Notizia bibliografica intorno alle Ultime lettere di Iacopo Ortis/V. Pareri de' letterati su le Ultime lettere

V. Pareri de' letterati su le Ultime lettere

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IV. Verità storica delle Ultime lettere VI. Werther e Ortis
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V. Pareri de’ letterati su le «Ultime lettere»

V’è tanta discordia fra’ giudici letterari dell’Ortis1, che per lo piú gli uni censurano appunto le cose lodate dagli altri. Lo stile, hanno detto i censori, non che bizzarro, è oscuro spesso, e incertissimo e dissonante da sé; alle volte par casereccio, alle volte [p. 113 modifica] oratorio; or pedestre, or poetico; e non in parti diverse del libro, ma nella stessa lettera e pagina; e a lato a un vocabolo recondito dei trecentisti s’incontra un idiotismo de’ fiorentini d’oggi; e modi danteschi e biblici; senza dire d’infinite frasi di conio dello scrittore, e de’ periodi spezzati e sprezzatamente disarmonici e sconnessi per penuria di congiunzioni; così che spesso chi vi togliesse la punteggiatura, penerebbe a raccapezzarne il significato: insomma è stile, che, come non è fatto sovra ottimi esempli, così non avrá che pessimi imitatori. Gli avvenimenti tutti, che danno principio, progresso e catastrofe all’azione, sono sì scarsi e miseri, che, ove si prescinda dagli episodi, non basterebbero a dar moto a un cortissimo dramma2; e sono tessuti in guisa che il lettore li prevede da sé innanzi tratto: difetto capitale d’arte, di cui l’autore o compilatore che sia, il quale pubblicò il libro, s’accorse sì poco, che l’eroe disperato della prima lettera è pure, né piú né meno, il disperato dell’ultima; se non che a principio parla, e in fine opera, ma non sa far altro che uccidersi; e dagli 11 ottobre 1797 a’ 23 marzo 1799 discorre sempre egli solo da farne un volume. È fuor di dubbio che, ove que’ fatti siano realmente accaduti, gli altri pochi personaggi, che sono connessi necessariamente all’azione, avranno anch’essi esternato l’animo loro e operato secondo i lor propri interessi ed affetti; inoltre dicono e agiscono poco o nulla, e quel poco unicamente per l’Ortis: e, caso che tutto fosse invenzione, ognun vede come nel silenzio e nell’inazione di que’ personaggi, la natura fu assai male imitata. Vero è che Teresa, di sotto al velo virginale dal quale è coperta, si fa scorgere innamoratissima; e in questa parte sarebbe carattere ben ideato: se non che vi si sente dell’incoerenza; da che tanto amore può assai difficilmente associarsi a tanta virtú, sino al sacrificio che la giovine si mariti ad un uomo «che essa non può amare»3: sacrificio antiveduto da lungo tempo, senza che mai vi sia frapposto verun tentativo a distorlo; ed è consumato, e il lettore non ode da quella donzella innamoratissima neppure un sommesso lamento. [p. 114 modifica]

Né Teresa è carattere che possa stare da sé; e si vede che è ripiegato e modellato e attratto, per così dire, dall’Ortis, e fa trasparire le stesse qualitá d’animo, e pensa ed ama e quasi parla nel modo stesso: tutto al piú, per la differenza del sesso, dell’etá, e dell’educazione mostrasi meno ardita, meno aspra e meno ostinata. Come poi un uomo sí agitato dalle passioni e d’indole sí impaziente possa compiacersi di descrizioni campestri; e osservare d’altra parte tante minuzie e ragionare sovr’esse sino a desumerne delle massime generali; e perché mai si diletti di registrare nelle sue lettere tutti gli accidenti meteorologici, mostrando in se stesso un vivente barometro dell’atmosfera che lo circondava: sono quesiti a’ quali non si può forse dare risposta, se non col dire che s’è voluto stampare tutto quello che fu scritto dall’Ortis senza pigliarsi pensiero se sia tutto conforme alle leggi dell’arte, agli esempi de’ grandi scrittori, e sopratutto a’ modi co’ quali la natura suole procedere. Che poi due passioni cosí diverse, quali pur sono il furore di patria e l’amore, possano ardere simultaneamente nell’anima d’un solo individuo, e tutte due si manifestino spesso in uno stesso periodo, e talvolta in una sola frase, è fenomeno naturale e può ammettere spiegazione; ma sí strano a ogni modo, che, se fu alcuna rara volta mostrato in una o due scene di qualche tragedia, non deve essere ripetuto per duecento e piú facciate in un libro; e chi disse che quelle Lettere hanno due anime, le censurò con argutissima veritá. Certo è che un lettore appassionato di politica, vedendosi frastornato da’ sospiri d’un innamorato, s’adira; e tal altro, mentre apre il cuore a’ sospiri, si rimane a un tratto gelato da quelle fiere minacce repubblicane e dalle predizioni politiche, che per allora non importavagli di sapere. Finalmente un letterato di molta fama e d’antica esperienza, benché di stile non troppo corretto4, trovò «da lodare lo stile e la lingua e la forte immaginazione ne’ quadri, e l’ardimento di tante veritá in quel libro»; ma, quanto al punto capitale, trovò altresi «che non erano pregi bastanti a trasfondere in altri quel profondo patetico, che pur sembra dettato dalle viscere dello scrittore. Chi ha pubblicato quell’operetta ha dunque voluto le lagrime dei lettori, e [p. 115 modifica] la corrispondenza de’ lor cuori. Ma gli ha poi consultati questi giudici provocati? Non parlo del fine che ebbe in tal provocazione; qual frutto ne aspetta? qual orrore ne vuole ispirare? qual morale insinuare? Domando qui solamente, se pensò a’ suoi lettori, alla diffidi lor commozione, al prolungarla per tanto tempo, al pronto asciugarsi le lagrime loro, al piú pronto stancarsi di lamenti, di pianti, d’amori, di personaggi ignoti o poco interessanti; onde il lettore, raffreddato, divien critico, e talor nemico del libro, benché l’autore faccia ogni sforzo per farselo amico, interessato per esso, commosso da esso, piangere con esso. I bellissimi tratti di stile allora languiscono, e qual si voglia penna pittrice, armonica, elegante e perfin sublime non farebbe passare in altrui le doti dello scrittore. Ho gustato alcuni passi e ammirati; m’hanno talor commosso, ma non sino alle lagrime, benché mi siano delizia, e ch’io spargo si volentieri e bramo di spargere a mia consolazione e a tributo della umanitá non che dell’eloquenza». Frattanto gli altri dicevano: — A chi scrive è piú agevole, siccome anche piú grato a chi il legge, il romanzo tessuto di complicate vicende, vario di caratteri e dilettevole per inaspettate catastrofi, esposte con brio, con passione e con eleganza; e, s’anche questi requisiti dello stile mancassero, non resterebbe che non trovasse lodatori, specialmente fra quelli, e sono i piú, che leggono con poca penetrazione e spesso per noia; e veramente chi libera gli uomini dalla noia, fa loro grandissimo beneficio. Invece la difficoltá di lasciare da parte le avventure