Mio figlio ferroviere/IX
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IX.
A ROMA.
Medico delle ferrovie me le sono godute. Dato che i viaggi dentro tanti chilometri il Governo me li regalava, non viaggiare era come mancargli di rispetto e rifiutare maleducatamente il suo dono tanto inatteso quanto immeritato. Per cominciare, andai a Roma. V’era già Nestore da due giorni e venne gentilmente a ricevermi sul marciapiede davanti al treno, come chi dicesse sulla soglia di casa sua. Ma potei appena cominciare a ringraziarlo per quella prova di reverenza e d’affetto ch’egli s’involò verso un altro vagone. Mi raggiunse all’uscita, e non era più solo. Lo accompagnava un uomo alto, tutto giallo e nero, giallo di pelle e nero di pelo e di vesti, dall’aspetto cascante e funereo, il volto gonfio più che grasso, appeso a due zigomi alti. — È un amico russo, – m’avverti Nestore, sottovoce, e quando fummo sulla piazza io con la mia valigetta e il russo a mani vuote, aggiunse: – Per questa sera potrebbe dormire al tuo albergo. Non temere: ha il passaporto tedesco. Gli faranno tutti di cappello. Un tranvai ci passò vicino e Nestore abituato a scendere e a salire dai treni in movimento vi saltò su con tanta abilità che non ebbi il tempo di chiedergli come il suo amico si chiamasse. Egli potè gridarmi soltanto: – Alle otto verrò a prendervi tutti e due per andare a pranzo. Saranno state le sei. Il russo parlava italiano e m’ascoltava con benevolenza dall’alto della sua statura, mentre a piedi ci avviavamo verso l’albergo Centrale. La verità è che le domande più necessarie non mi parve decente fargliele súbito. E la più necessaria riguardava la sua igiene personale. Solo se egli fosse salito in treno a Mosca o a Pietrogrado e fosse arrivato difilato a Roma attraverso a un migliajo di gallerie senza aver mai trovato una goccia d’acqua, la sua sporcizia poteva sembrare giustificata. Mani, faccia, collo, capelli, e il bavero del suo pastrano e la tesa del suo cappello e gli orli delle sue maniche, tutto era lustro e così patinato dall’unto che pelle, pelo, stoffa, feltro sembravano aver mutato natura ed esser diventati avorio, bronzo, cuojo. E la seconda domanda era sul suo nome e la sua professione. Ma a chiedergli il nome mi sembrava d’atteggiarmi a poliziotto, considerato che un fatto era certo, dopo la sua stratificata sporchizia, la sua qualità cioè di rivoluzionario. E scelsi una domanda più generica: — Lei conosce Roma? — Oh sì, vi sono venuto in viaggio di nozze. Parlava adagio cantando e riposandosi sulle ultime vocali delle parole. Fui contento di saperlo ammogliato. Una moglie è già una famiglia; una famiglia è anche per un rivoluzionario qualcosa da conservare, cioè da nutrire: un’eccezione alla fame totale e al cataclisma universale: uno strappo, almeno, nella bandiera rossa.
— E la sua signora dov’è?
— Non lo so. Canta.
— Ah, canta?
— Cantava. Adesso non so.
— Può darsi che canti ancóra, – conclusi bonario, ma non mi parve che la mia gentile ipotesi gl’importasse molto.
Via Nazionale, non ricordo più perchè, era tutta imbandierata, e da piazza Termini faceva un gran bel vedere. S’ha tempo a dire che i nostri tre colori sono stonati. A vedere una strada ad ogni casa ad ogni piano tutta tricolori, mi sembra che i muri si sieno messi a fiorire, e m’invade una primaverile allegria da studente. Ma quello sillabava lento lento come se le parole facessero uno sforzo a scoppiargli fuori dalla buccia d’unto:
— Molte bandiere italiane. È l’ordine della polizia, ed è un segno molto buono. Quando una popolazione obbedisce alla polizia, la rivoluzione è molto facile. Basta cambiare la polizia.
