Morella (1900)
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MORELLA
Lui stesso, per lui stesso, con lui stesso, omogeneo, eterno.
Platone.
Verso la mia amica Morella io provava un’affezione profonda, ma singolarissima.
Or son molti anni per caso la conobbi, e fin dal nostro primo incontro l’anima mia arse d’un fuoco ch’essa non aveva mai conosciuto, ma non del fuoco d’Ero: e per il mio spirito fu un amaro tormento la convinzione sempre crescente che mai avrei potuto definire il suo carattere straordinario, nè regolarizzare la sua intensità errante. Ciò non pertanto noi ci trovammo adatti l’uno per l’altra, e il destino permise che ci unissimo dinanzi all’altare. Io non le parlai mai di passione e neppure una volta pensai all’amore; tuttavia ella fuggiva la società, e occupandosi solo di me mi rendeva felice. Essere meravigliati è una felicità; sognare non è forse anche una felicità?
L’istruzione di Morella era profonda. I suoi talenti, come io spero di dimostrar poi, non erano d’un ordine secondario, e la potenza del suo spirito era immensa.
Io lo compresi e in molte occasioni divenni il suo scolaro. Contuttociò mi accorsi subito che Morella, forse per ragione della sua educazione compiutasi a Presburgo, spiegava davanti a me molti di quegli scritti mistici che sono in generale considerati come il più bell’esempio della prima letteratura tedesca. Per ragioni che io non poteva comprendere ella faceva di questi libri il suo studio costante e favorito; — e se col tempo essi divennero anche il mio, ciò non devesi attribuire che alla semplice ma efficacissima influenza dell’abitudine e dell’esempio.
In tutto questo, se non sbaglio, la mia ragione non entrava per nulla. A meno che io stesso non m’inganni di gran lunga, le mie convinzioni non erano affatto basate sull’ideale, e nessuno avrebbe potuto scorgere nelle mie azioni e nei miei pensieri, alcun riflesso del misticismo delle mie letture. Convinto di questo, mi abbandonai ciecamente sotto alla direzione di mia moglie ed entrai nel laberinto dei suoi studi col cuore imperterrito. E quando immergendomi nella lettura di pagine maledette, io sentiva che uno spirito maledetto si destava in me, — Morella veniva a porre la sua fredda mano sulla mia e raccoglieva dalle ceneri d’una filosofia morta alcune gravi e strane parole, che per il loro significato bizzarro si scolpivano nella mia memoria. E allora per ore intere io mi stendeva, fantastico sognatore, al suo fianco ascoltando l’armonia della sua voce, fino a che questa melodia si empiva di terrore. Un’ombra cadeva allora sull’anima mia, io diveniva pallido, e tremava internamente a quelle parole extra-terrestri. E così la gioia svaniva ad un tratto tramutandosi nell’orrore, l’ideale del bello diveniva l’ideale dell’orrido, come la vallata d’Hinnom è poi divenuta la Gehenna.
Credo inutile di dire il carattere esatto dei problemi che sorgendo dai volumi di cui ho parlato, per lungo tempo, furono quasi l’unico tema di discorso tra Morella e me. Gli uomini istruiti in ciò che può chiamarsi la morale teologica li comprenderanno facilmente, e gli ignoranti vi comprenderebbero in ogni modo ben poca cosa. I punti di discussione, che generalmente offrivano maggiore attrattiva alla fantastica Morella, erano lo strano panteismo di Fichte, la palingenesi modificata dei Pittagorici, e la dottrina dell’identità come ci è stata presentata da Schelling. Io credo che il filosofo Locke faccia, con sano criterio, consistere questa identità detta personale nella permanenza dell’essere razionale. Dato che per persona noi intendiamo una essenza pensante ragionevole, e dato che esista una coscienza che sempre accompagna il pensiero, è questa stessa coscienza che ci fa essere tutto quello che noi chiamiamo noi stessi — distinguendoci in questo modo dagli altri esseri pensanti e dandoci la nostra idea personale. Ma il principium individuationis — cioè la cognizione di questa identità che alla morte è o non è mai perduta indefinitivamente fu sempre per me un problema interessantissimo, non solo per la natura inquietante delle sue conseguenze, ma anche per la maniera strana ed agitatissima con la quale Morella ne parlava.
Alla fine però giunse un tempo in cui la misteriosa natura di mia moglie venne ad opprimermi come un incubo.
Non potevo più sopportare il contatto delle sue dita diafane, nè il suono profondo della sua voce armoniosa, nè il fulgore dei suoi occhi malinconici.