meravigliose e i molti accidenti, e contentarsi di assai pochi e ordinari, a fine di agitare e sviscerare per mezzo di questi un solo carattere umano e di richiamare per tutto il corso d’un volume i lettori sovr’esso, è malagevolissima a sormontarsi. L’autore cosí non esercita piacevolmente la fantasia di chi legge; la quale per altro, essendo prestissima a muoversi, non tarda a stancarsi: ma, ove gli riesca bene il suo schietto lavoro, eccita i cuori a osservare commossi in que’ fogli la malattia giornaliera e progressiva d’un altro cuore umano febbricitante di passioni e per cose che tuttodí accadono a tutti. La sostanza de’ racconti complicati è depositata nella sola memoria, che non può lungamente serbarla; e sostanza d’un romanzo, come il Werther5 e l’Ortis, [p. 116 modifica] consistendo tutta di commozioni naturali, penetra le anime. E, quando da mille colpi graduali, continuati, diversificati con novitá, modificati con arte, ma provenienti pur sempre da un medesimo oggetto e tendenti a un unico scopo, le anime giovanili siano state una volta gagliardamente scosse, conservano, se non quel moto medesimo, certamente una oscillazione protratta per anni, la quale avverte del modo di preservarsi da simile violenza di cuore, o, non fosse altro, inizia a conoscere le proprie viscere nelle altrui, e tollerare le angosce umane e compiangerle. I casi della vita sono vari e individuali, e non ammettono regola; ma le passioni, da’ gradi in fuori, e il dolore sono comuni a’ mortali. L’autore della Nuova Eloisa intese di rappresentare i principi, i progressi e le catastrofi dell’amore in certi individui che, secondo lui, esistevano e, se la societá fosse men guasta, esisterebbero in piú gran numero; e li volle contrapporre appunto agl’individui corrottissimi della societá6. Perciò s’è giovato di cinque o sei attori e di semplici avvenimenti: pone i suoi innamorati in una piccola appartata cittá degli Svizzeri: avverte che sono educati alla ritiratezza domestica e alle solitudini severe delle Alpi, senza uso di mondo, né curiositá di conoscerlo; e li ha dotati di tanto ingegno da farli vagare ne’ spazi d’un’ideale filosofia, e di tanto ardore da strascinare la loro indole ingenua e naturalmente buona a falli ed a pentimenti; e pubblica le loro lettere, dettate (come egli ridice spesso) in istile scorretto, e da essere meritamente censurato da chiunque ha gusto elegante in letteratura. Veggonsi infatti in quelle lettere gli affetti dolcissimi, inquieti, profondi; i generosi sensi; gli errori di mente; le ingannevoli illusioni di perpetua felicitá e di pura virtú; le colpe e le sciagure e i ravvedimenti, che finalmente si risolvono e si concentrano in un lungo sentimento sublime di passione purificata dalla ragione protratto fino alla morte: il che infatti è conseguenza dell’amore altamente provato da’ cuori bennati, che non siano stati guasti dalla corruzione delle grandi cittá; ma l’autore [p. 117 modifica] voleva far leggere il suo romanzo nelle grandi cittá. Ricavò molti affetti dall’anima sua; moltissimi ne inventò con la sua fantasia, e a forza d’ingegno li scalda, li svolge, li mostra da tutte le parti adornati, a fine di costringere ogni lettore piú incallito dalla corruttela a sentirli: e intanto l’autore si compiace della propria fatica, e, dimenticandosi de’ suoi personaggi, non pensa che a sé. Alla seconda lettura di quelle lettere, massime chi la ripiglia in etá matura, ognuno s’accorge che Rousseau non ha còlto nel segno appunto perché ha voluto mirarvi un po’ troppo. Anzi un uomo di tempra veemente, d’anima fervida, e per tendenza di mente attentissimo osservatore dei ripostigli del cuore umano, ch’egli poi svolse nelle sue tragedie, racconta com’ei nella sua gioventú, quand’era avido di romanzi ed innamorato e facile a prorompere in lagrime, raffreddavasi alla lettura della Nuova Eloisa, perché i personaggi volevano a forza sentire piú di quel che naturalmente sentivano; né ha mai potuto finirne un volume7. Ma questo giudizio forse proviene dalla diversa singolaritá d’ingegno in questi due scrittori. Nondimeno è certissimo che le passioni sono nella Nuova Eloisa oratoriamente descritte, come da persone che non ne sono attualmente invasate, ma che con l’immaginazione e con la ragione ritornano a’ tempi passati per esaminare il lor cuore. Le loro riflessioni, invece di sgorgare spontanee e di cedere, subito dopo, il luogo agli affetti che le hanno provocate, si prolungano in via di dissertazioni controverse. La virtú de’ loro sentimenti, delle loro parole, delle loro azioni non germoglia da’ cuori che la sentano, e che però non possano operare altrimenti; bensí dai sistemi morali: quindi la contraddizione fra la condotta e le massime di que’ personaggi. Il carattere di Giulia, a chi lo guarda come felice combinazione del genio e dell’arte, che abbelliscono la natura imitandola, è lavoro da spaventare qualunque grande scrittore meditasse di fare altrettanto: e l’errore di Rousseau non consiste giá nella colpa in cui fa cader Giulia, bensí nel farla cadere con quell’amante: da che Saint Preux è carattere dispregevole; giovine altero a parole, e servile a fatti; spirituale e platonico in fantasia, ed epicureo sino alla crapola ed al postribolo; che non ha ingegno se non per raffinare de’ paradossi in proprio favore; non ha dialettica che per circuire di sofismi la misera vergine; non ha eloquenza che per [p. 118 modifica] sedurla; non ha coscienza che per inorgoglirsi della sua immaginaria virtú e adonestare per essa le libidini e il tradimento. Codesti individui stanno pur troppo in natura; ed oggi, da che la filosofia entra ne’ giovani assai prima dell’esperienza, s’incontrano piú che mai. Un inesorabile scrutatore del proprio e dell’altrui cuore ha detto che «nell’accesso delle violenti passioni, e molto piú nell’amore, che le attrae tutte a sé, e le irrita tutte, ed è irritato da tutte, la coscienza è spesso sí illusa, che giustifica gli errori e le colpe; e, quando gl’individui pur vedano d’avere strascinato sé e gli altri ne’ guai, confessano il danno, ma non il torto: sentono compassione e dolore di sé e degli altri, ma nessun rimorso o pochissimo: protestano in buona fede l’innocenza delle loro intenzioni; e, credendosi piú sventurati che rei, si rifugiano sotto lo scudo della loro coscienza»8. Or, se l’uso del mondo non avea travisato i personaggi di Rousseau, non s’illuse egli forse? non vide che i libri e le opinioni del mondo avevano modificato que’ cervelli e que’ cuori? e tanto peggio, quando i sistemi, di cui s’erano imbevuti da sé, non erano stati paragonati con l’esperienza sociale. Né Rousseau intendeva di fare del suo nuovo Abelardo un carattere abbietto: anzi gli ascrive tanto vigore d’animo e sí puro ingenito senso d’onestá, che nella seconda parte