Meditazioni di un brontolone/La «Mandragola» di Niccolò Machiavelli
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(Studio critico)
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LA „ MANDRAGOLA” DI NICCOLÒ MACHIAVELLI
(STUDIO CRITICO)
Fu, ed è tuttora, fiera discordia fra i critici, che si diedero a studiare e a commentare, specialmente negli ultimi tempi, le opere mirabili del divino Machiavelli, se la Mandragola si abbia a considerare come opera d’arte esclusivamente, o come opera d’arte da politici e filosofici intendimenti mossa e a fine filosofico e politico indirizzata: in altri termini, se la commedia del Machiavelli sia soltanto una commedia, o se non si abbia a tenere in conto di una nuova forma della quale siasi voluto servire l’autore per raffermare e ribadire le dottrine sue e le sue teorie sulla storia dei popoli e sul governo delle nazioni, da esso svolte nei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, nel Principe, nelle Storie Fiorentine e nel Trattato dell’arte della guerra.
A me - e sia detto con la reverenza dovuta ai valorosi contendenti - la Mandragola è apparsa, sempre e sopra ogni altra cosa, una commedia, una bellissima commedia, un ottima commedia, una stupendissima commedia da tenere posto principalissimo fra le più belle clie vantino le antiche e le nuove letterature.
Con ciò non intendo di negare la possibilità clie, nell’alta mente dell’autore, interamente compresa del perpetuo obiettivo di tutti i suoi studi, anche la Mandragola potesse avere ed avesse, oltre il primo intendimento di ogni opera d’arte, anche un secondo fine, quello di cooperare a raffermare, a completare, dirò così, l’esplicazione dei grandi concetti politici onde si era fatto banditore l’immortale segretario fiorentino.
In una mente cosi meravigliosamente lucida, così positivamente ordinata quale era quella del Machiavelli, tutte le cognizioni, tutti i pensieri, tutto il lavorìo di deduzione dovevano essere, e furono evidentemente, coordinati a quel metodo di sperimentalismo applicato alla storia e alla politica che fece dell’autore del Principe il sapiente ed ardito innovatore degli studii nell’età moderna, il creatore primo e vero di quella filosofia della storia, onde, tanto tempo dopo, si son fatti belli e inglesi e fiamminghi e francesi e tedeschi, dal Bacone al Grozio, dal Bossuet all’Hegel.
Ma se, nel capolavoro drammatico del Machiavelli, quel secondo fine ci fu, o se esso traspare, qua e là, dallo svolgimento dell’azione e dalle parole dei personaggi, esso potè essere tanto conseguenza quasi inavvertita della condizione d’animo dell’illustre autore, quanto effetto della consapevole e determinata volontà di lui.
Imperciocché, a ben cercare, nelle molteplici e svariate opere del Machiavelli, non ve ne ha alcuna, per quanto lontana dalla politica e dalla filosofia, nella quale il pensatore ed il politico non faccian capolino e in cui non riappaiano idee ed intendimenti espressi dall’autore nelle proprie opere storiche, politiche e filosofiche.
Così, per non parlar dei Decennali, nell’Asino d’oro e nei Capitoli della Fortuna, dell’Ingratitudine e dell’Ambizione, nei Canti carnascialeschi e nelle Lettere familiari[1] il Machiavelli, indagatore della ragione di Stato e dell’arte di governo e delle vicende delle nazioni riappare sempre, volente o nolente, e prende il di sopra sul poeta e sull’amico intento a lamentare o col Vettori, o col Nerli, o col Guicciardini i propri travagli di uomo privato.
La Mandragola, adunque, per me, è una commedia, il che val quanto dire un’opera d’arte: e come tale intendo di considerarla, esaminandone partitamente tutti i pregi che, a mio avviso, fanno di essa un vero capolavoro di arte vera, di arte sopraffina, di quell’arte che ritraendo dalla natura fu, è e sarà eternamente ammirevole e bella.
Era nell’indole del Machiavelli il profondo sentimento del vero e, dalla qualità de’ suoi studi, tale intimo e naturale sentimento trasse l’arte squisita di ritrarre la natura, sentimento ed arte che certi ragazzacci credono e van proclamando scoperta moderna, anzi dei giorni nostri.
