. L’aver egli risaputo quella esattissima descrizione d’affetti da Carlotta e da Alberto, che li provarono, giustifica l’espediente; tuttavia scema l’illusione a’ lettori, i quali, stando attoniti dinanzi al quadro, si veggono al fianco il pittore, che li dirige. Ma avrebbe egli mai con altro espediente potuto ridurre alla perfezione, propria a lui [p. 149 modifica] solo, la progressione lenta, invisibile, e tutto ad un tratto terribile dell’amore? e non avrebbe forse anche guastato il contrapposto della serena felicitá con la quale Werther empie di gioia i lettori, e della muta costernazione con che poi gli atterrisce? Togliendo in un subito il velo, che fin allora non lasciava al tutto discernere l’anima del suicida, l’autore doveva spargere ei medesimo il lume necessario a chi voleva pur vederla. All’autore italiano può essere ascritto l’inconveniente contrario. Lascia i lettori a se soli. La narrazione di Lorenzo non li aiuta, se non di qualche congettura, e di rado. Descrive sempre la vita esteriore dell’amico suo, azioni comuni, spesso minime, di giorno in giorno, d’ora in ora, e che a taluno parrebbero indifferentissime; riferisce discorsi tronchi, e come gli udí o li riseppe; ricopia frammenti come li trovò, e non s’attenta d’accertare le date in cui furono scritti. Finalmente nelle scene piú estese e piú commoventi racconta i fatti con fede e con diligenza di testimonio; ma addossa a chiunque gli ascolta l’obbligo di desumere con la propria penetrazione le cagioni morali che li produssero. Aggiungesi la lentezza e la calma dello stile di quel ragguaglio, discordi dall’impeto delle lettere dell’Ortis; cosí che si crederebbe che appunto nell’occasione, in cui l’autore doveva piú riscaldare e illuminare gli spettatori e precipitare con tragica rapiditá la catastrofe, siasi inavvedutamente appigliato a metodo atto a stancarli. Ma gli spettatori, non che stancarsi, s’avveggono che oramai la disperazione vince nell’Ortis l’orror della morte, e stanno piú attenti sovr’esso. I sentimenti profondi e le riflessioni, che essi aveano raccolto nel principio e nel progresso del libro, ogni volta che l’autore levava quasi del tutto il velo dall’animo del suicida e lasciavalo ricadere, si riaffollano nel pensiero degli spettatori, ora ch’essi preveggono inevitabile la catastrofe, che aveano tante volte creduto di veder terminata. Non si può, né si voleva atterrirli; bensí lasciare che essi distinguano le radici e gli ultimi effetti della inveterata disperazione. Dopo la lettura del Werther, un giovane si rimarrá confuso di muta costernazione, e di tal crepacuore, che non gli concederá di riflettere. Dopo la lettura dell’Ortis, il giovane, assuefatto dal libro a malinconiche riflessioni, le prolungherá con men cupa e forse piú pericolosa tristezza. Da che Werther sente la sciagurata necessitá di morire, sino all’ora ch’ei vi si delibera, corrono da quindici in venti giorni, e quattro dalla deliberazione alla morte. D’allora in poi i suoi sentimenti [p. 150 modifica] morali trascorrono istantaneamente or all’estremo della illusoria beatitudine di possedere la donna amata, or della reale sciagura di vederla posseduta da un altro: quindi quello stato di rabbia misantropica, che quanto è piú alieno dall’indole dolce dell’anima sua, tanto piú gli converte in odiosa amarezza tutta la soavitá degli affetti a’ quali la sua vita era dianzi assuefatta. Le memorie degli inciampi, delle umiliazioni28 e delle ingiustizie, che aveva dovuto tollerare dagli uomini, si ridestano allora pel suo dolore; e il suo dolore glieli ingrandisce in fantasmi atroci, persecutori, che congiurano a rapirgli ogni speranza sopra la terra. Non vede piú nessun cuore che gli si accosti; non può udire voce che lo consoli; non sa piú a chi parlare che sappia intenderlo. Cosí in lui il foco delle passioni, senza del quale la nostra vita non ha piú moto, cresce come fiamma che gli va consumando le facoltá intellettuali. Ma da quell’avanzo di facoltá, che ancora gli resta, raccoglie qualche consolazione d’affetti, pensando alla donna amata; per lei trova voce da dolersi, e pianto, e compassione di sé, e lucidi intervalli di ragione da scriverle e da maturare il suo proponimento. Nondimeno si vede che cammina verso la fossa, ravvolto fra i vortici di quella fiamma, che lo avrebbe forse fra non molto distrutto, quand’anche ei non si fosse distrutto da sé. L’Ortis, sino da che venne in iscena, sentiva la necessitá di morire. Le [p. 151 modifica] cagioni, che cominciavano a scemarla, la andavano poscia accrescendo; e vi si accostumò in guisa, ch’ei ne parlava come d’un «dolcissimo desiderio»29. A questa abitudine s’aggiungeva il maggior vigore di facoltá intellettuali, e l’essere riamato da Teresa, e la compiacenza di soffrire per non macchiarle l’innocenza e la fama, e la certezza di poter trovare in sé tanto coraggio da eludere l’ingiustizia degli uomini, fuggendo sotterra: ecco le cause che lo preservarono spesso dall’estremitá di Werther, in cui anche l’Ortis sarebbe precipitato