dell’opera lo rappresenta dotato di soprannaturali virtú. E siano virtú naturali: bensí, date quelle circostanze, sono pur rare anche ne’ cuori generosissimi, e rarissime ne’ Saint Preux: cosicché i giovani [p. 119 modifica] impareranno a sedurre com’esso le vergini, né potranno pentirsi com’esso. E quel misto di mortale e di angelico, che ha la sua Giulia, giustifica le colpe insieme e le virtú di lei, tanto vera è l’unione della schietta natura e dell’ideale in quel divino carattere; ma non giustifica mai l’essersi lasciata (userò due frasi dell’Ortis) «contaminare dalle braccia» di sí misero «animale umano». Ecco donde deriva quel non so che di «romanzesco incredibile», che Rousseau credeva pure di avere scansato: se non che vedesi chiaramente che il giusto, ma inopportuno desiderio di sfoggiare la sua facondia, l’ha ingannato; e pare che innanzi tratto avesse persuaso se stesso che le belle massime, eloquentemente espresse e riscaldate da molta passione, bastino a santificare le azioni di chi le detta. Intanto la doviziosa, elegante, affettuosa, ma calcolata eloquenza dell’autore traspare sempre da quelle lettere, che dovevano essere scritte nativamente da quegli svizzeri provinciali9, e adesca il lettore alla meraviglia, e lo svia dal cuore de’ personaggi; innalza la sua ragione a ideali contemplazioni di perfezione morale, in guisa che, benché il libro sia pieno di sentimenti naturali e di schiette pitture dell’umana societá, non trasfondono in chi legge né tanto né si profondo né sí lungo calore, da obbligarlo a meditare sovra le altrui e sovra le proprie passioni. E vuolsi distinguere «calore» da «fiamma»: il primo è dote di molti antichi scrittori e di tutti i primitivi, come la Bibbia ed Omero; e la seconda è dote moderna, per lo piú francese, specialmente in questi ultimi anni: onde certi romanzi, e anche le opere storiche uscite recentemente, furono da taluni chiamati «racconti infiammati di metafisica, che abbagliano e si risolvono in fumo». I primitivi scrittori avevano men libri da imitare e meno lettori sazievoli, de’ quali bisogna oggi consultare i discordi giudizi, e adulare il loro capriccio di novitá, e avere finanche rispetto alla fretta con che percorrono un libro. Gli antichi scrivevano le cose come le vedevano; esprimevano il senso, né piú né meno, che gli oggetti eccitavano nella lor anima; gli abbellivano de’ soli colori che ricavavano dalla propria immaginazione; ne desumevano sentenze ovvie e dirette, che sono quasi sempre le piú utili e le piú vere; esponevano le loro idee [p. 120 modifica] con la sola lingua che aveano succhiata col latte e che, essendo la sola a cui s’erano applicati, non potevano imbarbarirla e se ne giovavano da padroni: poi non si curavano d’altro. Oggi invece ogni scrittore si crede obbligato di percorrere la storia e la letteratura di tutti i secoli scorsi, d’ogni paese e di tutte le lingue contemporanee; la vanitá, mista all’impossibilitá di riescire, n’induce a mostrare di sapere quello che non sappiamo; le molte letture ci logorano l’intelletto; il nostro giudizio si affila tanto, che finalmente si spezza; lambicchiamo, anche ne’ romanzi, il perché d’ogni cosa; e, invece d’imitare l’oggetto tal quale la madre natura lo ha creato per gli occhi dell’uomo, tentiamo tutti i mezzi di guastarne la forma per arrivarne sino al midollo10: così ne’ romanzi i pensieri diventano or minutissimi, impercettibili, or generali e trascendentali, e vestiamo d’erudizione e di rettorica e di psicologia il racconto e i caratteri de’ nostri protagonisti. Si descrivono gli oggetti, non con gli alletti che hanno prodotto in noi, e ne’ gradi che possono produrre secondo la loro natura, bensí esagerandoli, affinché i lettori, infastiditi d’indigestione di libri, ne siano, volere e non volere, potere e non potere, commossi; si mendica l’entusiasmo nelle interiezioni e perfino ne’ punti ammirativi, e la morale filosofia nelle nuove nomenclature e nelle formole matematiche: cosi la «fiamma» risolvesi in «fumo»11... Pur non è da incolparsi Rousseau, se molti, [p. 121 modifica] aspirando a sorpassare le doti mirabili del suo stile, ne sorpassarono invece i difetti. Considerando la Nuova Eioisa come uno de’ primi e maggiori tentativi a ordire un romanzo tutto di sole passioni, senza varietá né stranezza d’avvenimenti, e mettendolo a fronte del Werther e dell' Ortis, è certo che la sua ricca magnificenza umilia, per così dire, la loro schietta semplicitá. Ma quanto hanno è tutto lor proprio, non accattato di fuori, bensí dal loro ingegno, dal loro cuore, e dall’esperienza, e dal dolore delle loro passioni; e non mostrano quant’hanno; e di quello che mostrano, non fanno pompa; ed è sufficiente al lettore ad affratellarsi con loro, a credere a tutte le loro parole, a compiangerli, a volerli quasi soccorrere, a penetrare nelle loro viscere esulcerate e osservare le piaghe, di cui al lettore non traspare se non l’angoscia. L’Ortis è meno semplice del Werther; non però meno schietto. Le sue circostanze politiche, che in altri tempi sarebbero forse state inopportune e stranissime dentro un romanzo, ma che oggi sono comuni quasi a tutti i viventi, dilatano la sfera delle sue idee; la sua educazione letteraria (della quale quantunque ei non ne parli, anzi dichiara di non volerne essere debitore alle universitá) traspare piú accurata dell’educazione di Werther; finalmente il suo ingegno è piú attento a ogni cosa, il suo modo di sentire è piú impetuoso; quindi, agitandosi piú oggetti nella sua fantasia, riesce men semplice del Werther. Ma non gli cede mai di schiettezza, appunto perché quanto dice, quanto opera, quanto pensa, è tutto spontaneo, vero, individuale e dettato da un vigore innato. Il lettore confessa che l’Ortis gli pare carattere nuovo e alle volte stranissimo, ma che pure è uscito tal quale dalle mani della natura, e non poteva né parlare, né pensare, né operare altrimenti. Il suo stile piglia improvvisamente vari colori dalla moltiplicitá degli oggetti, i suoi pensieri sono disordinati; e nondimeno lo stile ha sempre uno stesso tenore, mantenuto dal carattere dell’individuo, e il disordine forma un tutto che si direbbe composto armonicamente di dissonanze. [p. 122 modifica] Che importa che usi vocaboli antiquati, idiotismi toscani, locuzioni create da lui? Questa: «Tu m’hai inchiodata la disperazione nel cuore», qui è strana, a dir vero; ma la si vegga ove sta, e dopo di avere percorso le lettere precedenti: e allora, entrando nello stato di Iacopo, si sentirá la energia e non la stranezza di questa frase. La ruggine dell’antichitá in que’ vocaboli è emendata dall’evidenza, l’idiotismo dalla proprietá, la stranezza dalla necessitá, e le parole suonano sí forte dal cuore di chi le scriveva, che non ispiccano agli occhi, né s’ha tempo né sangue