Nigrino
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III.
NIGRINO,
o
DE’ COSTUMI D’UN FILOSOFO.
LETTERA A NIGRINO.
Luciano a Nigrino salute.
Il proverbio dice: Non portar nottole in Atene: infatti saria ridicolo chi ne portasse dove ce ne ha tante. Ed io, se per desiderio di sfoggiar dottrina ed eloquenza scrivessi un libro e lo mandassi a Nigrino, farei ridere, e davvero gli porterei nottole a vendere. Ma perchè io non voglio altro che mostrarti in quanto pregio ti ho, e come serbo riposti in cuore i tuoi ragionamenti, spero che non mi si potrà dire quella sentenza di Tucidide, che l’ignoranza fa l’uomo ardito, la riflessione cauto. Perchè egli è chiaro che di questo mio ardire non è cagione la sola ignoranza, ma anche l’amore che io ho ai tuoi ragionamenti. Sta sano.
Luciano ed un Amico.
L’Amico. Con che aria, con che contegno grave sei ritornato! Non ci degni d’uno sguardo, non ci fai motto, non ti accomuni ai soliti discorsi, ma sei mutato subito ed entrato nel superbo. Dimmi un po’, donde ti viene tanta boria, e perchè questo?
Luciano. Perchè? Ho avuta una gran fortuna, o amico mio.
L’Amico. Come dici?
Luciano. Eccomi all’impensata divenuto felice, beato, e, come si dice su la scena, strafortunatissimo.
L’Amico. Oh! così presto?
Luciano. Sì.
L’Amico. Ma che gran cosa è cotesta che ti gonfia tanto? Per rallegrarcene vogliamo saperla, e non così solamente in aria, ma particolarmente: informaci di tutto.
Luciano. Non ti pare cosa mirabile, per Giove! ch’io di servo son divenuto libero, di povero veracemente ricco, di stolto e di sciocco son divenuto assennato?
L’Amico. Cosa grandissima; ma non ancora intendo bene che vuoi dirmi.
Luciano. Io andai a dirittura a Roma col proponimento di vedere qualche medico d’occhi, perchè il male a quest’occhio più mi cresceva.
L’Amico. Sapevo cotesto, e desideravo che tu venissi a mano di qualche medico valente.
Luciano. Adunque volendo io da molto tempo ragionar con Nigrino, il filosofo platonico, mi levai presto una mattina per giungere a casa sua; e picchiata la porta, e detto al servo chi ero, entro, e lo trovo con un libro in mano, ed accerchiato da molte immagini di antichi sapienti. Nel mezzo della stanza era una tavola scritta di figure geometriche, ed una sfera fatta di canne, che, a quanto mi parve, rappresentava il mondo. Con grande affetto ei mi abbracciò, e dimandommi che fossi venuto a fare. Io gli dissi il tutto; e poi volli anch’io sapere da lui che facesse, e se pensava di ritornare in Grecia. Com’egli cominciò a parlare di queste cose, e ad aprirmi il suo pensiero, mi riempì di tanta dolcezza di parole, che mi pareva, o amico mio, di udir le Sirene, se mai ve ne furono, o i rosignuoli, l’antico loto1 di Omero: sì divine cose diceva! Perocchè il discorso lo condusse a lodare la filosofia, e la libertà che da essa deriva, ed a spregiare quei che il volgo crede beni, la ricchezza, la gloria, la potenza, gli onori, l’oro, la porpora, ed altre cose tanto ammirate da molti, ed una volta anche da me. Io accogliendo il suo discorso nell’anima mia attenta o desiosa, non ti so spiegare ciò che sentivo: era un rimescolamento di pensieri e di affetti: ora mi dispiacova di udir disprezzare cose a me carissime, le ricchezze, le grandezze, la gloria, e quasi piangeva su gli strapazzi che egli ne faceva: ed ora quelle stesse cose mi parevano vili e spregevoli, e mi rallegravo come se, vissuto per l’innanzi in un aere tenebroso, venissi a riguardare il sereno ed una gran luce. Onde (e questa e più nuova), mi dimenticai dell’occhio e del male, ed in breve acquistai acutissima la vista dell’anima, che fino allora era stata cieca, ed io non me n’ero accorto. E così finalmente son divenuto quale tu testè mi chiamavi: sì, son superbo e fiero per quel ragionamento, e più non m’abbasso a piccoli e vili pensieri. Perciocchè mi pare che in me la filosofia abbia fatto ciò che fa il vino agl’Indiani quando lo bevono la prima volta: che quelle calde nature, bevendo così poderosa bevanda, danno subito in delirio, e a doppio degli altri uomini impazziscono. Così io men vo tutto invasato ed ebbro di quei discorsi.