Passai la valigia dalla mano destra alla mano sinistra per non mostrare al mio interlocutore il piacere che quelle sue osservazioni perentorie mi davano. Gl’italiani si fanno tante illusioni sulla Russia (pensavo) che è bene per contrappeso che i russi si facciano molte illusioni sull’Italia. Certo sarebbe bene che tutti sapessero su tutto la verità. Ma dato che questo è impossibile ed inutile perchè anche a conoscere la verità d’oggi s’ignorerebbe la verità di domani e questa sola è, in politica, quella che importa, mi divertivo, nell’allegria messami adosso dallo sbandieramento, a pensare che gli spropositi dei russi sugl’italiani fossero tanto più inverosimili di quelli degl’italiani sui russi. Poichè si giocava a nascondersi, ero contento che i meglio nascosti fossimo noi. Ognuno pone la sua superiorità dove può: come l’onestà.
Presto m’avvidi che al russo, per quanto apostolo, piacevano le donne. Appena una ne appariva con la gonna più corta o la camicetta più scollata, egli la seguiva coi suoi occhi tondi. Via Nazionale ne era piena in quell’ora del tramonto quando da sotto i piedi degli uomini scompare l’ombra del loro corpo e tutto sembra diventare più leggero e fugace sotto lo svenevole pallore del cielo.
— Le piacciono le donne, vedo, — gli osservai tanto per dare alla nostra conversazione un altro tema pacifico.
— Italia, terra d’amore.
La definizione non m’andò giù. Avrei pagato chi sa che per sapere che quella canterina di sua moglie la prima distrazione l’aveva provata a Roma, in viaggio di nozze, per mano italiana.
— Lei è poeta.
— Ho scritto due tragedie.
— In versi?
— Sì, liberi.
— Naturalmente. Perchè non le fa tradurre o non le pubblica sull’Avanti!?
— Crede che le accetterebbero?
— Tragedie russe? Ma súbito.
— La ringrazio del consiglio. L’albergo è lontano?
Cominciava a strascicare i suoi enormi piedi a scialuppa, e non si voltava più alle donne. Giungemmo e, poichè io frequentavo quell’alberghetto da trenta e più anni, riuscii a trovare un buco anche pel mio russo che súbito offrì al padrone il suo passaporto tedesco giallocanario.
Un po’ prima delle otto Nestore ci venne a prendere per andare a pranzo alla trattoria della sora Giuditta che dopo le elezioni del novembre 1919 era diventata la trattoria preferita dei rossi; e fa quattrini quanti ne vuole. La sora Giuditta è la sola ostessa di Roma dove nella carestia più nera si può trovare tutto, salvo forse un tovagliolo pulito.
Romana, anzi trasteverina e cattolica, la sora Giuditta sa salvare le apparenze e mantenere al suo locale quell’aspetto popolare del litro slabbrato, delle ampolline senza tappo, del gatto che dorme sul bancone, della tovaglia macchiata di vino e di pomodoro, delle saliere che hanno per manico un ombrello cogli stuzzicadenti, della rete di spago sulla porta perchè le mosche entrino una per una, dell’odore di soffritto equamente diffuso in tutte e quattro le “sale„, delle sedie di legno bianco duramente impagliate come quelle delle chiese: il quale aspetto, in tempo di pace, le ha assicurata una clientela d’inglesi e di tedeschi romantici in cerca di color locale e di carciofi alla giudia; e adesso, in tempo di rivoluzione, le ha data una clientela di sindaci rossi, di deputati rosei, di propagandisti scarlatti, d’organizzatori ponsò, di segretarii vermigli che arrivano anche in automobile, fragorosamente, con un codazzo di seguaci devoti. Nestore ci fece sedere a una tavola che aveva già sei o sette clienti certo autorevoli perchè Nestore a due o tre di loro andò a parlare da dietro, sotto voce, appoggiandosi appena alla loro sedia, per informarli, capii, sull’essere mio e del russo. Ma i complimenti furono tutti pel russo che finalmente seppi chiamarsi Micáilof. Da uno all’altro il suo nome diventò presto Micaloffe. Egli ad ogni presentazione, correggeva tragico: – Micáilof, Luca Micáilof, – e alla fine, rassegnato, mi si sedette accanto. A Roma le mosche sono più feroci che da noi, nè onestamente se ne può accusare il Governo del Re. S’era ai primi di giugno e la sora Giuditta aveva già dovuto stendere un velo