freddo da considerarle col microscopio grammaticale: e guai a chi, sgomentandosi di questo strumento nelle altrui mani, se ne serve un po’ troppo: sará senza critici, ma senza lettori. Che monta la spezzatura del periodo, se l’unitá del sentimento è sempre piena, intera, crescente? e la diversitá degli elementi, se tutti fanno una maniera sola, è coerente in ogni parte a se sola, ed è, nella sostanza e nelle forme, italiana?12. Non per altro è stile imitabile; perché né le passioni, né le azioni, né il modo di concepire d’un individuo è imitabile; e chi scriverá de’ libri secondando la propria natura, fará meno fatica e dará meno noia a’ lettori. Il discorso dell’Ortis, benché sia piú conciso, piú vario, piú aspro e piú cupo di quello del Werther13, è talvolta piú disteso e [p. 123 modifica] tal altra piú facondo. Ma nel primo caso egli era in istato di calma e discorre d’una civetta14; s’avvede, confessa e ne ride, d’aver voluto sfoggiare lo bello stile, e pare che gli fosse inspirato dal contegno artificiosamente grazioso di quella dama. Nel secondo caso, ov’ei discute le sue opinioni intorno al suicidio15, la facondia è piú dialettica che rettorica; e, perché non intende, com’ei pur dichiara, di convincere gli altri, ma d’illuminare se solo, adduce le altrui ragioni, ma le combatte senza insistere negli argomenti, e abbandona subito la questione; e in quella stessa lettera si smarrisce disperatissimo, cercando in mille oggetti, e nella storia del mondo, e nella sua patria, e nel suo tetto domestico, alcune ragioni di vivere; e invece da per tutto la sua mente funestata da piú tempo raguna sempre ragioni pel suicidio. Circa alla tessitura, era ardita impresa il far venire nella prima scena un accanito repubblicano, e che nondimeno abborre i filosofici sistemi di libertá; che non crede nella probitá naturale degli uomini, e non fida nella giustizia indipendente dalla forza; che insieme disprezza i tiranni, e nondimeno è costretto a temerli; cacciato dalla sua patria, sdegna di cercare asilo fuori della terra dove stanno seppelliti i suoi padri; disperato insomma d’ogni consolazione, suicida per indole d’anima e per sistema di mente; e dalla prima scena condurlo, per una lunga serie di affetti, di desidèri complicati e di ragionamenti, a una tarda catastrofe, e per via di pochi accidenti. L’autore rasserena invisibilmente il suo protagonista prima con illusioni di pace e d’ospitalitá e d’amicizia e di piaceri domestici e di vita indipendente nella solitudine; e lo infiamma d’amore che, incomincia a ristorargli l’anima dolcemente, e per piú mesi lo adesca in secreto di care speranze, e lo pasce della compiacenza di sacrificar non foss’altro la propria felicitá alla virtú della giovane amata. Ma nel punto in cui l’amore fa parere all’Ortis beatissima per due o tre giorni la vita, l’amore stesso il precipita alla frenesia del dolore. L’anima maschia del giovine trova in sé per poche ore qualche vigor di ragione, e se ne giova imprudentemente e va quasi alla fredda rassegnazione; ma tanto sforzo lo fa ricadere [p. 124 modifica] piú fieramente ne’ primi deliri, e, volendoli divertire con nuovi oggetti in un viaggio, esulcera con que’ medesimi oggetti la malattia d’animo, che lo riduce a morire. Ed ei dalle forze, che, com’ei dice, «poche ed estreme gli avanzano», ricava fermezza e coraggio e dignitá da prepararsi pacatamente la morte; e tutto è cagionato e mosso e continuato e variato da’ casi naturalissimi, minimi, aspettati, i quali, senza distórre il lettore dall’osservazione di quel cuore umano (che è l’unico scopo del libro), giustificano le sue mutazioni e ne fanno conoscere tutti i motivi. La catastrofe, non che volerla occultare, è manifestata sin dalle prime pagine e dal titolo del volume, e per ciò appunto lo spettatore sa che non trattasi di colpirlo, e si lascia pazientemente guidare di giorno in giorno, e d’ora in ora, ne’ laberinti dell’anima del suicida. Potrebbe essere giusta, non però è vera, la osservazione che la passione politica e l’amorosa sono dissonantissime in un romanzo; tanto piú che il mondo le vede raramente nello stesso individuo. Montaigne, che, stando sempre attentissimo al proprio cuore, ha filosofato imparzialmente sugli altri, ha creduto che le passioni politiche e le amorose regnino spesso contemporanee, ed ha particolarmente esaminato quale ceda piú presto. E vero che applicò le sue osservazioni sovra il padrone piú altero e piú forte della terra, che era sempre schiavo, e talvolta nel medesimo tempo, delle passioni politiche e delle amorose16. Però l’osservazione potrebbe essere giusta; ma non giá a’ nostri tempi, quando non v’è forse artigiano in chi le giornaliere passioni non siano fermentate da sistemi e sentimenti politici, a’ quali non manca altro che l’occasione, e si convertirebbero pur troppo in furore. E bensí canone d’arte, prescritto dalla natura, che le passioni diverse regnino in un solo individuo, a fine che, combattendo fra loro, facciano riescire tragico e vero il carattere, finché una vincendo l’altra solleciti la catastrofe. Notisi dunque che nell’Ortis il vero contrasto sta tra la «disperazione delle passioni» e «l’ingenito amor della vita»; e che gli affetti, eccitati in lui dalla giovane ch’ei desidera e che non può mai possedere, e dalla patria che ha perduto e ch’egli inutilmente anela di vendicare, somministrano appunto nuove armi alla disperazione contro il naturale orror della morte. Or, quando l’autore ha con verosimiglianza ideato o cavato dal vero il [p. 125 modifica] contrasto, v’era egli necessitá che la politica e l’amore cozzassero? Tanto piú, che l’una e l’altro sostengono d’alcuna speranza per diciotto mesi quel giovane disperato; né tutte e due prevalgono a un tempo: bensí l’amore piú lungamente e piú spesso fa quasi dimenticare al cuore dell’Ortis l’altra passione; finché, dopo d’avere tutte e due combattuto contro alla disperazione, e non vincono, sono costrette a congiungersi ad essa, e affrettano la catastrofe. E l’amore nell’Ortis assume da’ sentimenti repubblicani una tempra fiera e virile, per cui scemasi in parte la dissonanza che due passioni cosí dissimili devono necessariamente mandare. Per altro taluni non potranno trapassare di subito dall’una all’altra corda, e talvolta anche sentire i due suoni ad un tempo, e non essere frastornati da quella disarmonia d’elementi diversi. Pur nondimeno, quand’anche se ne avveggano tutti, è da dire che, poiché il libro ha tanti lettori, tal dissonanza non sia rincrescevole a molti. Ma, dove si voglia stare piú al ragionamento che al fatto, preghiamo che, quando prima non le abbiano esaminate, non notino di acutezza due o tre riflessioni, che in questo incontro faremo sovra le «passioni uniche» degli eroi di quasi tutti i romanzi antichi e moderni.