L’Amico. Non è ebbrezza cotesta, ma sobrietà e saggezza. Tu mi hai messa una gran voglia di ascoltare da te quei discorsi. Oh, non dirmi di no: chi vuole udirli t’è amico, ed ama gli stessi studi.
Luciano. Non dubitare, o amico: tu sproni chi s’affretta, come dice Omero: se tu non mi avessi prevenuto, io ti avrei pregato di udirmeli contare. Io voglio che tu mi sia testimone innanzi alla gente che non senza ragione io ne son matto: ed anche ho un gran diletto a ricordarmene spesso e meditarvi sopra, come facevo testè: che quando non ho con chi parlarne, tra me stesso li rumino due e tre volte il dì. E come gli amanti, lontani dalla persona amata, ricordano certe azioni, e certi discorsi tenuti insieme, e di questi pascendosi ingannano la loro passione; e talvolta, come se fosse presente l’amor loro, credono di parlargli, si piacciono di riudirne le risposte che già ne udirono, ed hanno l’anima così piena di queste memorie che non si addolorano d’altro male presente; così anch’io lontano dalla filosofia, raccogliendo e rivolgendo tra me stesso le parole che udii, ho un grande conforto. In somma io, come traportato per un pelago in buia notte, rivolgo l’occhio a questa face; e credo che a tutte le mie azioni sia presente quel grande uomo, e mi pare sempre di udirlo ripetermi quei discorsi: e talvolta, specialmente quando più vi attacco l’anima, mi apparisce la sua persona, e l’eco della sua voce mi rimane nell’orecchie, che davvero, come dice il comico, ei lascia un pungiglione in quei che lo ascoltano.
L’Amico. Lascia un po’ cotesto ricercate, o amico mio; ripiglia il filo del discorso, e contami ciò che ti disse: se no, con tanti aggiramenti mi opprimi.
Luciano. Ben dici, e così va fatto. Ma vedesti mai, o amico, quei goffi istrioni che guastano le tragedie o le commedie, dico quelli che sono fischiati ed infine scacciati dal teatro, benchè rappresentino drammi molte volte applauditi e premiati?
L’Amico. Ne ho veduti tanti! ma che vuoi dire?
Luciano. Temo che non ti parrò anch’io un ridicolo istrione, esponendoti disordinatamente le cose, e talvolta guastando, pel mio poco conoscere, il suo sentimento; e che così a poco a poco tu non giungerai a biasimare anche il dramma. Per me non mi dolgo: ma mi dorrebbe assai se il dramma cadesse o scomparisse per cagion mia. Insomma ricordati, mentre io parlo, che il poeta non ha colpa dei falli miei, che sta lontano dalla scena, che non si briga di ciò che accade in teatro. Io voglio darti una pruova del mio valore, della memoria che ho, facendo la parte di un nunzio in una tragedia. Onde se dirò qualche sciocchezza, e tu di’ subito che la non era così, che certamente il poeta disse altro: per me poi, se anche mi fischierai non me ne offenderò.