color di rosa sulle due grandi litografie che rappresentavano Lenin e Marx. A me quella visione di Lenin tutto zigomi, con la barbetta spelacchiata dal turbine della rivoluzione, nascosto pudicamente dietro il tulle color d’aurora come una vergine al suo primo ballo, confesso che piacque molto, come un simbolo della rivoluzione italiana di dopodomani. Ma Micáilof fu d’un’altra opinione, e appena la sala fu colma, andò sotto la sacra icone, salì risoluto sopra una sedia e strappò il velo. Dopo un attimo di stupore, scoppiò un uragano d’applausi. Tutti erano in piedi, col bicchiere in mano, e gridavano: – Viva Lenin! – e abbracciavano il russo che stringeva sempre nel pugno il roseo velo e tracannava sereno tutti i bicchieri che gli capitavano a portata di mano anche se gli venivano porti solo per toccare il suo. Ma nel pieno dell’entusiasmo entrò la signora Giuditta e andò in collera. Quel velo era nuovo, le era costato venti lire, trenta lire, quaranta lire, e dell’arredo del locale era padrona lei. Per calmarla glielo consegnarono, ma lei lo scosse, se lo distese sul petto potente, col gesto della Veronica, contandovi i buchi e gli strappi, e riprese a sbraitare. Due deputati al Parlamento dovettero calmarla promettendo che gliel’avrebbero pagato per nuovo. Allora si quietò e se ne andò. Per qualche minuto la riunione diventò silenziosa. Uno borbottò: – Adesso quello è capace di scrivere in Russia che noi s’era velato il ritratto di Lenin. – Un altro chiese: – Non ce l’hanno le mosche a casa loro? – Un terzo arrivò imprudentemente fino a ricordare il gioco a Mosca cieca. Il russo s’era seduto accanto a me, sempre più accigliato e solenne. A quel “Mosca cieca”, chiese spiegazioni, in tono perentorio; e Nestore nuovamente fu incaricato di spiegargli che per noi questo è un gioco da bambini. Fu peggio. Per quanti bicchieri gli facessero ingojare, il sospetto d’essere preso in giro, lui con Mosca, Lenin, Troschi, Zinovieff e tutta la rivoluzione, gli restò in gola, di traverso. E i convitati sempre più preoccupati delle ripercussioni internazionali che a quel colpo potevano succedere, si consultavano a bassa voce. Micáiloff, con l’aria d’un carabiniere che prepara un processo verbale, chiedeva ai più vicini i nomi di questo e di quello. Finalmente, seduto sdegnosamente di tre quarti, l’avambraccio destro sulla tavola, tenendo sempre impugnato il suo bicchiere, si tacque. E la conversazione pur a bassa voce, ricominciò. V’era un deputato, tondo taurino apoplettico, con la giacca e il panciotto sbottonati, il quale agitando le cinque salsicce della mano sul cranio calvo per scacciarne le mosche, si lagnava in bolognese d’un giudice istruttore, farâbott, imbrujon, sberr, gesuetta. Questo giudice, a udire il deputato, aveva interrogato, con altri compagni, anche lui in non so più che istruttoria, e con tutti aveva simulato d’essere, come si suol dire, un simpatizzante, stanco del regime corrotto e della burocrazia prepotente, amico del vero popolo, della vera libertà, della vera giustizia, dei veri stipendii che si dovrebbero finalmente dare ai magistrati, convinto fautore infine dell’organizzazione sindacale. Tutti gl’imputati, l’uno dopo l’altro, erano caduti nel tranello e s’erano abbandonati a confidenze che ora riunite e connesse apparivano confessioni. E l’onorevole, congestionato d’ira contro l’astuzia del giudice e la petulanza delle mosche, si lamentava che i suoi colleghi del gruppo parlamentare l’avessero sconsigliato dal presentare su questo caso un’interrogazione al ministro della Giustizia. Egli sedeva tra due colleghi, uno giovane, biondo e femineo, coi baffetti che parevano lanugine, coi capelli di seta ondati folti ed alti sulla fronte, cogli occhi celesti e languidi: l’altro vecchio, calvo, pallido, ossuto, con la barbetta bianca a punta e due grandi occhi buoni, intelligenti e rassegnati, che talvolta restava assorto a guardare la parete davanti. Il giovane era quello delle freddure e adesso, ripreso animo, chiedeva al cameriere la lista delle vivande, “ma quella vera, non quella per gl’imbecilli, insomma