assai prima. Quando, a mezzo il volume, i lettori veggono ch’ei si divide da Teresa per lasciarla ad un altro, sentono ch’ei sostiene il terribile sacrificio, perché lo faceva con volontaria generositá. Ma la fiamma, ch’ei voleva comprimere, lo divora: delira come Werther; i terrori del futuro per la donna ch’egli ama, gliela fanno vedere «come vittima sgozzata all’altare» e gli fanno udire «il suo ultimo gemito»; il rimorso dell’uomo ch’esso aveva inavvedutamente ucciso gli sta da furia minacciosa sugli occhi30; ei fugge uno spettro, abborre in sé un omicida, grida spesso d’avere insanguinata la terra, si desta guardando intorno, come si vedesse sul capo il carnefice. Cosíla sciagura dell’amore disperato gli aduna de’ neri fantasmi, affinché, come Werther, lo sospingano nel sepolcro; e il lettore lo vede in procinto di precipitarsi: «Io traversava il Po e rimirava le immense sue acque, e piú volte io fui per profondarmi e perdermi per sempre. Tutto è un punto... Non finirò cosí da codardo... Quando avrò coraggio di mirare la morte in faccia e ragionare pacatamente con lei..., allora...». E, mentre ei proferiva queste parole, si risentiva nel cuore rivivere una religiosa pietá per sua madre, e una lontana speranza di rasciugare un giorno le lagrime di Teresa31. Cosí l’innato amor della vita, sostenendo quell’uomo col sentimento ch’egli aveva del proprio coraggio, e confortandolo co’ sensi di pietá e di rimorso per le persone che lo avrebbero pianto inconsolabilmente, lo preservò per allora dall’assalto della disperazione. Da quel giorno al giorno ch’ei decretò di morire si frapposero piú di sette mesi; e la disperazione assume sintomi di malattia piú lenta e insanabile. Le lettere dell’Ortis vanno di [p. 152 modifica] tanto in tanto acquistando piú vigore d’idee e meno entusiasmo32. Ei si sofferma con piú attenzione e con piú equitá sovra le umane cose, vede i dolori e i piaceri che somministrano; e quanto piú l’istinto della vita lo rieccita, per mezzo delle piú care passioni, a ricorrere alla memoria de’ piaceri goduti e alla speranza di goderne per l’avvenire, ei li delude con armi che parrebbero argomenti di mente fredda, se non si vedesse che sono gli antichi sentimenti, ma piú radicati e meno mobili del dolore, che gli si sono convertiti, com’ei dice, in natura. Cosí la disperazione, poiché ha cessato d’assalirlo con dei deliri, gli s’insinua tenace nella ragione e induce l’ingegno dell’uomo a combattere per farla trionfare33. Finalmente le nozze di Teresa gli strappano dal cuore la piú cara e la piú occulta lusinga, e rompono cosí l’ultime fila e le piú salde, con le quali l’istinto naturale lo teneva congiunto alla vita. Allora ei prescrive il modo, il luogo, l’ora del suicidio con la rassegnazione di chi lo aspettava come inevitabile. Allora, dopo «tante tempeste», incomincia e continua per venti giorni «a parlare» di quando in quando «pacatamente con la morte, e la morte con lui»34. Il fatto, che aveva sempre taciuto, dell’uomo ucciso, lo narra con profonda pietá, ma senza terror di rimorsi. L’ultima volta ch’ei potè piangere con Teresa ed ebbe da lei il ritratto, fu quasi smosso; ma scrisse ch’era «sacrificio piú che di sangue; tuttavia quello che era decretato, era decretato». Il desiderio, che ogni uomo morente ha di lasciare l’ultimo addio a quelli che abbandona per sempre, traspira alle volte da lui; nondimeno, ad onta del suo carattere incapace di dissimulazione, lo copre di un sorriso35. Il sentimento del poco spazio di vita che gli rimane, raduna in lui tutti i piú forti affetti dell’uomo. Ma o li elude con l’eloquenza della disperazione oramai vittoriosa, o li affronta con tutte le forze dell’anima sua. L’amore lo vorrebbe strascinare a vendette 36; e la natura lo alletta a piaceri, che promette a’ [p. 153 modifica] viventi; e la morte, alla quale egli si è fatto vittima consacrata, lo dissuade a un tratto dall’ira e dalle speranze. La misantropia torna a infierire due o tre volte, ed è poi vinta per sempre dalla compassione per le persone care, ch’egli abbandona nel lutto; e l’ultime due pagine, scritte a Teresa mentr’ei stava per trafiggersi, spirano un mesto piacere di vedersi giunto al termine delle angosce e un pietoso desiderio di farle sentire ch’egli è consolato della gioia di morire amato da lei. Questa lentissima, e quanto piú cresce tanto piú occulta esacerbazione di febbre d’animo, da che l’Ortis cessa di delirare, non è certamente opera di cui l’autore si fosse avveduto scrivendo. La natura gli ha dettato quanto ha scritto; e in ciò, come in parecchi altri punti, siamo del parere col quale conclude l’articolo antecedente: tanto piú che l’autore di quel libro aveva allora passato di poco i venti anni37, e, se avesse saputo osservare in sé questo stato, non avrebbe piú potuto descriverlo in guisa sí passionata, che la perspicacia dell’osservazione non traspirasse a tutti i lettori: invece tutti ne sentono a veritá, ma a distinguerla è bisogno di industriosissima analisi. Bastò all’autore di esporre