L’Amico. Bravo, per Mercurio! hai tirato un proemio secondo tutte le regole della rettorica. Avresti dovuto aggiungere che il vostro ragionamento fu breve; che tu lo riferisci così alla buona senza esservi apparecchiato; che saria ben diverso a udir lui stesso parlare; e che tu dirai poche cose, quante hai potuto ritenerne a memoria. Non eri per dire anche questo? Ma con me non è mestieri di tanto: fa conto di avermelo già detto, ed io sono già pronto ad applaudirti a gran voci. Ma se indugerai più, mi verrai in uggia, e farò una solenne fischiata.
Luciano. Cotesto sì volevo dirtelo, e un’altra cosa ancora: che io non ti riferirò tutto con quell’ordine e in quel modo che egli diceva; che ciò mi sarebbe impossibile. Nè gli attribuirò parole mie, per non parer simile a quegli altri istrioni, che spesso si mettono la maschera di Agamennone, di Creonte, di Ercole, vesti sfoggiate d’oro, hanno una guardatura terribile, aprono tanto di bocca, e cacciano una vociolina di femmina più sottile di quella di Ecuba o di Polissena. Perchè dunque non sia ripreso anch’io che mi metto una maschera più grande del capo, e disonoro la veste che prendo, a faccia scoperta voglio ragionare con te; e così, se cado, non istorpio l’eroe che rappresento.
L’Amico. Oh, costui oggi non la finirà con tante filastrocche di scena e di tragedia.
Luciano. Ora finisco, e torno a bomba. Ei cominciò il discorso da una lode alla Grecia, specialmente agli Ateniesi, perchè, educati nella filosofia e nella parsimonia, guardano di mal occhio quel cittadino o forestiere che si sforza d’introdurre il lusso tra loro: anzi se vi capita qualcuno cosiffatto, a poco a poco te lo correggono, lo ammaestrano, lo riducono a vivere alla semplice. E ricordava uno di questi ricconi, che venuto in Atene con grande sfarzo, lungo codazzo di servi, tante vesti ed oro, si pensava di fare gran colpo in tutti gli Ateniesi, ed esser riguardato come felicissimo. Ma il pover uomo fece pietà; e presero a medicarlo di quella boria, ma senza asprezza, senza vietargli apertamente di vivere come voleva, in una libera città. Quando nei ginnasii e nei bagni egli era molesto pei tanti servi che urtavano ed impacciavano la gente, taluno sottovoce, fingendo di non voler essere inteso, come se non l’avesse con lui, gittava un motto: Teme che non l’uccidano mentre si lava. Oh, da tanto tempo sta in pace il bagno: che bisogna un esercito? Quegli udiva il motto, e si correggeva. Le vesti sfoggiate, e la porpora gliele fecero smettere, dando un po’ di baia cittadinesca a quei fiori che vi aveva dipinti di tanti colori: Oh! ecco già primavera! Donde vien questo pavone? Certo è la veste della mamma. E con cotali altre piacevolezze lo motteggiavano per le moltissime anella che portava, per la coltura della zazzera, per la rilassatezza del vivere: per modo che tosto egli si fu moderato, e se ne partì molto migliore che non era venuto, stato così corretto dal popolo. Per dimostrarmi poi come non si vergognano di confessare che ei son poveri, ricordava di una parola che egli udì dire da tutti gli spettatori nei giuochi delle Panatenee. Preso un cittadino e menato all’agonoteta, perchè assisteva allo spettacolo avendo indosso un mantello colorato, tutti gli spettatori n’ebbero pietà e pregavano per lui: e quando il banditore pubblicò che colui aveva trasgredito alle leggi essendo in quella veste allo spettacolo, gridarono ad una voce tutti, come se si fossero indettati, doverglisi perdonare, se era vestito così, perchè non aveva altro. Queste cose egli lodava, e la libertà, la sicurezza, il silenzio, e la pace che sempre si gode tra essi: e mi dimostrava che questa maniera di vita è conforme alla filosofia, serba i costumi puri, e per un uomo di studi che sa sprezzare ricchezza e vuol vivere onestamente secondo natura, è molto accomodata. Chi poi ama la ricchezza, e si lascia abbagliare dall’oro, e misura la felicità dalla porpora e dalla potenza, senza aver mai gustato libertà, nè conosciuto franchezza di parlare, nè veduto verità, e fu allevato tra adulazione e servitù; chi va perduto dietro la voluttà, e non cerca, non adora altro che squisiti desinari, e bere, e lascivie, ed è pieno di furfanterie, di lacciuoli, di bugie; chi si piace di udire continui suoni e canti lascivi, a costoro ben conviene la vita che si mena in Roma. Quivi tutte le vie e tutte le piazze son piene di cose ad essi carissime; per tutti i sensi entra la voluttà, e per gli occhi, e per le orecchie, e per il naso; e con tutti i solletichi della gola e della lascivia: è un fiume continuo che si dilarga per ogni dove, e nella sua torbida corrente mena l’adulterio, l’avarizia, lo spergiuro, e simili lordure; inonda tutta l’anima, ne porta via il pudore, la virtù, la giustizia, e nel luogo che in essa rimane vuoto ed arido, crescono molte e fiere passioni.