La spontaneità e profondità di questo sentimento del Machiavelli rifulgon limpidissime in un brano di una delle lettere sue familiari a Francesco Vettori e precisamente in quella del 31 gennaio 1514, nella quale, dopo favellato, con efficacissima gagliardia di colorito, di un nuovo amore nel quale egli era incappato - e aveva allora quarantacinque anni - dicendo, fra altre cose «Nè posso pensar mai come io abbia a scatenarmi; e quando pur la sorte, o altro aggiramento umano, mi aprisse qualche cammino a uscirmene per avventura, non vorrei entrarvi: tanto mi paiono ora dolci, or leggiere, or gravi quelle catene, e fanno un mescolo di sorte che io giudico non poter viver contento senza quella qualità di vita.» soggiunge poi. «Chi vedesse le vostre lettere, onorando compare, e vedesse la diversità di queste, si meraviglierebbe assai, perchè gli parrebbe ora che noi fossimo uomini gravi, tutti volti a cose grandi e che ne’ petti nostri non potesse cascare alcun pensiero che non avesse in sè onestà e grandezza. Però di poi, voltando carta, gli parrebbe quelli noi medesimi esser leggieri, incostanti, volti a cose vane. E questo modo di procedere, se a qualcuno pare sia vituperoso, a me pare laudabile, perchè noi imitiamo la natura che è varia; e chi imita quella non può esser ripreso. E benché questa varietà noi la solessimo fare in più lettere, io la voglio fare questa volta in una, come vedrete se leggerete l’altra faccia. Spurgatevi.»
E quest’uomo, sano, vero, intero che, poco prima, ha trascritto all’amico un suo sonetto in cui dichiara quel suo nuovo innamoramento, e che ha parlato con tutto il verace calore dell’uomo preso veracemente d’amore, continuando, parla, con tutta la sua più fine sagacia di uomo, di filosofo e di politico, dei modi da tenere per governare abilmente uno Stato nuovo, surto dalla riunione di varie città e di diversi Stati minori.’ Qui, dunque, il profondo sentimento del naturalismo è schiettamente palesato ed osservato.
Quanta e quale sia poi la sua finezza nell’arte del riprodurre la natura questo sommo verista ce lo manifesta in mille luoghi delle sue opere meravigliose, ma in nessuna - secondo il rimesso mio avviso - meglio che in quel brano di stupenda poesia, onde potrebbe andare orgoglioso qualunque più grande poeta, e col quale si chiude il capitolo IV dell’Asino d’oro:
. . . . . . . . . e tal divenni per l’amano |
Il Machiavelli conosceva Plauto e Terenzio: di quello imitò la Casina nella Clizia, di questo tradusse l’Andria da ambedue trasse qualche insegnamento per le altre due commedie senza titolo e qualche ispirazione.
Ma nella Mandragola sono cosi lievi i ricordi dei comici latini, che io li ritengo assolutamente accidentali: ed ove anche fossero studiati e voluti nulla tolgono alla originalità e alla italianità della commedia, scaturita spontanea dall’osservazione della società fiorentina, meglio si direbbe italiana, del Cinquecento, uscita di getto dalla mente profondamente indagatrice e dalla misurata e ad un tempo feconda fantasia dell’autore delle Storie Fiorentine.
L’argomento della Mandragola è noto.
Un giovane fiorentino, Callimaco Guadagni, di civile e agiata famiglia, è inviato, in età di dieci anni, a Parigi, ove, per un ventennio, egli si intrattiene compartendo il tempo parte agli studii, parte ai piaceri, parte agli affari, onde, costumato e dabbene è tenuto nella capitale della Francia, d’onde si parte perchè da un giovane, Camillo Calfucci fiorentino, ha udito levare a cielo la bellezza rara e la rara virtù di Madonna Lucrezia, maritata a un cugino di Camillo, Messer Nicia dei Calfucci, cosicché, secondo le affermazioni di Camillo, se tutte le donne italiane fossero mostri, questa sola sua parente sarebbe perr riavere l’onor loro. Il giovine, preso da un desiderio febbrile di vedere la donna della quale egli s’è innamorato, senza pur conoscerla di vista
Se non come per fama uom s’innamora,
viene a Firenze e trova la fama di madonna Lucrezia essere minore assai che la verità, il che occorre rarissime volte, e, al principiare dell’azione, si palesa disperato
di non poter venire a qualsiasi fine degli ardenti suoi desiderii e per la straordinaria onestà di lei e per
la ricchezza del marito e pel metodo di vita che i coniugi
Calfucci conducono.
Che fare?... In qual modo riuscire nell’intento?... A qual santo votarsi?...
I mezzi che porrà in opera l’innamorato Callimaco, aiutato dal furbo parassita Ligurio e dal fedele suo servo Siro, per venire ad una conclusione, formano tutta la tela, semplicissima, come si vede, della commedia.
L’azione della quale si svolge naturalmente, senza contorcimenti, senza artifici, senza episodii, e corre rapida, velocissima, con sempre crescente interesse, con continua festività di comici atteggiamenti, allo scioglimento.