la massimalista”. Pochi ridevano. Come prima la furia del russo, adesso il silenzio del vecchio gelava molti, e lo stesso Nestore che gli s’era seduto vicino e s’ostinava a parlargli sottovoce con ossequio, otteneva monosillabi di risposta. Ma altri lo guardavano di traverso, strizzando gli occhi e stringendo le labbra con l’aria d’essere stanchi di quel suo scontroso silenzio. Sentivo che in fondo sotto il clamore delle affermazioni generiche e degli applausi i più dei miei commensali vivevano in una diffidenza continua, e la mascheravano dandosi del tu fraternamente e moltiplicando strette di mano che erano un modo come un altro per esercitarsi a stringere i pugni. Uno, ad esempio, dopo aver constatato che ormai i tribunali non punivano con più di duecento lire di multa i ferrovieri quando questi si rifiutavano di trasportare nei loro treni soldati, carabinieri, guardie regie, sosteneva che bisognava moltiplicare queste rivolte ed esasperare il pubblico. La spesa, a duecento lire per volta, sarebbe stata per le organizzazioni lievissima. — La rivoluzione nasce dal malcontento. — Dal malcontento contro chi? – chiese il deputato con la barba bianca, senza guardare l’interlocutore. — Contro il regime borghese. — Ma il regime borghese i treni cercherebbe di farli andare regolarissimamente. Il malcontento sarà contro i ferrovieri. — Quando i ferrovieri saranno padroni delle ferrovie.... — Tu sei ferroviere? — No, io sono maestro di scuola. — Si vede che sei abituato a parlare ai ragazzi. — Non fate i padreterni voi di Reggio, chè finirete a restare soli con le sante memorie. — Magari domani, figliolo mio. — Ma che figliolo! Se dovessi scegliermi un padre me lo sceglierei.... — Russo. — Russo, russo. Centomila volte meglio l’ultimo dei mugicche russi che il primo di voi altri intellettualoni svaniti. — Grazie. — Hai voluto sapere il mio pensiero. Te l’ho detto. Ma non riusciva più a mangiare e respingeva il piatto con disdegno, tutto distratto a masticarsi l’ira. Il vecchio deputato ribatteva tranquillo: — Il tuo pensiero? Ti pare che questo sia un pensiero? È un’insolenza. E non conta. Altri intervenivano a mettere pace: – Via, pensate a mangiare. Questa è una trattoria, non è un comizio. Vi guastate il pranzo e poi dovete pagarlo lo stesso. Per fortuna entrò una donna carina, snella, bruna, incipriata e, quel che più dava gusto lì dentro, profumata, e tutti si voltarono a guardare lei e le calze di seta e le corte gonnelle. L’accompagnava un bell’uomo, lustro e pacioso, tra i trenta e i quaranta, con una faccia tonda e rasata che pareva un dolce da curato: onorevole, mi dissero, anche lui. E m’aggiunsero che quella era la sua amica, una genovese, la quale ballava a Milano ma da un mese non ballava più per seguire l’amico suo e della rivoluzione. Si sedettero a un tavolino accanto a me e al russo, ma il deputato, appena ordinato il pranzo, si rialzò per venire a salutare alla nostra tavola i suoi colleghi. Quello biondino e quello congestionato salutavano, alla loro volta, familiarmente con la mano la nuova venuta, e chiedevano al compagno: — Stasera dove andate? Udii che il programma era d’andare prima in un caffè di varietà dove ballava un’amica di lei; poi in una sala da ballo dove potevano ballare tutti. — E domattina si va a San Pietro, – concluse con equanimità. — A San Pietro? — Sì, nella Basilica. Io non ci sono stato mai, e nemmeno Flora. Oggi alla Camera volevo chiedere a Miglioli d’accompagnarci, ma è afono e domattina resta in albergo a far dei gargarismi d’acquasanta e sale. Nestore cui il nuovo venuto aveva stretta la mano con speciale cordialità, offrì me come cicerone. Fui presentato all’onorevole Catini e alla sua dama, fui gradito e, dagli altri, invidiato. Il russo che anch’egli, all’ingresso della signorina Flora Flores, s’era distratto dall’ira e dal bicchiere ed era riuscito, nel nome dei Sovieti, ad esserle presentato e adesso restava in piedi presso lei seduta e rimbambolato la odorava dall’alto movendo impercettibilmente il capo ad ogni respiro come uno che ingoja a sorsate, si