una serie di sensazioni giornaliere com’ei le provava, e nello stile com’ei le concepiva. Però l’effetto è men subitaneo che nel Werther. E il signor Goethe ha piú merito d’intenzione; poiché, ragunando quant’era necessario a percotere istantaneamente gli animi, mostra il genio illuminato dall’arte. Tutte le ultime scene dell’Ortis sono piú vere, e sembra che operi la sola natura. La pietá per la madre, che aveva spesso distolto il figlio dal suicidio, è l’ostacolo piú potente che alla disperazione rimanga da sormontare. A torto altri accusa Werther di debole pietá per la madre. La disperazione guidò l’Ortis di passo in passo, e si soffermò seco piú volte a lasciar ripigliar lena; ma investí Werther e lo travolse come in un turbine, ed ei non poteva volgere gli occhi se non alla sola donna per la quale ei periva. La diversitá assoluta di questi due individui sta nel vigore dell’anima: fortissima nell’Ortis ed esperimentata al dolore, ma piú delicata e meno esperta in Werther, né può reggere lungamente a una febbre sorda che scoppia di subito, e n’è sbalordita e ridotta alla frenesia. Quell’altra anima non può essere assalita, che non se ne [p. 154 modifica] avvegga; non può essere debilitata che a poco a poco: quindi quell’ondeggiamento perpetuo fra la ragione e le passioni, che si conserva in lei sino all’ultimo punto dell’agonia. La ostinata costanza dell’Ortis ci moverebbe solamente a stupore, se non la vedessimo ritentata, e in frangenti d’esser smossa, e da tutti i desidèri dell’uomo e dal dolore delle persone che egli condanna al lutto: ed ei ne sente il delitto, e presente insieme i delitti a’ quali le speranze, continuando a vivere seco, lo potrebbero strascinare. La notte precedente alla notte del suicidio, egli, scrivendo a Teresa, «tornava a piangere ed a tremare», e grida sdegnato e avvilito: «La sorgente delle lagrime è in me dunque inesausta?». Werther sente condensato il dolore di tutto quello che perde, e non può vedere che la propria sciagura. Ma l’altro ha tempo di rivedere ad una ad una, e quanto piú s’avvicina alla morte tanto piú amaramente, le cose ch’ei lascia, e tanto piú vorrebbe che non gli paressero belle. Forse è osservato da pochi (perché, come s’è detto, tutta la narrazione degli ultimi venti giorni della lotta dell’Ortis con la morte non è accompagnata da riflessioni che guidino chi legge), non però è meno profondo quel tratto, perché è cavato dalle viscere dell’uomo morente, quand’ei, verso sera e poche ore innanzi di uccidersi, «soffermandosi alzò gli occhi al cielo e, dopo alcun tempo, proruppe guardandomi: — Pare anche a te che oggi la luce sia piú bella che mai?». — Bensí la lotta d’un’anima vigorosa, che non può vincere né vuol cedere, si vede piú manifesta in que’ fogli trovati sul tavolino dell’Ortis, ne’ quali non ha mai potuto continuare di scrivere a sua madre, e lasciano conoscere com’ei portò sotterra i rimorsi, che gli si accrebbero l’ultima volta ch’esso la vide 38. «La Natura ha tessuto di rimorsi figliali, di materni presentimenti, di secreto violentemente dissimulato, d’incerto silenzio, di religione, di momentanea rassegnazione e di crepacuore perpetuo la scena della visita e del congedo dell’Ortis in casa di sua madre. Non si può raffrontarla a nessun’altra, da conoscere se sia ordita o esposta meglio o peggio: non è imitazione; è avvenimento che affligge tutte le famiglie alla lor volta; però a chiunque ha viscere di figlio sgorgano spontanee le lagrime. Non pare scritta, e chi v’assiste non sa d’esser illuso, né chiamato [p. 155 modifica] a vederla: piange come d’un dolore che ha provato o che dovrá anch’egli provare. Ma fra la compassione serpe il terrore, dall’insolita circostanza di una madre, e cristiana, che non sa di dover perdere per un suicidio il suo figlio, il quale, dicendole: — Ci rivedremo forse... — le chiede la benedizione, per discendere meno colpevole nel sepolcro. La scena parallella, della lettura de’ versi d’Ossian, nel Werther pare da principio ideata perché è meno frequente; ma è condotta in guisa che lo spettatore, quand’anche n’avesse sospettato, confessa che è vera. Vede la fisonomia con che Werther legge que’ versi, la pietá con che li pronunzia; vede come ogni parola è un avviso della morte di chi li legge, e come il misero amante vorrebbe e non ha cuore di dire a Carlotta ch’ei domani non potrá piú vederla, ch’essa non potrá udirlo per tutta l’eternitá. E la compassione assale lo spettatore con un acuto senso indistinto d’orrore e di gioia, quando vede il petto di Carlotta stretto vicino a un cuore che è pieno di lei e che domani cesserá di palpitare; e vede come Werther, desolato da tutte le speranze, gode della felicitá ch’ei non avrebbe sperato mai, e porta su le sue labbra agonizzanti quei baci. Chiunque volesse fare una scena simile a questa, s’accorgerebbe che il genio l’ha ispirata a un solo autore e per quell’unico caso. Né la natura somministrerá forse mai piú, complicata di tanti occulti affetti, una scena simile alla prima; né veruno