Memorie inutili/Parte seconda/Capitolo XX

Capitolo XX

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CAPITOLO XX

Notizie ingenue intorno al parto della mia commedia romorosa

intitolata: Le droghe d’amore e intorno alla Ricci.

Non v’è chi non sappia che, dopo il lungo corso delle mie favole allegoriche fortunate da me composte per il teatro, giudicate buone ed acclamate dal pubblico, cercai di cambiar genere scenico, conoscendo che sui nostri teatri un genere sempre il medesimo va illanguidendo, divien noioso agli spettatori e inutile a’ comici; e che per trovare degli argomenti omogenei all’indole della truppa comica ch’io soccorreva e sosteneva, aveva scelto a trattare degli argomenti delle favole sceniche dell’informe e stravagante teatro spagnolo.

Il Sacchi mi mandava tratto tratto de’ fasci di quelle strane e mostruose opere di quel teatro. La maggior parte erano da me scartate e rifiutate, ma il fondo d’alcune di quelle da me scelto, riedificato con una orditura nuova del tutto, colla introduzione di caratteri naturali e tra noi intesi, dialogato coll’italiano frizzo, l’italiana grandezza ed eloquenza poetica, aveva dato diletto al pubblico e cagionate delle replicate irruzioni di concorso utilissimo a’ miei protetti.

Di questa veritá fanno pubblica testimonianza le mie Donne innamorate da vero, le mie Donne vendicative, le mie Donne Elvire, le mie Notti affannose, i miei Fratelli nimici, le mie Principesse filosofe, i miei Pubblici secreti, i miei Mori di corpo bianco, i miei Metafisici, le mie Bianche di Melfi, ecc. Le prefazioni ch’io scrissi a tutte le opere mie teatrali che furono date alle stampe, dánno intero ragguaglio partitamente delle mie capricciose opere teatrali e del loro effetto, e perciò non annoio il lettore sul proposito di quelle.

Col medesimo sopra accennato mio sistema aveva ideata, posta in apparecchio d’ossatura, con un intreccio a modo mio, [p. 358 modifica]e dialogato in versi l’atto primo di una commedia ch’io intitolai: Le droghe d’amore. Una commedia spagnola di Tirso da Molina, antico autore spagnolo, esibitami dal Sacchi come buon argomento, intitolata: Celos con celos se curan, risvegliò in me l’idea di riedificare il mio dramma sul puro fondo di quella.

Pochissimo persuaso dell’opera mia, andava a rilento, e l’aveva anzi posta e abbandonata da un canto per non terminarla, come feci di molti argomenti, cominciati a comporre e scagliati ne’ scartafacci inutili.

Fu nella novena del natale di quell’anno 1775 ch’io fui sorpreso da un reuma pertinace con una febbre reumatica, la qual febbre degenerata in una di quelle febbri che i medici chiamano putride, fui obbligato dal male, dalla stagione rigida, dall’intemperie e dal medico a rimanere chiuso in casa da trenta e piú giorni.

La Ricci conservava con me delle amichevoli apparenze indefessamente, ed entrato anche il carnovale, tutte le sere che non era obbligata al teatro veniva col marito a tenermi compagnia.

Il patrizio veneto Paolo Balbi, il dottore Andrea Comparetti, ora rinomato professore nell’universitá di Padova, il signor Raffaele Todeschini, onestissimo amico mio, un mio nipote, figlio di mio fratello Gasparo, il signor Carlo Mattei, illibato mercante che mi amava, il signor Michele Molinari, parzialissimo dell’opere mie quali si fossero, e talora la Ricci col marito, e qualche attore della compagnia del Sacchi quando non era obbligato alle recite, formavano la brigatella della serale mia conversazione nel tempo d’una lunga e tediosa convalescenza che mi tratteneva chiuso nella mia abitazione.

L’ozio, che fu sempre mio nimico, e le molte ore di solitudine mi fecero ripigliare il pensiero di dar fine alla mia commedia Le droghe d’amore, per occuparmi e sentir meno la noia.

Quanto piú m’inoltrava in quell’opera, tanto piú mi sembrava snervata, lunga e tediosa, e mi determinava a scagliarla tra le cose inutili.

Gli argomenti del teatro spagnolo contengono per lo piú in essi tanta favolosa inverisimiglianza che, per sedurre gli [p. 359 modifica]spettatori a impegnar l’animo come se venisse rappresentata loro una veritá, è necessaria tutta la malía dell’arte rettorica e della eloquenza, il che sforza lo scrittore a una prolissitá pericolosa in un teatro. A questo pericolo era soggetto il mio dramma Le droghe d’amore.

Quel dramma era diviso in tre atti, ed era giunto a dialogarlo sino ad una porzione dell’atto terzo.

Mosso io dalla curiositá, tanto per intrattenere la brigatella che mi favoriva la sera quanto per rilevare reffetto che quell’opera faceva sugli animi, proposi una sera la lettura, e fu gratissima la mia proposizione.

Gli ascoltatori furono: la Ricci, il mio nipote Francesco, figlio di mio fratello Gasparo, il dottore Comparetti e il signor Michele Molinari.