Messer Nicia, ricco possidente, addottorato in legge, grosso di intelletto, ma bestialmente presuntuoso della sua vana dottrina, si strugge di avere un figliuolo dalla bella Lucrezia che, dopo sei anni di matrimonio, gli resta tuttora sterile.
Su questa matta brama di quell’insensato di messer Nicia, per suggerimento del venale e accorto Ligurio, si ordisce la trama onde, vinta la vereconda renitenza di Lucrezia, Callimaco raggiunge il desideratissimo fine di potere avere i ricambiati amplessi della bellissima donna e quel gaglioffo del dottore ha quasi certezza della prole invocata.
Al conseguimento di questo duplice intento concorreranno i ruffianesitni smaccati di Timoteo, frate vendereccio e impostore e le suggestioni più rimesse, ma non meno efficaci di Sostrata, madre della bella e casta Lucrezia.
Callimaco, che è giovane di buona dottrina fornito, si infinge medico e suggerisce al dottor Nicia il mezzo perchè egli possa aver figliuoli dalla sua Lucrezia: si darà a costei una pozione di mandragola, miracolosa per far ingravidare una donna sterile e della quale il medico improvvisato fece esperienza infallibile in Francia; presa che Lucrezia abbia la pozione, conviene trovare un giovinastro che con lei si giaccia la notte, affinchè e’ tiri a sè tutta quella infezione della mandragola, imperciocché quell’uono che ha, prima a far con lei, presa che essa abbia questa pozione, muore fra otto giorni e non lo camperebbe il mondo. Il confessore di monna Lucrezia, Fra Timoteo, e la stessa madre di lei disporranno la donna, reluttante, a tal passo.
La pozione è preparata, è somministrata: messer Nicia, Ligurio, Siro, si travestono e trasfigurano; Fra Timoteo, per venticinque scudi datigli e per maggior somma promessagli, finge d’esser Callimaco contraffatto; i quattro vanno, a notte, in sul canto della via per arrestare e imbavagliare il primo garzonaccio che ci passi; ed eccolo che ei viene: è un suonatore di viola; è Callimaco trasfigurato: i quattro lo prendono, lo aggirano, lo traggono in casa di Nicia, lo pongono nel letto di monna Lucrezia. E agevole comprendere quel che ne consegue: il giovine si palesa alla donna, le dipinge l’ardentissimo suo affetto e le svela l’amoroso inganno; onde la donna vi si acconcia, poiché lo stesso bestiale fanfarone di suo marito ha così voluto: al mattino il giovine è tratto fuori con tutte le precauzioni, con le quali la sera fu introdotto in casa.
La donna è ribenedetta da Fra Timoteo. Callimaco è ringraziato, è adorato dall’ingannato messer Moia, che lo vuole suo compare, onde i due giovani, d’ora innanzi si godranno liberamente il loro amore, sotto la protezione del becco e contento marito.
Questa l’azione semplicissima della commedia che, senza la menoma digressione di fatti e di parole, concisa, nervosa, come brano di storia sallustiana, comicamente gaia e serena, corre alla soluzione.
Tutti i nomi dei personaggi della Mandragola sono d’origine greca, meno quello di Lucrezia, il quale è latino perchè, secondo ogni probabilità, quel nome fu suggerito all’autore dalla perfetta somiglianza del fatto di questa donna dei Calfucci con quello narrato dalla leggenda intorno alla moglie di Collatino.
Come i giovani patrizi contendevano al campo romano, sulla virtù delle loro donne, e mettevan pegno ciascuno pel maggior valore della propria e indi si partivano per andare a sorprender le mogli che non li attendevano, così a Parigi, fra giovani francesi e giovani italiani, si contendeva sul merito e sulla bellezza delle donne dei rispettivi paesi e messer Camillo Calfucci sosteneva la superiorità assoluta della propria cugina: e tanto la Lucrezia romana, come la fiorentina rimangono, ad ugual modo, vittime di una trama causata dalla loro bellezza. Mi par verosimile quindi che la identità delle due situazioni, suggerisse all’autore dei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio l’idea di nominare la virtuosa donna dei Calfucci Lucrezia, come nomavasi la virtuosa moglie di Collatino.[3]
Ma se i nomi dei personaggi sono esotici, le loro fisonomie, i loro costumi, il loro linguaggio, semplice, spontaneo, proprio di quello parlato, sono completamente paesani.
E ogni personaggio ha un’im pronta tutta sua, caratteristica, vera; e ciascuno paria conformemente alla natura e all’indole sua e nessuno dice nè una parola di più, nè una di meno di quelle che occorrono a manifestare i propri pensieri.