s’arrischierebbe d’esporla con la sua pura semplicitá». Il modo della morte è diverso, quant’era diverso lo stato della malattia, il carattere e la forza dell’animo de’ due giovani che s’uccidono. Werther in una notte burrascosa di verno arrampica su per le rupi, e il luogo dove fu trovato il suo cappello lascia congetturare ch’ei cercasse morte piú crudele e piú presta fra que’ precipizi. La mattina lo veggono boccheggiante nella sua camera, con le cervella sparpagliate e con una tragedia aperta su lo scrittoio. L’altro, in una notte serena di primavera, va per le campagne, che gli erano state si care, e da que’ luoghi raccoglie le rimembranze dell’amor suo; e tornasi a casa piú certo che sará caro a Teresa anche sotterra, e le riscrive piú consolato; attesta l’innocenza di lei e si trafigge; e, sicuro in sé di poter aspettare di minuto in minuto la morte, lascia che per piú ore gli scorra il sangue dalla ferita. Ha sul tavolino la Bibbia chiusa e sovr’essa l’oriuolo, dal quale aspettava il momento prefisso; e spirò mandando a Dio l’ultimo sguardo. Finalmente anche nell’ultime parole de’ libri è raccolto il senso diverso, che i due scrittori [p. 156 modifica] mirano di lasciare in chi legge. Werther fu portato alla sepoltura, «e nessun sacerdote lo accompagnò». L’Ortis fu dall’amico suo «sotterrato sul monte de’ pini» piantati da suo padre e trapiantati da lui, sotto l’ombra de’ quali egli avea tante volte desiderato di riposar39. Circa allo stile, ci asterremo dal riferire gli altrui paragoni o dal farne. Che se pure un ingegno filosofico e consumato nella sua lingua materna potrá notomizzare la dicitura d’uno de’ due romanzi, non però potrá essere mai si versato nell’altra da non ingannarsi. E chi non vede che due caratteri sí differenti, con modi di sentire e di concepire sí vari, e in idiomi d’indole sií aliena fra loro, e nati in clima cosí diverso, non possono scrivere che affatto diversamente? Basti che l’autore tedesco depurò e arricchí una lingua che non aveva scrittori classici, e l’italiano ridiede forza e novitá a una lingua classica da piú secoli: l’uno e l’altro, superando due diversi ostacoli, diedero uno stile ignoto a’ loro concittadini. Da quanto s’è detto e con vari giudizi in piú luoghi, ogni lettore anche non italiano desumerá opinione sicura intorno allo stile del libro del quale principalmente trattiamo. Parimenti un critico tedesco, all’esperienza del quale sarebbe orgoglio il non riportarsi, ha dato un giudizio riferito nel paragrafo precedente40, e gioverá agli italiani, perché abbiano meno ingiusta opinione dell’eloquenza di Werther41. Citeremo [p. 157 modifica] anche in via d’arbitro uno scrittore francese, il quale, quantunque accenni in generale e modestamente i difetti dell’autore tedesco e dell’italiano, nondimeno anche i cenni di chi ha dato esempi di stile meritano d’essere attentamente considerati. Ecco il passo come sta nell’originale: «Werther est le premier ouvrage allemand dont le style porte la vive empreinte d’une imagination fortement passionnée. C’est à ce rare mérite qu’on doit attribuer la prodigieuse sensation qu’a faite ce roman, lorsqu’ il parût pour la première fois; il en fera toujours une très grande sur toutes les âmes jeunes et sensibles. La profondeur des pensées, la finesse même des observations, dont il est rempli, ne semblent le plus souvent que l’heureuse inspiration du sentiment qui domine dans tout l’ouvrage. Il n’y a du moins qu’un tact fort exercé qui sache y discerner ce que l’invention poétique, le génie observateur osèrent ajouter aux épanchements naturels des passions et des caractères mis en action dans cet admirable tableau. Ce qui décèle le plus la main de l’artiste, ne serait-ce pas une certaine teinte de métaphysique mêlée quelquefois au coloris d’un style en général aussi simple, aussi pur qu’ il est énergique, neuf, original? Il y a dans les lettres d’Ortis urne chaleur plus méridionale, une touche plus franche, plus individuelle, plus d’abandon; mais on y désirerait quelquefois plus de développements42. La succession des sentiments n’y serait-elle pas souvent trop brusque, trop rapide? Il est des situations et des mouvements de l’âme sur qui l’imagination a besoin d’être plus ou moins arrètée polir nous faire éprouver tonte l’émotion dont nous somme susceptibles43. [p. 158 modifica] Thérèse me parait un être beaucoup plus interessant que Charlotte. Je plains peut-être davantage Werther; mais je me trouve plus disposé, ce me semble, à partager tout ce qu’ in spire au sauvage Ortis l’objet de sa passion». Del resto, poiché il libro italiano ha meritato molti lettori e l’attento esame de’ critici, e la fama del tedesco è accertata da piú numero d’anni, la lite della preminenza non può essere definita se non dal tempo. Se non che il tempo, con nuovi costumi, con teorie letterarie e morali contrarie alle odierne, con le vicende degl’idiomi, manderá forse in dimenticanza queste, con molte altre opere, che, malgrado la loro poco utilitá, commovono oggi tante opinioni.