scosse e affermò: – Vengo anche io. Anche io conosco la basilica di San Pietro. Flora lo guardò di sotto in su. Doveva apparire anche più sporco che veduto di faccia. Rispose spremendo con due dita rosee il limone sulle ostriche: — Se dovessimo caricare sulla macchina tutti quelli che già conoscono San Pietro.... E poi nell’automobile già siamo in quattro; noi due, la mia amica e il dottore. Non c’è posto. Spiegaglielo, Micio. (Micio, da Michelangelo che era il nome di battesimo del deputato. Lo seppi il giorno dopo, ma lo scrivo súbito per la chiarezza del racconto.) E Micio glielo spiegò: — Si può immaginare il piacere che farebbe alla mia compagna ed a me avere con noi un figlio della Russia eroica, un fratello nostro..., – e sostò un momento in cerca d’altre parentele, non le trovò e venne al sodo; – L’automobile è del ministro del Lavoro. Abbiamo da lui alle undici la riunione dei tessili, ed egli gentilmente me la manda alle nove per questa escursione. È un’automobile modesta, non molto grande.... A questo punto dalla finestra aperta, in fondo alla piccola sala si udirono due o tre colpi secchi, di fucile. Poi i colpi presero l’aire, si ripeterono sillabati e continui come colpi di mitragliatrice. Tutti erano balzati in piedi. I più correvano nelle sale accanto. Micio bravamente si pose in piedi tra la finestra e Flora, per ripararla dalle pallottole. Il deputato apoplettico ch’era seduto a capotavola scivolò agilmente, da seduto, in ginocchio chinando il capo per raggomitolarsi tutto sotto il livello del davanzale, e il maestro di scuola lo imitò con tanta fretta che attaccandosi a un lembo della tovaglia rovesciò due bottiglie. Il russo prima provò ad uscire, ma la porta era stretta e dieci persone facevano ressa per varcarla. Allora afferrò un tavolino e senza curarsi del vasellame che v’era su, se lo alzò con le due mani fino al petto, le quattro gambe contro il nemico. — È un motore, – gridava Nestore – è un motore, – ma vedendo che non l’ascoltavano, agile, scansate le tende, saltò sul davanzale e balzò in strada per far tacere quel fragore mortale. Il parapiglia era durato un minuto, meno d’un minuto. Dalla porta che si sfollava apparve un popolano facendo segno con la salvietta perchè gli astanti tacessero e annunciò in romanesco: — So’ quelli c....zi matti de li facisti che la notte gireno Roma a fa sti scherzi de fijacci de p....na. La spiegazione era precisa; ma come sempre avviene dopo una delusione, col riapparire della verità non riapparve la giustizia, e molti se la presero con l’onesto annunciatore della verità: — Non li potevi prendere pel collo tu che lo sapevi? Quello, logico ribattè: — Ma a me che ce lo so, che me ne frega? Nestore rientrò dalla porta: — È un automobile da corsa, piccolo. Quando son saltato fuori, ha preso il volo. Pare che sieno dei fascisti che si divertono a fare queste burle. L’altra notte vicino alla stazione s’erano nascosti dietro gli alberi del giardinetto delle Terme, e quando passò la carrozzella con l’onorevole B.... e l’onorevole A..., fecero lo stesso scherzo e se il vetturino non era abile, il cavallo spaventato chi sa dove li sbalzava. Canaglie. Ma quella sua prontezza a precipitarsi sul nemico saltando giù dalla finestra, adesso raccoglieva il plauso di tutti. Flora non gli toglieva più gli occhi da dosso: — Venga a San Pietro anche lei, – gli ripeteva. Gli altri ormai si ristoravano col vino che restava. Qualcuno provava a ridere. Uno osservò al deputato che parlava bolognese: — Tu dovresti parlare di queste buffonate co ministro degl’Interni. L’altro che respirava grosso, moveva solo la destra con l’aria d’assicurare l’interlocutore: – Lascia fare a me. S’udì ancora un altro dire al maestro di scuola, indicandogli il colletto e lo sparato della camicia: — Che cos’è? Sangue? Quello esterrefatto si schiacciò il mento sul petto per arrivare a scorgere il proprio sangue. Ma i vicini lo avvertirono: – È vino. – Era il vino della bottiglia che gli si era rovesciata addosso mentre egli si rovesciava sotto la tavola. E tutto finì lì. Il male furono i cocci, e