L’uomo va alla pazzia per due strade contrarie. Se l’individuo riceve troppe, e insieme lievissime e varie e mal certe sensazioni ed idee, delle quali nessuna è sí forte e sí stabile da lasciargli nell’anima mezzi di paragone e vigore di desiderio e determinazione di volontá, allora, quanto piú cresce in lui questo stato d’imbecillitá, tanto piú precipita nella «insensatezza»; e sí fatti pazzi sono per lo piú spensieratamente gai ed innocui. Se invece le sensazioni e le idee derivano da un desiderio unico, che le assorbe tutte e le riduce a una sola; e questa sia radicata e tenace ed estesa nell’anima, che non lasci piú luogo dove si pianti e vi si fermi lungamente alcun’altra diversa; allora, anche in questo individuo, mancano tutte le sensazioni e quindi le idee di paragone, senza delle quali la nostra ragione non può mai agire, e l’uomo diventa maniaco. Sí fatti pazzi sono per lo piú malinconici e pericolosi, ma piú facili forse a guarirsi, perché in essi la malattia non dipende, come negli altri, da poco, bensí dal troppo sentire. Però nelle tragedie, dove l’azione ha periodo di tempo assai circoscritto, può stare che il filosofo non pretenda che una «passione unica», concentrata in pochissime idee, tendente ad un sola oggetto, faccia impazzare il personaggio che la prova e la esprime. [p. 126 modifica] Ma, quando in un romanzo sia tragicamente protratta per anni, è da confessare che l’Ariosto, facendo impazzare Orlando e infuriar Rodomonte, fu il piú savio de’ romanzieri; e sarebbe stato savissimo, se la sua Bradamante, ch’ei pure vorrebbe farcela ammirare come altissima eroina d’Amore, avesse tanto quanto dato in pazzie, come pare che la n’avesse gran voglia. Le due vere eroine d’Amore sono in quel poema Isabella e Fiordiligi, caratteri i piú ingenui insieme e i piú caldi e i piú amabili che siano stati immaginati mai da poeta; e forse l’Ariosto li aveva osservati nelle donne che amò, e gli ha solamente animati del fuoco gentile che egli aveva inestinguibile nella sua fantasia. L’una di quelle due giovani, per congiungere candidissima l’anima sua all’anima del suo innamorato, si lascia avvedutamente mozzare il capo da chi voleva contaminarla: l’altra trova unico ed ultimo asilo alla sua vita il sepolcro del «signor suo»; e quivi, standosi in orazione di e notte, si lascia morire:

dalle lagrime attrita e dal digiuno.

E queste le sono pure due morti d’amorosa mania. E però, dove l’Ortis fosse arso sin da principio di men furore di patria, o in appresso di piú sopportabile amore, non sarebbe stato quel tal carattere che bisognava all’autore, o che piuttosto l’autore vedeva e voleva ritrarre dalla viva natura. E, se il giovine non avesse violentemente sentita che una sola passione, avrebbe (date le circostanze, la tempra d’anima e il modo suo di pensare) dovuto quasi poco dopo precipitare in una cieca mania. Se non che su le sue viscere corrose dalle passioni politiche l’amore sparge un poco di refrigerio; poi la politica gli rallenta di quando in quando la consunzione d’amore. E se quel cuore non fosse stato «scorticato così che ad ogni alito leggero si risentisse»17; se non fosse vero che (com’ei scrive d’avere provato) «in un’anima esulcerata e dove l’altre passioni sono disperate, l’amore riesca onnipotente»18, quel suo modo d’innamorarsi sarebbe stato, agli occhi de ’piú, eguale a tanti altri; e agli occhi esperimentati del cuore umano parrebbe assai men naturale e gratuito. Il vocabolo «passione» è incertissimo, e pare che dovrebbe significare «stato di dolore per un [p. 127 modifica] intenso desiderio protratto»: da che, alla stretta de’ conti, il «desiderio» è il principio ed il termine di tutte le nostre agitazioni. Ma, comunque si definisca il vocabolo, certo è che quanto la passione è piú intensa, tanto piú produce dolore, e che alcuni individui sono per indole costretti assai piú degli altri a cosí fatto stato di vita. E, quando ei vi si trovano, non s’ha da credere che quel solo desiderio che gli agita, benché predomini su la loro anima, la occupi tutta quanta. Anzi, perché la tiene in perturbazione continua, la rende piú mobile agli urti che gli altri desidèri le hanno dato e le danno; e fra questi è perpetuo il desiderio di fuggire appunto dalla passione predominante, la quale talvolta scuote l’anima in guisa da forzarla a cercare perturbazioni, se non men forti, almeno diverse, sí che possa alquanto sviarsi dal suo consueto dolore. Che se a un desiderio violento non ne sottentrasse alcun altro a esercitare le forze giá provocate ad abituale inquietudine, il furore maniaco o l’insanabile consunzione o il suicidio sarebbero inevitabili. Però l’Ortis, fatto, per la troppa interna inquietudine, inetto ad ogni riposata attivitá di mente e in istato di vita sfaccendata e solitaria, cerca qua e lá occupazioni nelle persone e negli oggetti che incontra, e talvolta li esamina e ne discorre; ma, riducendo le varie sue riflessioni a’ minimi termini, trova in tutte la disperazione ch’ei voleva fuggire. Poche sono le lettere dalle quali (per quanto le materie siano talvolta indifferenti e anche liete) il lettore non sia avvertito della desolazione di chi le scrivenota. Spesso l’Ortis, nella magnificenza della natura, nello spettacolo sublime de’ cieli, nel mondo rallegrato dall’alba, nel riposo cercato da tutti i mortali al tramontare del sole, nell’amenitá delle valli, nella pace solenne della notte e ne’ quadri campestri, che per lo piú sono l’unica sua compagnia, cerca de’ sentimenti che lo riconsolino, e ne ritrova; e descrive con espansione