    Georg Ioachim Göschen, 1787, p. 267. «Carlotta diceva a sé: — Oh chi mi trasformasse Werther in fratello mio! oh potessi ammogliarlo ad una amica mia, e si rannodasse l’amicizia col marito mio, sarei pur beata! Esaminava ad una ad una col pensiero le proprie amiche, le trovava tutte difettose di non so che, e nessuna tale a cui ella avrebbe volentieri ceduto Werther. Da tante considerazioni cominciava, non però sei diceva, a sentire profondamente, distintamente sorgere un sentimento vivo, occultissimo di serbarsi Werther per sé, ma insieme che non poteva, né s’attentava». Questo soliloquio della mente di Carlotta fu provocato dalla scena, per la quale Werther s’era ostinato ad uccidersi.

  1. Breve esame delle «Lett. d’Ortis», pp. 41-43. Anche il professor Luden inclina ad ammettere questa ipotesi, e non nega la possibilitá che l’Ortis fosse scritto da chi non avesse veduto il Werther. Le sue considerazioni su la riproduzione di uomini e ingegni di pari indole e tempra sono profonde e profondamente espresse. Kleine Aufsätze ecc., pp. 126-129.
  2. Paragrafo iv di questa Notizia, p. 100. E qui pure in gran parte ci è documento la citata lettera al signor Bartoldi.
  3. Fra vari casi di suicidii non consumati il piú meraviglioso ci pare il seguente; e, benché lo scritto che conteneva la narrazione, accompagnata da considerazioni esatte e profonde, non sia piú sotto gli occhi nostri, noi possiamo attestare la veritá del fatto. — Un giovine militare di casa Barbieri, nativo di Napoli, deliberatosi di morire, scrisse una lettera, e si ferì d’un colpo di pistola, che gli ruppe la fronte senza che la palla vi penetrasse; riscrisse un poscritto, e con un’altra pistola appuntata nel palato tornò a colpirsi, e si spezzò la mascella; riscrisse, e il sangue grondavagli sulla lettera, ed ei tingeva la penna in quel sangue; ricaricò una pistola, e, feritosi per la terza volta presso una tempia, la palla strisciò frangendogli l’osso. Ricaricava l’altra pistola, quando gente di casa, sgomentata dagli tre spari, accorse nella sua stanza: e fu disarmato, e curato, e guarì. Il fatto avvenne in Milano ne’ primi mesi del 1803. Il giovine non aveva forse ancora 25 anni. Né disse mai quali cause lo costringessero a voler morire. Chi scrisse la Memoria accennata sul principio di questa nota, lo aveva conosciuto quattro anni dopo, ufficiale nel primo reggimento di fanteria leggera italiano. Era assai deformato in viso, ma d’aspetto pacato e sereno; e sereno di spirito, di vita metodica e attiva, e non senza ingegno. Parlava poco; bensí, interrogato intorno al suo stato morale ne’ giorni antecedenti al suicidio, nel lungo spazio d’ora in cui lo tentava, e nel tempo ch’ei si lasciava curare, rispose con indifferenza insieme e con precisione, e senza tralasciare veruna particolaritá importante, come uomo che aveva avuto sempre agio d’osservare l’anima Sua e che dopo quattro anni continuava a osservarla.
  4. Usciva tutti i di nel 1798 in Milano, col titolo il Monitore italiano, e, a dir giusto, non ebbe corso che per tre mesi. Era scritta da uomini, che, essendo avversi a’ passati governi, svelavano non per tanto i deboli fondamenti della nuova repubblica e l’ignoranza de’ nuovi legislatori, e per lo piú con delle «postille» sotto il testo de’ discorsi tenuti ne’ Consigli legislativi. I compilatori corsero de’ pericoli, e uno d’essi fu processato in un Consiglio di guerra francese. Oltre a’ frammenti di cui qui si parla, tra’ quali v’è in parte la lettera a pp. 285-7 [vol. i] di questa edizione e ommessa in molte ristampe, si leggono in essa gazzetta degli articoli diretti da un altro scrittore anche con piú fieri termini contro Bonaparte e il trattato di Campoformio. Non si vuole confonderla col Monitore cisalpino, che usciva verso quel tempo. Di queste notizie e di molte altre, come diremo in appresso, siamo obbligati al signor Schulthessius.