li pagò, tutti, signorilmente, l’onorevole Michelangelo anche perchè il russo era scomparso. Si restò d’accordo che la mattina dopo, un poco prima delle nove, sarebbero passati a prendermi al mio albergo con l’automobile, addirittura, di Sua Eccellenza. Vennero alle nove e mezzo. L’amica di Flora si chiamava Leda ed era meno giovane di lei; ma forse per questo era meglio abituata alla magnificenza delle automobili ministeriali e delle basiliche papali. Per ascoltare le spiegazioni che io cercavo di dare alla comitiva, si fermava, poggiava le due mani sul manico d’avorio del suo ombrellino verde e, seria in volto, senza guardarmi in faccia, approvava con la testa le mie parole, benevola e regale. Le sue domande erano nette e matematiche: quante sono le colonne del porticato, quante sono le statue, la piazza quanto è larga, la basilica quanto è larga, la cupola quanto è alta. Vecchio medico, abituato da giovane agli esami e poi ai consulti con colleghi più autorevoli di me, quando non sapevo, immaginavo, badando a dare alle cifre più incerte un accento più sicuro. Flora mostrava per la sua amica una gentile deferenza che non veniva, come capii, da qualche battuta più libera dei loro privati dialoghi, nè dall’età più matura nè dall’intelligenza più sobria, ma dal fatto che questa amica era rimasta fedele al palcoscenico e all’arte sua di ballerina, mentre lei Flora da più d’un mese viveva giorno e notte con un uomo, e per quanto quest’uomo lavorasse alla distruzione della proprietà privata, era diventata, in fondo, la proprietà di lui. — Parli sottovoce, – mi ammonì la signora Leda quando giungemmo presso l’altar maggiore, e d’un tratto si staccò da noi per andarsi a genuflettere alla balaustrata. — Leda è molto religiosa, – osservò Flora, seguendola cogli occhi, rivelando una certa inclinazione ad imitarla: – Suo figlio è in un collegio di preti. — È una signora, caro dottore, una vera signora, come ce ne sono poche, – confermò l’onorevole Catini e, poichè la preghiera di Leda andava per le lunghe nè essi avrebbero osato di continuare il giro della basilica senza lei, volle mostrarmi con quanta agilità egli sapesse salire dal particolare al generale: – Nello sfacelo della borghesia le migliori qualità d’intelligenza e di cuore si sono rifugiate in queste donne che si votano all’arte. Sentono esse che devono raccogliere tutta una eredità di grazia, di bellezza, di civiltà, di poesia e farne finalmente partecipe la folla sovrana. Nessuno in Russia riceve gli onori che ricevono le donne che cantano e che ballano. — Hanno tripla razione. — E se la volessero quadrupla, l’avrebbero che se la meritano. — E non la vogliono? — Non la vogliono. Ella non immagina, caro dottore, l’abnegazione d’un artista, specialmente se è donna. Per mantenere intatta, anzi per accrescere la sua capacità nell’arte che s’è scelta, essa si sottomette a privazioni e a regimi che nessuno di noi uomini sopporterebbe. Privazioni di tutto: dall’amore al cibo. Sono delle martiri. Eravamo sotto la statua di San Pietro. Per allontanarmi dalla sua amica egli mi prese amichevolmente sotto braccio, e mi confidò: — Per avere Flora tutta per me, capisce, tutta per me, ho dovuto ottenere da lei che abbandonasse l’arte sua. È stata la più gran prova d’affetto che potesse darmi. Me l’ha data. Ma spesso piange. Le assicuro: solo pel giudizio che s’ostina a dare di queste donne, la morale borghese meriterebbe d’essere maledetta. Lo è. E la distruggeremo. Ogni rivoluzione deve essere, prima di tutto, morale, deve avere la sua morale. La nostra la ha. E la imporrà al mondo. Lei sa cos’è il ciurlo? No? E il nodo? Nemmeno? Il ciurlo è il girotondo che la danzatrice fa della sua persona sopra un solo piede. E il nodo è quel giro o quei giri che essa fa sulla punta dei piedi senza cambiare posto. Ebbene un ciurlo o un nodo costano a un essere umano più privazioni e più sacrifici che a molti di questi santi.... — Onorevole.... — Lei è un borghese, lo vedo, incorreggibile. E tornò alla sua amica e le mise gentilmente una mano intorno alla vita per contemplare con