19 [p. 128 modifica] la sua nuova gioia, come uomo che prova l’entusiasmo d’insolita contentezza. Se non che l’afflizione, che gli sta dentro, non concede lungo influsso a’ conforti ch’ei raccoglie di fuori. Bensí quanto di tristo gli entra di fuori, vi rimane a nutrire la nera fiamma che lo distrugge. E se vede «nel cielo tempestoso le stelle rare e pallide»; e se, mentre giace senza poter chiudere occhio, «ode diluviare; e se la luna mezzo sepolta fra le nuvole batte con raggi lividi le sue finestre»; e se trova su le alpi deserte d’abitanti e di cultura «le croci che segnano i luoghi de’ viandanti assassinati»; allora, non che voler descrivere sí fatti accidenti, gli accenna appena con pensiero atterrito, lasciando conoscere che gli si sono fitti nel cuore. Chiunque con questo avvertimento rileggesse il libro, e fra le altre la lettera 13 maggio20, s’accerterebbe, che quante cose di minuto in minuto, di passo in passo attorniano l’Ortis, prendono tutte colori e qualitá dalla sua cupa disperazione, e che il suo stato morale seconda sempre le variazioni fisiche del suo individuo. L’Ortis in quella lettera ammira una bella sera di primavera con estasi sí voluttuosa, che, lagrimando di gratitudine, chiede perdono a Dio d’avere trascurato di ristorarsi alle fonti inesauribili di piacere, che il cielo versa in tante guise a’ mortali. Ma non si tosto egli perde dagli occhi gli ultimi raggi del sole, e comincia a vedersi circondato dall’oscuritá, dal silenzio e dalla solitudine della notte, il suo primo entusiasmo si converte in soave calma di spirito; e, quantunque men lieto, scende sereno dalla montagna e si va soffermando a guardare il firmamento, e la sua mente «contrae un non so che di celeste»; poi vede nel piano la chiesa, e l’ombra degli alberi, e le fosse de’ morti, e, quasi disingannandosi dell’idea che l’uomo nato dalla terra possa mai aspirare al cielo, medita tristamente con fredda rassegnazione, dicendo: — «La materia è tornata alla materia». — Si sdraia spossato sotto quegli alberi, e la stanchezza delle sue membra a salire e discendere il monte, e del suo spirito applicatosi in sí poche ore con tanta tensione a spettacoli e a meditazioni cosí diverse, gli producono nell’anima un nuovo scoraggiamento e un vaneggiamento, che lo fa errare con tutte le reminiscenze e le speranze e le fantasie in mille pensieri, ne’quali, cercando l’umana felicitá, non ritrova [p. 129 modifica] altro che la nullitá della vita. Pareva che l’Ortis in questa lettera non avesse mai pensato a Teresa, e solo la nomina nell’ultima parola. Ma dal principio alla fine del libro si sente com’essa ristora di qualche dolcezza il cuore di lui e gli prolunga la vita. Questo carattere, come altri disse, «è muto e velato». Peraltro il lettore, da che s’è avveduto che l’Ortis è riamato, non solo indovina tutto quello che Teresa tace, ma può discernere, trasparente di sotto al velo, finanche il pianto che scorre dagli occhi della giovane innamorata. Assai cose poteva dire e fare Teresa, e stava all’amico di Iacopo l’inserirle nel ragguaglio, che, in via di commento alle lettere, ha dato a chi legge; e forse non ci fa sapere se non quel tanto che i riguardi al mondo gli concedevano. Inoltre, stando alle leggi dell’arte, si doveva avere riguardo al decoro. La scena è in Italia, e la fanciulla è italiana. Molte delle donzelle nobili in Italia amano quanto Teresa e con pari virtú, e vanno vittime silenziose al sacrifizio; e, se pur tentano di deviare la loro imminente sciagura, i loro tentativi riescono sempre vani ed ignoti: rare volte, finché sono nubili, il mondo le vede, massime in alcune cittá, ed è rarissimo che se ne parli. Se poi il loro contegno, quando sono accasate, non risponde a questa educazione e alla loro innocenza e alla specie di religione con che sentono sin da quindici o sedici anni l’amore, se ne incolpi l’uso di maritarle appunto come fu maritata Teresa. Chi ha viaggiato in Italia ha veduto come l’orgoglio e la scioperatezza e le ricchezze inducono quasi tutti i patrizi a costumi molli, ridicoli e abbietti, de’ quali le lor giovani mogli devono necessariamente partecipare. Le spose ricche nelle case patrizie non sono madri di famiglia; e, quando il volessero, non sarebbe lor conceduto d’ingerirsi nella domestica economia. Alla tirannide paterna che irritò le loro anime, a’ vizi de’ mariti che le corrompono, all’ozio che le induce a qualunque occupazione le liberi dalla noia, all’esempio delle loro madri guastate dalle stesse cause, aggiungasi certe confraternite di uomini, che, sotto colore di dirigere le passioni e di depurarle nelle ricche dame, le adulano. Quindi la sciagura di quelle misere, la sciagurata educazione de’ figli e la sciaguratissima fama delle italiane; benché molte, specialmente negli altri ceti, non abbiano potuto essere guaste dagli usi patrizi: ma il mondo non le conosce, e le poche splendidamente ree versano la macchia sovra tante altre, che vivono modestamente innocenti. E l’amor di Teresa per l’Ortis è pieno della religione di cui s’è dianzi parlato. Il carattere [p. 130 modifica] di lei spiega esattissimo quel verso suggerito dalla piú alta in amore e passionata fra le donne21:

L’amato nell’amata si trasfonde.