  5. Questa lode data al signor Goethe a noi pare assai giusta. Infatti quanto è piú eloquente, appassionata e artificiosa una lettera, scritta per esempio da Giulia a SaintPreux o da Lovelace a Clarissa, e quanto piú sono importanti le scene del romanzo, tanto piú il lettore esplora il cuore dell’individuo che la riceve, anziché dell’individuo che la scrive. E sta benissimo ne’ romanzi di piú caratteri, e di due o tre principali. Ma, dove l’autore intende unicamente che il lettore esplori l’anima d’un solo individuo, ogni minima diversione guasta l’intento.
  6. Non vogliamo dubitare di quest’asserzione, da che la leggiamo nel documento poc’anzi allegato, al quale abbiamo ragioni da prestare intera fede. Tuttavia quel Frammento di Lauretta, che in sé è poca cosa e pare imitazione dalla Maria di Sterne, serve a provare lo stato della mente dell’Ortis, incapace di dar ordine a’ suoi pensieri o di sviarli delle sue passioni. Inoltre è dato come cosa suggerita da un altro libro: né sappiamo perché in alcune edizioni molti passi, che precedono quel Frammento siano omessi ed altri aggiunti, e con si poca arte, da lasciar conoscere l’inopportunitá e la diversitá della penna.
  7. Vedi il Giornale di Padova, 1803, dove pare che si concluda che l’Ortis meriti molta lode, ma bensí come libera e felice versione del Werther.
  8. Da Eschilo in qua (ove si eccettui il metodo del teatro inglese, tenuto oggi dal tedesco) tutti i tragici hanno serbato dal piú al meno il disegno generale del teatro greco: se non che i francesi hanno voluto correggere la semplicitá con troppi accessorii; l’Alfieri al contrario lo ha ridotto a troppa severitá, tanto piú che non poteva giovarsi de’ cori, che adornano le antiche tragedie di ricchezza poetica e d’armonia.
  9. I poeti anteriori migliorarono di mano in mano gli espedienti necessari affinché Elettra riconoscesse da sé il fratel suo, ch’ella aveva perduto bambino; spontanei, erano accidentali, alieni al soggetto, e palesavano la necessitá che n’aveva l’autore. L’Alfieri fa nascere il riconoscimento d’EIettra e d’Oreste dalle loro passioni e dallo stato in cui si trovavano; e, mentre che Elettra era piena del suo cordoglio intorno alla tomba d’Agamennone, e Pilade acquetava ad ora ad ora la rabbia della vendetta in Oreste, l’impazienza del giovine scoppiò appunto per gli sforzi che ei faceva a reprimerla e, tenendo gli occhi intenti dove stavano le ceneri di suo padre, diceva fuori di sé: — Sí, mi fu tolto un padre! berrai e tosto, il sangue di chi t’uccise; — cosí che Elettra è costretta a esclamare: — Chi sei tu dunque, se tu non sei Oreste? — e Oreste, alienato da! suo furore, si volta subitamente alla donna, dicendo: — Chi, chi mi appella? — e involontariamente si scopre da sé. Questa scena è preparata gradatamente, in guisa che le tronche parole pronunziate da’ personaggi sembrano dettate non tanto dall’autore quanto dagli spettatori che stanno ascoltando.
  10. Se non fosse che le si ripetono come innegabili, ci parrebbero indegne di risposta due ragioni allegate a convincere il libro dell’Ortis di plagio. L’una: che i tragici si vanno successivamente imitando, perché trattano storie credute per tradizione perpetua. Ma e quante storie non abbiam noi, purtroppo, sott’occhi ogni giorno di suicidii per amore? e a crederle non ci bisognano tradizioni. E, se gli nomini suicidi s’imitano tutti, specialmente quando sono nelle stesse passioni, l’autore, che ne descrive uno, dovrá egli travisarne la storia, acciocché non si dica ch’ei l’abbia copiata da un altro? L’altra ragione si è: che i due protagonisti si trovano nelle identiche circostanze: Werther ama la moglie, e l’Ortis la sposa promessa d’un altro; tutti due sono rifugiati in campagna; Teresa ha un padre e una sorellina che amano I’Ortis, come Carlotta ha un padre e de’ fratelli bambini amici di Werther; Teresa e Carlotta non hanno madre, perché, siccome questa l’ha perduta per malattia, così quella 1 ’ ha perduta per dissidi domestici, ecc. ecc. Quasi che gli innamorati della donna che posseggono s’uccidessero così spesso; quasi che ogni paese non fosse composto di famiglie, e tutte a loro volta non fossero piene di fanciulle innamorate promesse ad uomini ch’esse non amano, piene e di bambini e di dissidi e di funerali; quasi che le ragioni della vita solitaria e disoccupata di Werther non fossero piú gratuite della vita solitaria e disoccupata dell’Ortis. Non vi fu forse individuo in Italia, che, o per una o per un’altra opinione politica, non sia stato negli anni addietro costretto a fuggire dalle cittá; e molti forse anch’oggi si trovano ne’ medesimi casi.