lei la statua di Sant’Elena che dall’opposto finestrone il sole dorava con un fascio di raggi come un riflettore. Ma Flora abbattè d’un colpo secco quella mano audace: — Siamo in chiesa, Micio. Da quel momento tutta la mia sapienza di cicerone fu vana. Leda finita la sua preghiera, s’era riaccostata a noi, ma non parlava nè ascoltava più, rapita in estasi. Flora che non aveva sulle prime osato genuflettersi accanto alla sua amica, adesso inquieta cercava di riparare all’omissione con qualche altro gesto o rito di compunta religione. E vedute due donne del popolo avvicinarsi al piede di San Pietro e baciarlo più volte e ai baci intercalare segni di croce, e perfino alzare sulle braccia un loro bimbo perchè anch’egli apponesse la sua boccuccia di latte su quel bronzo logorato dai baci, si spiccò da noi e, sfregatolo bene con la sua pezzuola di batista profumata, lo baciò anch’ella due volte, chiudendo gli occhi tanto piamente che il deputato se ne commosse e mi sussurrò: — Che donna! In quella dall’abside lontano scoppiò un pieno d’organo. Niente di bello. Era un organista che s’esercitava mani e piedi, lassù, e filava di gran pieni a registro di bombarda allagando di torrenti fragorosi le navate, i transetti, le cupole. Il rombo come un turbine di vento pareva assalire ogni oggetto, dai pilastri di marmo alle fiammelle dei ceri, e scuoterlo e frugarlo. I miei compagni s’erano fermati attoniti e quasi spauriti come ci si ferma per istinto di difesa quando una folata d’uragano v’investe a una svolta, e guardavano le statue come a chiedersi se sotto quell’impeto sarebbero riuscite a restare immote sui loro troni nei loro gran gesti sospesi. D’un tratto, com’era cominciato, il frastuono si troncò e si spense. — Meraviglioso, – disse il deputato comunista. Flora aveva gli occhi lucidi. Il volto di Leda era pallido e segnato come dopo uno svenimento. Flora s’attaccò per un braccio al suo uomo e gli parlò sottovoce. Catini scuoteva la testa e corrugava la fronte e provava invano a sorridere. Flora chiamò Leda in ajuto, e Leda gli parlò breve e, all’aspetto, severa, tenendo sempre le due mani sul manico dell’ombrellino come sull’elsa d’uno spadone. Che si dicevano? Per discrezione io m’allontanai verso la Confessione e mi detti a guardare gli stemmi di marmo sulle basi delle colonne ricordando d’essermi da studente accorto che avevano la forma del petto e del ventre d’una donna incinta, di mese in mese, finchè nell’ultimo da una voluta sul ventre spianato sboccia ridendo il pargolo neonato. Ma con la coda dell’occhio non lasciavo i miei tre compagni, e d’un tratto scorsi, dietro le due donne che cercavano di nasconderlo, il deputato piegarsi furtivamente a deporre anche lui un bacio fuggevole sul piede di San Pietro. Fu un attimo. — Dottore, dottore.... – mi chiamava Leda. M’avvicinai come se niente avessi veduto, e proposi di terminare il giro della chiesa. Flora e Micio erano distratti, lui goffo e confuso, lei accesa in viso e riconoscente e amorosa così che se lo teneva per una mano come un bambino. Il deputato si riprese súbito, aggrottò le ciglia, guardò l’ora ed esclamò rotondo: — Perdìo, mancano venti minuti alle undici e devo andare a prendere i compagni all’albergo del Parlamento. Non ci avviammo, fuggimmo. Solo sulla porta della basilica Flora si volse indietro e contemplando con un piccolo sospiro quell’immensità, concluse: — È più bello della Scala. Così in un lampo ella mi rivelò il primo movente della sua ammirazione e adorazione infantile per la Basilica, e l’unità della sua anima gentile. — Presto, presto, – ripeteva Catini, facendo di gran segni con le sue braccia all’automobile che ci aspettava all’ombra sul principio del colonnato, dalla parte del Sant’Uffizio. Ma io li lasciai lì e me ne andai a far colazione da solo in un’osteria su via Angelica dove da quarant’anni so di trovare, alla buona stagione, i carciofi all’olio dorati e rosolati tanto bene che adesso a scriverne mi vien la voglia di partire per Roma a godermene una dozzina, bollenti, appena tolti di teglia, tra l’olio che ancóra frigge.