Ella comprendeva tutto ciò, ma non me ne faceva alcun rimprovero; sembrava ch’ella avesse conoscenza della mia debolezza, della mia pazzia e quasi sorridente chiamava ciò il destino. Sembrava ch’ella anzi conoscesse la causa a me ignota, della graduale modificazione della mia amicizia; però non me ne dava alcuna spiegazione, nè mai alludeva alla natura di tal causa. Con tuttociò Morella altro non era che una donna e deperiva ogni giorno di più. Una macchia rossa si fissò, col tempo, sulla sua guancia, e le vene azzurre della sua candida fronte si fecero più pronunciate. Un impeto di pietà intese allora la mia natura; ma dopo poco incontrai il fulgore dei suoi occhi tutti pieni di pensieri e la mia anima s’intese come malata, e provò l’impressione di colui che ha lo sguardo fisso in qualche abisso lugubre e triste.
Posso io forse dire che desiderava intensamente ed ardentemente l’ora della morte di Morella? E pure fu così; ma la sua debole anima si avviticchiò al suo abitacolo d’argilla per lunghi giorni, per intere settimane e mesi penosi, finchè i miei nervi tormentati presero il sopravvento sulla mia ragione. Io mi inquietava di tutti quei ritardi e con un cuore diabolico maledissi i giorni, le ore e i minuti dolorosi, che sembravano non dovessero aver mai fine, man mano che la sua cara esistenza spariva come le ombre al cessar del giorno.
Una sera d’autunno, in cui l’aria era colma e tranquilla, Morella mi volle al suo capezzale. La terra era coperta da una fitta nebbia, ed un vapore caldo si stendeva sulle acque, cosicchè mirando attraverso gli alberi della foresta gli splendori autunnali, si sarebbe detto che sul firmamento fosse apparso un arcobaleno.
— Ecco il giorno dei giorni — ella mi disse quando me le avvicinai — il giorno più bello per vivere o per morire. Pei figli della terra e della vita è un bel giorno. Ah! ma è anche più bello per le figlie del cielo e della morte!
Io la baciai sulla fronte ed essa continuò:
— Son presso a morire, tuttavia vivrò.
— Morella!
— Non vi sono mai stati quei giorni nei quali ti sia stato permesso d’amarmi, ma quella che tu odiasti in vita, morta adorerai.
— Morella!
— Ti ripeto che mi sento morire, ma vi è in me un pegno di quell’affetto — ah! qual piccolo affetto! — che tu hai provato per me, per la tua Morella. E quando il mio spirito se ne volerà, il figliuolo, il tuo figliuolo, il figliuolo della tua Morella vivrà. I giorni della tua vita però saranno pieni d’affanno, di quell’affanno che è fra le impressioni la più durevole, come il cipresso è fra gli alberi quello che ha più lunga vita. Le ore della tua felicità sono passate e la gioia non si raccoglie due volte nella vita, come le rose di Pesto due volte nell’anno. Tu col tempo non giuocherai più il giuoco dell’eroe di Teo; ti saranno ignoti il mirto ed il vigneto, e sulla terra tu porterai dovunque con te il tuo sudario, come il musulmano della Mecca.
— Morella! — esclamai — Morella! come puoi saper tu tutto questo?
Ma ella chinò il capo sul guanciale, un tremito leggiero le corse per tutto il corpo, poi spirò, ed io non ho udito mai più la sua voce.
Però com’ella aveva predetto, la creatura, a cui morendo aveva dato la vita, e che non respirò se non quando la madre aveva finito di respirare, la sua creatura, una bambina, visse. Divenne in breve meravigliosamente grande di persona e d’intelligenza e perfetta fu la sua rassomiglianza con colei che se ne era andata, ed io l’amai con un così ardente amore, come io non avrei creduto mai possibile amare alcuna creatura della terra.
Ma non trascorse molto tempo e l’orizzonte di quella pura affezione si oscurò e la malinconia, l’ansia, l’orrore vi si distesero come fosche nubi. Ho già notato come la bimba si sviluppasse meravigliosamente di persona e d’intelligenza. — Veramente straordinario fu il rapido sviluppo del suo corpo — ma terribili e tumultuosi furono i pensieri che turbarono la mia mente nel sorvegliare lo sviluppo del suo essere intellettuale. E potea forse essere diversamente, quando io scopriva ogni giorno più nelle concezioni della fanciulla la potenza già matura e le facoltà della donna? — quando parole d’esperienza sgorgavano da quelle labbra infantili? — quando vedeva continuamente scaturire dalla sua pupilla ampia e meditabonda la saggezza e le passioni della maturità? — vi è forse da meravigliarsi se, quando tutto ciò colpi i miei sensi atterriti, quando fu impossibile all’anima mia di nasconderlo più a lungo, e alle mie facoltà rabbrividite di respingere questa certezza, — v’è da meravigliarsi, ripeto, se sospetti terribili e inquietanti si siano innestati nel mio spirito e se il mio pensiero sia ritornato con orrore a quegli strani racconti ed alle penetranti teorie della defunta Morella? Io tolsi allora alla curiosità del mondo un essere che il destino mi comandava di adorare e nella severa clausura della mia casetta vegliai con ansia mortale su tutto ciò che riguardava l’amata bambina.