  11. [Di questa edizione, i, 320].
  12. Lettera 27 maggio [i, 315].
  13. [i. 309]. Molte altre edizioni leggono «rimproverarmi»; cosí una sola consonante scambiata guasta il carattere morale di Teresa, che (siccome anche in molte altre parti dell’opera) è delineato a tratti profondi, ma fuggitivi. Da questo ognun vegga quanto sia da curare la correzione tipografica in uno stile, che, quantunque forse non sia da imitarsi, è pur tale da obbligare il lettore a intendere a cenni.
  14. Lettera 21 maggio [i, 311], Lettera 29 maggio [i, 316].
  15. Lettera 12 maggio [i, 304 5].
  16. Lettera 14 maggio [ii, 309].
  17. Dal giorno 5 al 25 marzo.
  18. Lettera a Lorenzo [ii, 53, e cfr. ne’frammenti, p. 46].
  19. Assai lume su la questione avrebbe diffuso la Vita che il signor Goethe ha scritto di sé. Ma, quando usciva da Tubinga in quest’anno 1814, gli articoli precedenti e parte di questo erano giá spediti al libraio. Ne parleremo nel seguente paragrafo, e per avventura in occasione piú opportuna.
  20. Lettera 17 aprile [i, 295].
  21. Lettera 22 novembre [i, 269].
  22. Citeremo sempre l’edizione Goethe’s Schriften, erster Band, Leipzig, bey
  23. Su la fine della parte prima.
  24. Perché non può darsi esattezza di traduzioni che non alteri il testo, daremo qui l’originale d’un passo, sul quale è fondata la piú grave delle critiche contro il libro del signor Goethe, p. 257. «— Er knirschte mit den Zähnen, und sah sie düster att. Sie hielt seine Hand. Nur einen Augenblick ruhigen Sinn, Werther! — sogte sie. — Fühlen Sie nicht, dass Sie sich betrügen, sich mit Willen zu grunde richten? — Warum denn mich, Werther! gerade mich, das Eigenthum eines Andern? gerade das! Ich fürchte, ich fürchte, es ist nur die Unmtöglichkeit, mich zu besitzen, dir Ihnen diesen Wunsch so reizend macht».
  25. Fra mille modi, co’ quali il Petrarca abbellisce e fa parer sempre nuova quest’unica idea, il seguente è forse piú energico:

                   Lasciai quel ch’io piú bramo; ed ho si avvezza
              la mente a contemplar sola costei,
              ch’altro non vede, e ciò, che non è lei,
              giá per antica usanza odia e disprezza.

    Taluni, piú grammaticalmente e meno poeticamente, leggono «che non è in lei», invece di «che non è lei».

  26. Se ne discorre nel seguente paragrafo.
  27. Vedi lo stato di Carlotta, descritto in questa occasione a p. 299 dell’edizione tedesca sovra citata, ov’è detto che dal biglietto, che richiedea le pistole, «fu colpita come da un fulmine».
  28. Quando fu umiliato nell’assemblea de’ nobili, scrisse: «Deh, se taluno s’attentasse di rinfacciarmelo! gli pianterei la spada nel petto: la vista del sangue mi farebbe pur bene! La mía mano afferrava cento volte il coltello per versarne dal mio cuore oppresso». L’Ortis, benché sia andato incontro a un insulto per ferocia di vendetta (e anch’esso con gente nobile, a quanto pare, perché in quella lettera trovatisi delle lacune forse per de’ riguardi), scrive come chi s’è vendicato e disprezza [i, 275-6]: «Da tre anni quasi io non lo rivedeva; e m’intesi ardere tutte le membra... Io ruggiva come un leone, e mi pareva che l’avrei sbranato, anche se l’avessi trovato nel santuario... Pianse e gridò; e allora la ira, quella furia mia dominatrice, cominciò ad ammansarsi dall’avvilimento di lui... Questa galante gentaglia gridava la crociata contro di me (sic), come s’io avessi dovuto trangugiarmi una ingiuria da chi mi aveva mangiato la metá del cuore». E nella stessa lettera [i, 278]: «volgo di nobili, volgo di letterati, volgo di belle; e tutti sciocchi, bassi, maligni; tutti». Parimenti la pietá e ogni altro affetto scoppia in lui con la stessa violenza. Considerando il Werther e l’Ortis come due uomini nati a vivere con gli altri, si direbbe che il primo ha in sé un’amabile simpatia, che persuada quasi tutti ad accostarsegli, molti a volergli bene, e nessuno a temerlo. L’altro attrae con irresistibile predominio quei pochi che lo amano, e respinge gli altri con freddo sdegno, e, se lo provocano all’ira, li costringe ad odiarlo.
  29. Lettera 25 maggio [ma un passo che è solo nelle varianti di Z e L, a p. 76 di questo vol. ii].
  30. [i, 328 l’ultimo frammento, e le var. rispettive, ii, 84].