Cosiffatta egli mi dipinse la città e di tanti beni maestra, e soggiunse: Quand’io la prima volta tornai dalla Grecia, avvicinandomi a questa città, sostai, e dimandai a me stesso, perchè ci ritornavo, dicendo quelle parole d’Omero:
O sfortunato, perchè lasci il caro
Lume del sole,
Dalla strage, dal sangue, e dalla mischia,
deliberai di rimanermene in casa pel resto de’ miei giorni; e sceltami questa vita, che a molti pare timida e molle, io mi sto a ragionare con la filosofia, con Platone, con la verità. E messomi qui, come in un teatro d’innumerevoli persone, io dall’alto riguardo le cose che avvengono, delle quali alcune mi danno spasso e riso, ed alcune ancora mi provano qual uomo è veramente forte. Se dei vizi si può dir qualche lode, non credere che si possa meglio esercitar la virtù, e provar meglio la saldezza dell’anima, che in questa città, e nella vita che qui si mena. Non è piccola cosa contrastare a tante passioni, a tante voluttà che per la vista e per l’udito ti attirano da ogni parte, e ti combattono: e si deve, come Ulisse, passar oltre, non con le mani legate, che saria viltà, nè con le orecchie turate con cera, ma sciolto, udendo tutto, e con animo veramente superiore. Ben si può ammirare la filosofia paragonandola a tanta stoltezza, e spregiare i beni della fortuna guardando, quasi in una scena o in un dramma di moltissime persone, chi di servo diventa padrone, chi di ricco povero, chi di povero satrapo o re, chi entra in grazia, chi cade in disgrazia, chi va in esiglio. E il più strano è, che quantunque fortuna dimostri col fatto che ella si prende giuoco delle cose umane, e dica chiaro che nessuna di queste è stabile, pure a queste riguardano sempre tutti, anelano alla ricchezza ed al potere, e si pascono di speranze che non si avverano mai. Ti ho detto che di alcune cose posso ridere e spassarmi: ora ti dirò di quali. Come non ridere di quei ricchi che pompeggiandosi sciorinano la porpora, allungano le dita cariche di anella, e mostrano la loro grande vanità? E che stranezza è quella di salutar le persone con la voce altrui, credendo di far cortesia a degnarle solo d’uno sguardo? E i più superbi si fanno anche adorare, non da lungi, come è l’usanza de’ Persiani, ma uno deve avvicinarsi, inchinarsi, rappicciolirsi nell’animo e nella persona, e baciar loro il petto la mano destra; e tutti guardano e gl’invidiano questo onore: e quel figuro del ricco stassene a ricevere per molto tempo quelle carezze bugiarde. Una sola cortesia ci usa, di non farsi da noi baciare la bocca. Ma molto più ridicoli dei grandi sono coloro che li accerchiano e li corteggiano; e che, levandosi a mezzanotte, vanno correndo per tutta la città, senza curarsi che i servi li scacciano, e li chiamano cani e adulatori. Premio di questo disonesto correre è quella disonesta scorpacciata che loro cagiona mille malanni: e dopo d’aver diluviato, dopo d’essersi imbriacati, dopo di aver dette tante scostumatezze, se ne vanno scontenti o corrucciati, e dicendo che il banchetto è stata una miseria, una spilorceria, un vero insulto per loro. Intanto li vedi andar vomitando pe’ chiassuoli, e rissarsi innanzi ai bordelli: molti vanno a dormire a giorno fatto, e danno faccende ai medici che corrono per la città; ed alcuni (che è più strano) non hanno neppure l’agio di stare ammalati. Io per me, molto più degli adulati, tengo per birbe gli adulatori; perchè essi li fanno così superbi. Quando essi ne ammirano lo sfarzo, ne vantano la ricchezza, dall’alba si affollano innanzi alle loro porte, e avvicinandosi parlano loro come a padroni, che debbono