Infatti, benché Teresa parli assai poco e che le agitazioni del suo cuore siano raramente manifestate, si vede pure che assume molte qualitá del suo amante. E, come egli dalle soavi virtú di lei ha desunto il generoso proponimento di non contaminare mai l’innocenza della fanciulla; cosí essa dalla austeritá naturale, dalla fierezza e dalle massime, che vede in lui, di altèra onestá, è fatta piú severa e costante nella virtú. E chi esamina gl’innamorati, trova sempre che or l’uno or l’altro de’ due amanti predomina e che si vanno reciprocamente trasfondendo le lor qualitá. Generalmente si potrebbe asserire che la virtú delle giovani pende dalla generositá de’ loro amanti. E Teresa sarebbe assai meno amabile al cuore de’ lettori, e l’Ortis men da compiangersi, s’egli avesse tentato mai di sedurla. Ma il solo pensiero di sedurla, che l’amore furente gli desta alle volte nell’anima, lo strazia poi lungamente d’atroci e quasi superstiziosi rimorsi. «La sua virtú ... e non tanto la sua virtú, quanto la sua passione, mi sgomentava: sentiva e sento il rimorso di averla io primo eccitata nel suo cuore innocente. Ed è rimorso... rimorso di tradimento... Ahi mio cuore codardo!»22. Né mai si scorge un minimo indizio ch’egli volesse stornare le nozze di lei o dissuaderla dalla obbedienza filiale: anzi nella lettera23, che prima di partirsi ei le scrive, comincia a prepararla egli stesso a quel sacrificio; e, quando alfine Teresa lo consumò, e l’Ortis decretò di morire, ei le lascia in ereditá de’ consigli per tollerarlo24. Onde chi biasima l’inazione e il silenzio di quella giovine e ne loda il virginale carattere, non s’avvede che, ov’ella avesse operato o parlato, non avrebbe piú quel carattere. E quei che inoltre vorrebbero vedere un nodo di romanzo tessuto da tutti i personaggi introdotti nell’Ortis, e sciolto verso la fine da tutti, avrebbero dovuto fare tre riflessioni. L’una: che. se i fatti fondamentali sono veri, e sono [p. 131 modifica] corse, oltre a quelle dell’Ortis, dell’altre lettere scritte da que’ personaggi, sarebbe stato disonestá il pubblicarle, e maggiore disonestá il foggiarne delle verosimili; da che molte persone, a cui que’ fatti non erano al tutto ignoti, le avrebbero tenute per vere. L’altra: che il libro è intitolato Ultime lettere di Iacopo Ortis, le quali non hanno altro scopo se non questo unico, di far penetrare i lettori nell’anima d’un suicida; e però i personaggi accessori parlano e agiscono quanto basta all’intento. La terza: che di que’ personaggi i caratteri sono distinti in guisa che si può non solo discernere da quali interessi ciascuno è mosso, ma con che indole d’animo, e con quanto calcolo, e con quanta passione. Il signor T***, benché sia ingiustamente severo con la sua figlia, muove a stimarlo e ad averne pietá, sí per le sue circostanze domestiche e i pericoli politici, che lo costringono ad imparentarsi ad un uomo potente, e sí per l’amorosa compassione ch’egli ha per Teresa, e per la leale fiducia con la quale ha sempre trattato l’Ortis. Odoardo non commette ingiustizia veruna, e dovrebbe ispirarci pietá, perché si direbbe ch’ei, senza averla mai meritata, abbia contro di sé l’avversione di tutti; e nondimeno ci muove a sdegno per la fredda inflessibilitá con che persiste ad ammogliarsi a una fanciulla la quale non pare creata per lui. La madre di Iacopo non è che madre e cristiana; ma tale, che, dov’ella nell’ultime scene si lascia vedere per quell’unica volta, apre il cuore de’ lettori a sensi di compassione, tutti nuovi fino allora in quel libro. Se non che forse questi caratteri saranno stati dal piú al meno un po’ travisati. L’unico che si possa dire ritratto dal vivo è di certo il protagonista. E l’autore merita lode, non per l’arte con che, da quanto abbiamo considerato sin qui, si potrebbe credere ch’egli avesse tessuto il romanzo; bensí per avere copiato con esattezza o da se stesso o da qualche altro individuo un carattere d’uomo, che, quantunque non s’incontri frequentemente, si confessa a ogni modo che è carattere vero, e de’ nostri tempi, e creato dalla natura: e l’autore, col solo copiarlo, ha ricavato, e spesso fuor d’intenzione, molti effetti, che poi, ragionandovi sopra, si stimano frutto delle meditazioni dell’arte. Ma l’arte avrebbe scelto lavoro diverso, perché sarebbesi accorta che, oltre alle colpe in cui l’autore è caduto nell’esecuzione, vi sono degl’inconvenienti inerenti al soggetto ed inevitabili, e insieme certa qualitá di bellezze, delle quali l’arte non avrebbe potuto giovarsi, o non si sarebbe forse attentata.

  1. In questo, come ne’seguenti paragrafi, le ragioni controverse le abbiamo trasunte dalle prefazioni de’ traduttori, da parecchi giornali letterari e articoli di diverse gazzette italiane e francesi, e principalmente dal Giornale di Padova, 1803; dal Quarterly Review; dal primo numero del Giornale italico di Londra; dal Breve esame delle «Ultime lettere», pubblicato di fresco in Italia e che dicesi estratto dall’Edimburgh Review (giornale che noi non abbiamo veduto); dai Kleine Aufsätze von Luden, pp. i-xiii e pp. 91-129; e da parecchi scritti inediti, come la Lettera al signor Bartoldi, e alcune altre di cui nomineremo gli autori a suo luogo.
  2. Infatti un dramma intitolato Iacopo Ortis, che da comici italiani si recita da qualche anno in qua, è tessuto di avvenimenti che non sono nel libro, e sembrarono indispensabili a’ comici a non far languire le scene o protrarle, siccome in molti drammi tedeschi, con le solite meditazioni malinconicamente fredde sopra gli affetti e le miserie dell’uomo.
  3. Lettera 20 novembre [di questa edizione, I, 265].
  4. Lettera dell’abate Saverio Bettinelli, in data di Mantova, iS novembre 1802, posseduta dal signor Camillo Ugoni, gentiluomo di Brescia. La riportiamo come sta nell’autografo.
  5. Avendo riserbato l’estratto de’ paragoni instituiti fra il Werther e l’Ortis al seguente paragrafo, premettiamo in questo le osservazioni teoriche spettanti a’ due libri, e quelle sole applicazioni particolari che si riferiscano all’Ortis.
  6. Del giudizio, che segue intorno la Nuova Eloisa, era nostra prima intenzione di non riportarne se non quanto bastasse a far, col paragone, conoscere il Werther e l’Ortis. Poi ci siamo riconsigliati di non accorciarlo che di pochi periodi, pensando che trovasi in un articolo destinato per l’appunto al romanzo italiano, e che inoltre giova a spiegare la teoria sui romanzi semplici, e che finalmente non rincrescerá a’ piú de’ lettori di trovar qui un esame che, se non è nuovo, pare almeno imparziale ed esatto sul romanzo piú celebre del secolo addietro.
  7. Vittorio Alfieri, nella sua Vita.
  8. Cosí conclude l’operetta Senis escussa praecordia d’autore anonimo, pubblicata dopo la sua morte, e tradotta dal latino in inglese su la fine del secolo scorso. Il primo de’ tre brevi paragrafi, che compongono la prefazione, dice: «Scrivo l’esame della mia coscienza nell’anno sessantesimoterzo dell’etá mia, e sopra una azione sola della mia vita: azione non condannabile dalle leggi, non disonesta davanti il maggior numero degli uomini, giustificabile con l’uso e le opinioni del bel mondo, assolvibile da qualunque giudice per documenti e per recriminazioni giuste contro a’ miei complici, utile per l’intenzione secondo alcuni casisti ed inevitabile secondo altri; finalmente azione non funesta negli effetti suoi e, mentr’io la commetteva, non disapprovata dalla mia coscienza, anzi calcolata col mio raziocinio, ma dalla quale nacquero, subito dopo, rimorsi piú colpevoli dell’azione stessa; poi, raffreddandosi le passioni che m’indussero a commetterla, il tempo fece men disperati e piú giusti, e piú evidenti, e piú tenaci i rimorsi, che si mantennero pel corso di ventotto anni, e vi si mantengono vivi: onde ho qui brevemente ristretti tutti i moti, i pentimenti, le consolazioni, i dolori, i ragionamenti dell’anima mia d’allora in qua, non tanto ad utilitá altrui quanto a mio lume e consolazione, e per educarmi ne’ miei giorni canuti a fidare con umiltá e senza terrore nella misericordia di Dio».