  31. Lettera di Ferrara, 20 luglio [i, 326, e la var. a p. 84 di questo ii vol.].
  32. Un celebre autore vivente diceva: «Chi potesse fare che la prima metá del libro di Werther e la seconda dell’Ortis componessero un solo romanzo, darebbe alla letteratura moderna un’opera inarrivabile». Breve esame, p. 51.
  33. Vedi la lunga lettera 19 febbraio [p. 29 sgg. di questo ii vol.].
  34. 5 marzo [rit:, ma inesatto: pp. 37-8 di questo ii vol.].
  35. Vedi la conversazione fra il signor T***, Odoardo e l’Ortis [p. 42 di questo ii vol., ma secondo la var. a p. 93].
  36. Vedi gli ultimi frammenti [p. 46 di questo ii vol.] e la lettera [a p. 53 di questo ii vol., in un passo che è, veramente, una var. di Z e L; cfr. p. 97].
  37. Nella Notizia al tomo X del Teatro italiano applaudito leggesi che l’autore del Tieste, tragedia recitata nel 1797, aveva allora dicianove anni. Il libro dell’Ortis fu poi attribuito al medesimo autore.
  38. Da queste sino alle virgolette seguenti abbiamo ricavato il parallello tra le due scene dal Trattato del signor Greenfeld, su la influenza della letteratura moderna nelle belle arti, libro II.
  39. Nell’ultima lettera a Lorenzo scrive [in questo vol., p. 57]: «Fa’ ch’io sia sepolto... sotto i pini del colle che guarda la chiesa». E piú mesi innanzi scriveva, da Firenze, 7 settembre [ibid., p. 6]: «Io ti prego di salire sul monte de’ pini che serba tante dolci e funeste mie rimembranze... Piú volte io mi pensava di erigere fra quelle secrete ombre... il mio avello». E in una delle prime lettere [i, 262]: «E quando le ossa mie fredde dormiranno sotto quel boschetto... i padri della villa al suono della campana de’ morti pregheranno pace al mio spirito... E, se talvolta lo stanco mietitore verrá a ristorarsi dall’arsura di giugno, esclamerá, guardando la mia fossa: — Egli, egli innalzò queste fresche ombre ospitali».
  40. Pag. 122, nota 1.
  41. Vi sono due traduzioni italiane del Werther. L’una, stampata molti anni addietro in Poschiavo, è mutilata e pare fatta sopra il testo francese. L’altra, stampata in Padova verso la fine del secolo scorso, ha in fronte una lettera, dalla quale apparisce che il traduttore aveva mandato il manoscritto al signor Goethe: comunque sia, lo stile n’è asciutto, rozzo e stentato: tre difetti che molti scrittori pigliano per pregi di forza, di semplicitá e d’accuratezza; e i lettori, benché senza grammatica, se ne avveggono. Le grida de’ giornalisti che l’Ortis fosse imitazione del Werther, indussero molti in Italia a raffrontare un libro originale con un libro tradotto, e il Werther, per un giudizio popolare provocato da un’accusa mal fondata, fu ingiustamente condannato e quasi caduto in disprezzo.
  42. La giusta querela che lo stile di quelle Lettere costringa le idee nella angustia delle parole è molto piú giusta per tutti i lettori non italiani: bensí quanto uno è piú pratico della lingua, tanto è meno affannato dalla folla e dalla rapiditá de’ pensieri e de’ sentimenti, i quali sono successivamente distinti dalla proprietá d’ogni parola, e piú assai dalla varietá de’ lor suoni, co’ quali, riunite in frasi, secondano l’armonia diversa delle idee e degli affetti che esprimono, e quasi note musicali avvertono de’ passaggi il lettore: qualitá di quell’idioma, e di cui pochi sanno giovarsi, e pochissimi forestieri avvedersene, e nessuno trasportarle: quindi l’impossibilitá delle traduzioni.
  43. Ma l’Ortis parrebbe egli piú il giovane di vent’anni che sente sì fortemente e rapidissimamente gli affetti, da non sapere né potere mai svolgerli? Se, anziché concentrare il troppo calore del suo stile secondo l’indole sua di sentire e di concepire, si fosse studiato di dilatarlo secondo l’arte, i lettori, invece dell’«uomo», avrebbero veduto l’«autore» e trovata forse anche la «fiamma» fittizia. Lo scrittore stesso del passo qui riportato ha in altro incontro egregiamente detto: «La fiamme est plus contagieuse que la chaleur». Questo scrittore è il signor H Meister, autore della Morale naturelle, libro adottato da piú anni in alcune universitá. Il Teocrito svizzero disse di lui: «Piú che ad ogni altro de’ miei traduttori mi professo obbligato al signor Meister. il quale giurerei che il piú delle volte non guardava nelle mie poesie, ma nel fondo della mia anima» (vedi l’Elogio di Gessner del Bertola. p. 75, ediz. 1789). Euthanasie, operetta su l’immortalitá dell’anima, è forse il piú bello de’molti lavori letterari del signor Meister. Uno scrittore italiano la sta traducendo.