Gli anni passavano ed ogni giorno io contemplava il suo volto santo, dolce ed eloquente, e studiavo le sue forme quasi ora donnesche ed ogni giorno scoprivo nuovi punti di rassomiglianza tra la figlia e la madre, la malinconica e la morta. E tali ombre di rassomiglianza prendevano sempre più consistenza e divenivano sempre più piene, definite, inquietanti ed orridamente terribili nella loro apparenza. Io potevo ammettere, è vero, che il suo sorriso rassomigliasse al sorriso di sua madre; ma quella rassomiglianza era una identità che mi metteva i brividi; io poteva tollerare che il suo sguardo somigliasse a quello di Morella: ma esso penetrava troppo spesso negl’intimi abissi dell’anima mia colla stranezza e colla forza di pensiero della stessa Morella. E nella sua fronte alta, nella sua capigliatura di seta e nelle dita diafane che vi si immergevano continuamente, nel tono grave ed armonioso della sua parola e sopratutto — oh! sopratutto! — nelle espressioni e nelle frasi della morta, sulle labbra di colei che era vivente e da me tanto amata, io trovava alimento per un pensiero divorante — per un verme che non voleva morire.
Passarono così due lustri della vita di mia figlia ed ella restava ancora senza nome sulla terra. — Figlia mia e unico amore erano gli appellativi abitualmente suggeriti dall’affetto di padre, e la rigida reclusione della sua esistenza si opponeva ad ogni altra relazione. Il nome di Morella era morto con lei. Alla figlia io non aveva mai parlato della madre: mi sarebbe stato impossibile, assolutamente impossibile, il farlo. E del resto ella nel breve periodo della sua esistenza non aveva ricevuto nessuna impressione del mondo esterno, all’infuori di quelle che avevano potuto esserle presentate negli angusti limiti del suo ritiro.
Ciononpertanto, col passare degli anni, al mio spirito sfiacchito ed agitato si presentò la cerimonia del battesimo, come il felice mezzo di liberazione dai terrori della mia specie. Ma al fonte battesimale esitai sulla scelta d’un nome. E sulle mie labbra vennero ad affollarsi migliaia di epiteti di saggezza e di beltà, di nomi dell’epoca antica e moderna, nomi del mio paese e stranieri, insieme ad una infinità di appellativi affascinanti di nobiltà, di felicità e di bontà.
Chi allora mi suggerì di evocare la memoria della morta, già da tanto tempo sepolta? Qual demonio mi fece emettere un suono, il ricordo del quale mi faceva sempre rifluire a torrenti il sangue dalle tempie al cuore?
Qual cattivo spirito mi parlò dai più profondi abissi dell’anima mia, allorquando sotto le volte oscure della chiesa e nel silenzio della notte io mormorai alle orecchie del ministro di Dio la parola Morella? Qual essere più che demone scosse convulsivamente il volto della mia bambina e lo coprì del pallore della morte, allorquando, agitandosi a quel suono appena sensibile, ella levò i suoi grandi occhi dalla terra al cielo e cadendo riversa sulle pietre annerite della nostra tomba di famiglia, disse: eccomi?
Questa sola parola, fredda, tranquilla, ferì il mio orecchio distintamente e di là, come piombo fuso, passò sibilando nel mio cervello.
Gli anni, gli anni possono passare, ma il ricordo di quell’ora, — no, mai! – Ah! i fiori e il vigneto non erano cose ignote per me; — ma l’aconito e il cipresso distesero le loro ombre sopra di me giorno e notte. Ed io perdetti ogni conoscenza del tempo e dei luoghi, e le stelle del mio destino disparvero dal cielo; da allora la terra divenne per me tenebrosa e tutte le sue immagini mi passarono vicino come ombre giranti, e in mezzo ad esse io non ne vedevo che una: — Morella! I venti del cielo non spiravano alle mie orecchie altro che un suono, ed i flutti del mare sussurravano continuamente un sol nome: — Morella! —
Ma ella era morta: io l’avevo portata con le mie proprie mani fino alla tomba; ed io sorrisi d’un riso ben lungo ed amaro quando, nella fossa ove deposi la seconda, non ritrovai più alcuna traccia della prima Morella.