quelli pensare? Ma se di comune accordo, anche per poco, si astenessero da questa volontaria servitù, non credi tu che anderebbono i ricchi alle porte dei poveri, e li pregherebbero di venire a vedere la loro felicità, a godere della bellezza delle mense, della magnificenza dei palagi? Essi non amano tanto la ricchezza, quanto esser tenuti beati per la ricchezza. E così è: una casa tutta sfoggiata d’oro e di avorio non piace a chi l’abita, se non v’è chi l’ammira. Così basserieno le creste, quando alla ricchezza si contrapponesse il disprezzo: ora sono adorati; che maraviglia è che insolentiscono? E che facciano questo gli sciocchi che confessano apertamente la loro ignoranza, passi pure; ma che quelli che si spacciano per filosofi, discendano anche a più ridicole bassezze, questo è brutto assai. Oh! come sento rimescolarmi l’anima quando vedo alcuno di costoro, massime de’ vecchi, misto al gregge degli adulatori, far codazzo a qualche grande che lo ha invitato a cena, e andare strettamente ragionando con lui, facendosi distinguere pel mantello, e mostrare a dito. E quel che più mi spiace, non mutano vesti, avendo tutto mutato, e rappresentando un’altra parte nel dramma. E nei conviti-quali brutture non fanno? s’empiono scostumatamente, s’imbriacano sfacciatamente, si levan di tavola gli ultimi, pretendono di portarsi via il meglio, e spesso per darsi un’aria di leggiadria giungono sino a cantare. Queste cose egli stimava degne di riso. Specialmente poi ricordava di quelli che per prezzo insegnano filosofia, ed espongono in vendita la virtù come fosse roba da mercato; onde chiamava botteghe e taverne le loro scuole, perchè credeva che chi insegna a spregiare ricchezza, deve prima egli esser lontanissimo da ogni guadagno. E in verità egli ha fatto sempre così; non pure insegnando gratuitamente, ma dando del suo ai bisognosi, e spregiando ogni soverchio per sè. E non che desiderare l’altrui, egli lascia perire anche il suo e non vi bada: possiede un podere non lungi dalla città, e per tanti anni non v’è andato mai, anzi non dice neppure che n’è padrone, forse perchè egli stima che di cotali cose noi per natura non siamo padroni, ma per legge e per successione ne riceviamo l’uso in tempo indeterminato, siamo padroni di breve durata; e, passata l’ora nostra, se le piglia un altro con la stessa condizione. E poi egli è un bell’esempio, a chi vuole imitarlo, di frugalità nel cibo, di moderazione negli esercizi, di dignità della persona, di semplicità nel vestito, e sopra tutto di compostezza di mente e di dolcezza di costumi. Esortava quelli che ragionavano seco a non differire a fare il bene, come molti che dicono: dal tale di comincerò a non dire più bugie, dalla tale festa ad essere onesto uomo; perchè, diceva, non si deve ritardare quell’impeto che ci porta al bene. Apertamente poi biasimava quei filosofi che, per esercitare i giovani nella virtù, li adusano a fatiche e tormenti: chi li consiglia a legarsi, chi a flagellarsi, e i più graziosi li consigliano a sfregiarsi con un ferro la faccia. Egli credeva nell’animo doversi piuttosto mettere questa durezza ed insensibilità; e che il saggio che prende ad educare gli uomini, deve aver riguardo ed all’anima, ed al corpo, ed all’età, ed alla prima educazione, per fuggire il biasimo di consigliare cose impossibili. Molti giovani, diceva, sono morti per tali consigli sconsigliati. Io stesso ne vidi uno che avendo assaggiato lo amare pruove che gli fecero fare, come si avvenne a udire la verità, volse tanto di spalle ai suoi maestri, e venne da lui, che facilmente lo rimesso.