  9. Nelle sue Confessioni, ove parla della seconda parte dell’Eloisa, se ne compiace come «d’un chef d’oeuvre de diction».
  10. Un pittore, che, per emulare Michelangiolo, aveva fatto tante notomie sovra i corpi morti da sfidarne un dottore, nominava grecamente a un altro pittore i muscoli tutti e le cartilagini, ecc. — Sta bene — gli fu risposto: — Michelangiolo ad ogni modo sa rimpiattare sì laide cosacce a lor luogo; e, non che mostrare ch’ei ne abbia imparato le litanie, coprele di tal fatta, da non lasciar parere ch’ei abbia patito di vederle scarne, fetide, sozze e senza moto o calore, come te le hai vedute tu ne’ cadaveri e le si veggono ne’ quadri. — E fu graziosissima la lezione di lady R*** a quel poeta, che un giorno di crudo verno recitavale al camminetto un suo componimento sovra la rosa.
     La dama sviò gli occhi dal poeta, e li tenne attentissimi sopra il suo sottopiedi di felpa a rabeschi. L’autore si richiamò seco della distrazione. — Che? — gli rispose la dama — non m’avete voi forse fatto venire il capriccio di trovare in questa stagione una rosa? Ma voi me l’avete sminuzzata in tanti petali, e stami, e che so io; poi mandandola al tempio dell’amore universale a celebrare le sue nozze, me l’avete fatta smarrire dagli occhi; e il mio capriccio di vedere una rosa non s’è smarrito: però ne guardo una qui, ricamata come Dio vuole su la felpa verde del mio sottopiedi (Nota dell’articolo inglese).
  11. Di questi discorsi intorno al «calore» e alla «fiamma» si poteva far senza. Gli abbiamo ad ogni modo lasciati in parte come stanno nell’articolo inglese in grazia di chi traduce e legge de’ romanzi francesi e tedeschi in Italia: e non prima avremo occasione, gl’inseriremo anche in tedesco in qualche giornale di Germania, affinché da’ letterati di quella nazione s’esamini se sono degni di confutazione e di chiose; e allora v’aggiungeremo tutto quello che segue intorno allo stesso argomento, e che qui, per iscansare la troppa prolissitá fuor del luogo, abbiamo stimato di ommettere.
  12. Il prof. G. Gasparo Orelli, che ne’ felici suoi esperimenti di traduzioni d’alcuni squarci del Machiavelli, e nell’opera Beyträge zur Geschtchte der italienischen Poesie, 2 Theile, Zürich, 1810, ha dato alla Germania una generale e insieme precisa idea della letteratura degl’italiani, ed è versatissimo nel loro idioma, parlando per incidenza dell’autore a cui (vedi l’appendice al paragrafo vii) s’ascrivono le Ultime lettere, disse: «Questo scrittore è chiamato dalla natura a padroneggiare la sua lingua e ad ispirarle, con modi tutti propri a lui solo, e nulladimeno tutti conformi all’intima natura di essa, una nuova vita. Egli tiene il giusto tra il francesismo scientifico de’ toscani d’oggi e il toscanismo pedantesco imparato da’ lombardi sulle grammatiche; due vizi, che, mentre oggi in Italia combattono con armi diverse a chi vincerá, s’agguerriscono piú ostinatamente a disertare la lingua».
  13. «Goethe’s Leiden des jungen Werthers sind deswegen so hinreissend für Leser von alien Altern und Ständen, weil der Held dieser Dichlung nicht die Sprache eines Schriftstellers, sondern die ganz einfache eines Liebhabers führt. Seine Leidenschaft ist zu stark, urn den Ausdruck derselben in rhetorischen Figuren zu verschwemmen, oder vielmehr ist seine Liebe zu rein, um nach den Flitterstaat schöner Worte zu haschen» (Il signor Goethe ha chiamato a quel libretto lettori d’ogni ceto, d’ogni mente, d’ogni opinione ed etá, perché quella eloquenza non è d’autore, ma d’innamorato, e di tal amore da non affogare con figure rettoriche i suoi pensieri: né una passione sí ingenua può andar a caccia d’orpelli, di raffinatezze, e d’abbellimenti) H. H. Füssli. L’ingenuitá d’uno stile, che ritrae al vivo la fisonomia d’una anima giovanile piena d’una sola passione e intenta ad un solo oggetto, è uno de’ giusti motivi per cui molti antepongono il Werther all’Ortis, che è «vero», ma non «ingenuo». Vedi il paragrafo seguente.
  14. Padova, 11 dicembre [di questa edizione, i, 272-4].
  15. Ventimiglia, 19 e 20 febbraio [ii, 29-36].
  16. Vedi il capitolo Se l’ambizione possa piú dell’amore: e parla di Giulio Cesare.
  17. Lettera 6 febb. 1799 [di questa ediz., ii, 20].
  18. Lettera 17 marzo 1798 [i, 285].
  19. Veggansi fin dal principio del libro le conclusioni delle lettere: 18 ottobre [ii, 257]; 24 ottobre [i, 258]: 26 ottobre [i, 259], e della lettera 12 novembre [i, 251-2], dove ei parla d’un’allegra festa di contadini. Ma, piú che altra, veggasi la lettera 17 aprile [i, 291-6] e le varianti relative [ii, 71]. L’Ortis ringrazia la Natura de’ benefici che essa ha diffuso sopra la terra, e incolpa gli uomini d’essersi reciprocamente spogliati di que’ benefici, per dividere la societá in ricchi tiranni e in poveri servi, «contra il decreto della madre benefica ed imparziale verso tutti i suoi figli»; e, senza verun ragionamento intermedio, prorompe: «La Natura? ma se ne ha fatti quali pur siamo, non è forse matrigna?». Questa esclamazione fu, come molti altri passi, ommessa in alcune edizioni; forse per timore di corollari pericolosi.
  20. [Di questa ediz., i, 305 - 8 ].
  21. Idea ripetuta da Eloisa in tutte le sue lettere latine ad Abelardo, dalle quali Pope ha ricavato la piú bella delle sue poesie.
  22. [La lett. a p. 309, vol. i di questa edizione; il passo, la var. in questo ii vol., p. 75].
  23. [Pagine 324-6, vol. i, di questa ediz.].
  24. [Pagine 49-50, vol. ii, di questa ediz.].