Si mostrarono tutti presi dall’interesse e per il frizzo satirico sul costume universale e per i dialoghi de’ caratteri da me dipinti.

Dissi le ragioni della mia disuasione di dare al pubblico quell’opera e la mia costante risoluzione di porla tra le cose dimenticate. Proruppero ne’ stimoli perch’io la terminassi e la dessi al teatro. Sopra tutti la Ricci non cessava mai di persuadermi e di stimolarmi e pregarmi perch’io conducessi a fine quell’opera a cui non mancava molto. Niente mi scosse dalla mia determinata volontá di lasciarla tra i parecchi miei scartafacci disutili.

Dalla puritá di questo principio, ch’ebbe i testimoni accennati, si vedrá i gradini per i quali una composizione innocente passò, contro ogni mia aspettazione, ad essere considerata una satira particolare.

Alcuni giorni dopo la detta lettura, una sera della fastidiosa lunga mia convalescenza, la Ricci ch’era da me venuta uscí improvvisamente a chiedermi s’io conoscessi il signor Pietro Antonio Gratarol, secretario del veneto senato. Le risposi di non conoscerlo, e dissi una veritá. Aggiunsi di conoscerlo di veduta tuttavia, additatomi nella piazza da chi lo conosceva, e che all’aria forestiera, all’andatura e a’ suoi abbigliamenti, non [p. 360 modifica]lo averei giudicato mai secretario del grave senato veneto. — L’ho però udito nominare — seguii — per uomo di talento e di spirito.

— Egli ha una gran stima di lei — disse la Ricci. — Sono obbligato a quel signore ch’egli abbia per me un sentimento ch’io non merito — rispos’io. — Lo credo un uomo pulito — diss’ella — e lo credo un uomo d’onore. — Quanto a me — rispos’io — non ho niente al contrario, quando non si volesse attribuirgli a colpa il concetto ch’egli ha d’essere un famoso passeggero seduttore di femmine, guastatore di cervelli muliebri e abbandonato a quella che oggi è chiamata galanteria ed a cui io do un altro titolo.

Queste veritá, note all’universale e note anche ad alcuni rispettabili tribunali, ch’io dissi alla Ricci, non furono che per dare un avvertimento a un’amica e mia comare, e avvertimento ch’io conobbi dopo assai tardo.

Volli raddolcire il mio discorso, aggiungendo: — Non nego però che ci sieno degli estrinseci nelle persone, che facciano fare de’ falsi giudizi, da’ quali giudizi è prudenza il guardarsi, massime da chi aspira ad impieghi. Dal canto mio, siccome non conosco intrinsecamente il signor Gratarol e siccome non mi prendo briga sulle altrui direzioni, né affermo né contraddico a ciò che suona la pubblica fama di quel signore.

— Egli deve andare residente a Napoli — disse la Ricci, — ed io coltivo di andare in un teatro di quella metropoli. Potrei ricevere da lui de’ gran favori.

— Come! — rispos’io — non cercate dunque piú di passare nel teatro di Parigi? — Cerco — diss’ella — di proccurarmi delle fortune per qualche via. — Servitevi pure — rispos’io troncando quel discorso e rivolgendo il parlare sopra ad altri argomenti.

Vidi benissimo che la Ricci aveva incontrata della amicizia col signor Gratarol nel tempo che le mie febbri e la mia lunga convalescenza impedirono le mie solite visite, e vidi che l’introdotto di lei discorso nasceva da un suo ricordarsi de’ miei risoluti ricordi che, s’ella avesse accettate familiarmente una tal [p. 361 modifica]sorta di visite, mettendosi in un aspetto non confacente co’ miei sistemi, averei troncate le mie visite domestiche da lei bramate, lasciandola nella sua libertá; e scòrsi benissimo che, riscaldata la fantasia, con la introduzione del sopra accennato discorso ella cercava con un’arte infelice di legare la mia visita familiarmente nella sua casa col signor Gratarol, persona ch’io rispettava e con cui averei trattato volentieri e tranquillamente in qualunque luogo fuori che nella abitazione d’una giovine comica mia comare, che da cinqu’anni aveva sostenuta, innalzata, visitata, accompagnata pubblicamente e difesa come un’amica onesta, prudente e rattenuta.

Siccome nel corso di cinqu’anni aveva abbastanza conosciuta l’impossibilitá di far pensare ed operare sulla norma de’ miei consigli quella giovine, aveva anche prefisso di traccheggiare per tutto quel carnovale coll’ombra della mia assistenza e parzialitá, per non esporla a’ fulmini delle lingue de’ suoi compagni e compagne che cordialmente la odiavano, e per salvar me dalle sporche dicerie; ma giunta poi la quaresima in cui la compagnia comica partiva per le piazze estere, aveva divisato di sospendere con lei ogni carteggio e, ritornata a Venezia, di trattarla con quella civile indifferenza con cui trattava tutte le altre comiche, tanto piú quanto prevedeva la di lei fuga per Parigi o per Napoli.

Tutte le mie determinazioni pacifiche furono vane col carattere spiegato di quella attrice, impastata di quintessenza d’ambizione, guasta da’ principi d’educazione e dalle adulazioni dei spiriti dicentisi filosofi del nostro secolo illuminato.