Ma lasciando costoro, venne a parlare di altre persone, discorse della gran folla di Roma, dell’urtarsi nella calca, dei teatri, del circo, delle statue rizzate ai cocchieri, dei nomi dei cavalli, e del parlare che se ne fa in tutti i chiassuoli. Che veramente la mania de’ cavalli quivi e grande, e s’è appiccata anche a coloro che non paiono dappochi. Dipoi entrando in un altro atto del dramma, toccò delle usanze che tengono nei mortorii e nei testamenti, dicendo che i Romani una sola volta in vita loro dicono la verità, nei testamenti, per non usarne giammai. E così dicendo ei mi fece ridere di costoro che si fanno seppellire con tutta la loro stoltezza, e lasciano la pruova scritta della loro sciocca vanità, disponendo alcuni di esser bruciati con tutte le loro vesti, o altra cosa avuta più cara in vita; altri che i loro servi ne guardino le tombe; ed altri che le colonne de’ loro sepolcri sieno coronate di fiori; e così rimangono sciocchi anche dopo la morte. Vuoi vedere, diceva, che hanno fatto questi nella vita loro? vedi che vogliono si faccia dopo che son morti. Questi sono quei tali che comperano le vivande del più caro prezzo, che nei banchetti bevono vino con croco e con aromi, che a mezzo verno si covrono di rose, non pregiandole se non quando son rare e fuori stagione, e tenendole vili quando vengono al tempo loro: questi sono quelli che bevono unguenti. E massimamente li riprendeva perchè non sanno moderare le loro passioni, ma con esse trapassano ogni legge, confondono ogni termine, fiaccano l’anima prostrandola a tutte le sozzure, e come si dice nelle tragedie e nelle commedie, entrano per ogni parte, tranne per la porta: e questi tali piaceri ei li chiamava sgrammaticature. Ed a questo proposito ei diceva un altro motto come quello di Momo, il quale biasimò il dio che fece il toro e non gli pose gli occhi sopra le corna; ed egli riprendeva coloro che si coronano di fiori, perchè non sanno il luogo dove debbono mettere le corone. Se, diceva, si piacciono dell’odore delle viole e delle rose, sotto il naso si dovriano mettere le corone, per fiutarle e trarne la maggior soavità. Si rideva ancora di quegli altri che stanno su tutti i punti della gola, e attendono a variar salse e delicature: e diceva che durano tante fatiche per un piacere sì corto e sì breve. Ve’, si affaticano tanto per quattro dita, quanto è lunga la gola dell’uomo: che prima di mangiare non godono dei cibi di caro prezzo, dopo di averli mangiati non ne rimangono meglio sazi: dunque per un piacere che non dura più che il trapassar per le canne, spendono tante ricchezze. E soggiungeva che hanno ragione a far questo, perchè sono ignoranti, e non conoscono i piaceri più veri che dà la filosofia a chi la studia.
Discorse anche molto di ciò che si fa nei bagni pubblici, di coloro che ci vanno con una truppa di gente, con grande boria, appoggiandosi ai servi e quasi facendosi portare. Ma più di tutto gli pareva bruttissima quell’usanza che è nella città e nei bagni: che alcuni servi debbono andare innanzi al padrone, e gridando avvertirlo di guardarsi ai piedi nel passare un rialto, una fossatella, e fargli ricordare (cosa veramente nuova) che ei cammina. E maravigliavasi che costoro non han bisogno anche della bocca e delle mani altrui per mangiare, e delle orecchie altrui per udire, giacchè con gli occhi sani han bisogno di chi guardi innanzi a loro, e si fan dire quelle parole che si dicono ai poveri ciechi. E questa usanza la tengono anche i magistrati camminando per le piazze in pieno giorno.
Poi che ragionommi di queste e di molte altre cose, tacquesi. Io era stato a udirlo maravigliato, e temendo che ei non finisse. Ma poi che cessò, io mi sentii quello che sentirono i Feaci. Per molto tempo lo riguardai come ammaliato, poi mi sentii turbare ed aggirare il capo, sudavo tutto, volevo parlare, ma avevo un nodo in gola, e non potevo, la voce mi mancava, la lingua balbettava, infine non potei altro che scoppiare a piangere. La sua parola non mi fece colpo leggiero e così a caso, ma mi aperse una piaga profonda e mortale; fu colpo di mano perita, e, per così dire, mi trapassò sino all’anima. E se anche ad un par mio è lecito di discorrere un po’ da filosofo, io penso che questo accada così. Io credo che l’anima di un uomo ben naturato sia simile ad un molle bersaglio. Molti arcieri con le faretre piene di vari e diversi discorsi vi tirano, ma non tutti con eguale destrezza: alcuni tendendo troppo la corda, scoccano con forza, colgono nel segno sì, ma il dardo non vi rimane, trapassa, e lascia l’anima dilacerata e vuota: altri per contrario fiacchi e deboli non mandano il dardo sino al bersaglio, spesso fanno caderlo a mezza via, e se vi giunge, appena tocca, e non fa piaga, perchè non è scagliato da mano gagliarda. Ma il bravo arderò, come egli era, prima riguarda bene il bersaglio, se cede, se resiste al dardo (perchè ce ne ha dei saldi ad ogni colpo); e poi che ha osservato questo, unge la freccia, non di tossico, come gli Sciti, nè dei succhi mortiferi dei Cureti, ma di un leggiero mordente, di un dolce farmaco, e così destramente tira. La saetta scagliata dà nel segno, vi rimane, vi lascia gran parte del farmaco, che spandesi soavemente per tutta l’anima. Chi si sentirà colpito, ne avrà gran diletto, e ascoltando piangerà di gioia, come intervenne a me, che mi sentii correr per l’anima la dolcezza del farmaco, e mi sovvenne di dirgli quel verso
Scaglia così, se agli uomini sei luce.
Come quelli che odono sonare il flauto frigio, non tutti vanno in furore, ma solamente coloro che sono agitati da Rea a quel suono ricordano la loro passione, cosi quelli che ascoltano i filosofi, non tutti se ne tornano ispirati e feriti, ma soltanto coloro che sono per natura inclinati alla filosofia.
L’Amico. Oh! che sagge, e mirabili, e divine cose tu m’hai dette, o amico mio. Senza accorgertene m’hai riempito veramente d’ambrosia e di loto. Mentre tu parlavi, l’anima mia era commossa; ed ora che hai finito sento certo dolore, e, come tu dici, mi sento ferito. Non maravigliartene: tu sai che chi è morso da un cane arrabbiato, se morde un altro, gli dà la stessa rabbia e lo stesso furore; che il veleno trapassa col morso, e il male cresce, e rapidamente si comunica il furore.
Luciano. Dunque anche tu mi confessi che l’ami?
L’Amico. Sì: e ti prego di trovare un rimedio per tutti e due.
Luciano. Bisogna fare il rimedio di Telefo.2
L’Amico. E qual è?
Luciano. Andare da chi ci ha feriti, e pregarlo che ci risani.