In tanta scioltezza e sprezzatura di stile, in tanta abbondevole vena di lingua scorrevole, pianissima, la vivezza del dialogo è addirittura meravigliosa per sobrietà e per efficacia irresistibile. Non un personaggio divaga un solo istante dal filo dell’azione: non descrizioni, non racconti, non beffe e motti arguti che ragionevolmente o naturalmente non entrino nel dialogo, puro, spontaneo, disinvolto, argutissimo, o che trattengano della menoma sosta lo svolgersi dei fatti, i quali, senza sforzo, senza leziosi lenocinii, si affrettano, si incalzano, precipitano sempre in sembianza di fatti veri, cosi che l’illusione è conservata ognora nell’animo dello spettatore, cui più che a scene teatrali par di assistere a scene effettive della vita reale.
La cura della verità appare fino dal principio della commedia allorchè Callimaco spiega al servo suo Siro la ragione per la quale fin qui egli non gli ha mai parlato del suo veemente amore per la donna di messer Nicia Calfucci.[4]
Cal. Siro, non ti partire, io ti voglio un poco.
Siro. Eccomi.
Cal. Io credo che tu ti maravigliassi della mia subita partita da Parigi, ed ora ti maravigli, sendo io stato qui già un mese, senza fare alcuna cosa.
Siro. Voi dite il vero.
Cal. Se io non ti ho detto infino a qui quello che ti dirò, non è stato per non mi fidare di te, ma per giudicare, le cose che l’uomo vuole non si sappiano sia bene non le dire, se non sforzato. Pertanto, pensando io avere bisogno dell’opera tua, ti voglio dire il tutto.
Siro. Io vi son servidore: i servi non debbono mai domandare a’ padroni di alcuna cosa, nè cercare alcun loro fatto; ma quando per loro medesimi le dicono, debbono servirli con fede; e così ho fatto e son per fare io.
Per tal guisa è giustificata la narrazione dell’antefatto, la quale viene naturalissima a informare il servo sulla scena e il pubblico in platea di ciò che è occorso a messer Callimaco Guadagni fin qui, e che questi, per la ragione seriissima addotta, non aveva, fino a quel momento, narrato al servo.
E poiché la prima scena termina con la enumerazione delle vaghe speranze onde è ancora alimentato l’amor di Callimaco, ecco uscir di casa messer Nicia, favellante col parassita e raggiratore Ligurio di quel suo chiodo, che egli ha fisso in testa, di voler avere figliuolanza; con che mirabilmente si predispone lo svolgersi dell’azione, fondata sui due desiderii, nutriti respettivamente da messer Nicia e da Callimaco, l’uno all’insaputa dell’altro, quegli di aver prole, questi di possedere la moglie di lui.
Ligurio, che ha già ricevuta l’imbeccata da Callimaco, con larga promessa di rimunerazione, consiglia a Nicia di andarne con la moglie ai bagni. Là è più facile la connivenza, maggiore la libertà, più agevoli i contatti... chi sa?... di cosa nasce cosa... e Callimaco spera di venirne ad una. Messer Micia ha già abboccato al suggerimento di Ligurio, intimo di casa.
Così l’immortale autore non presenta ipso facto allo spettatore la pensata del tranello, onde i desiderii di Callimaco e quelli di Micia, ad un tempo, saran soddisfatti.
Quella idea scaturisce naturalmente e come conseguenza di altre idee, prima vagheggiate, voltate, rivoltate nella mente dei personaggi interessati e trovate insufficienti allo scopo, e sorge proprio nell’animo del personaggio più calmo, più riflessivo, più fraudolento, quando egli, alla fine del rapido atto primo, propone a Callimaco di infingersi medico.
Lig. Io voglio che tu faccia a mio modo, è questo è che tu dica d’aver studiato in medicina, ed abbia fatto a Parigi qualche esperienza. Lui è per crederlo facilmente e per la semplicità sua e per esser tu litterato e potergli dire qualche cosa in grammatica.
Cal. A che ci ha a servir cotesto?
Lig. Serviracci a mandarlo a qual bagno noi vorremo, ed a pigliar qualche altro partito, ch’io ho pensato, che sarà più corto, più certo, più riuscibile che il bagno.
Cal. Che di’ tu?
Lig. Dico che se tu avrai animo, e se tu confiderai in me, io ti do questa cosa fatta innanzi che sia domani quest’otta. E quando e’ fosse uomo, che non è, da ricercare se tu se’ o non se’ medico, la brevità del tempo, la cosa in se, farà che non ne ragionerà, o che non sarà a tempo a guastarci il disegno, quando bene ei ne ragionasse.
Cal. Tu mi risusciti: questa è troppo gran promessa, e pascimi di troppo grande speranza. Come farai?
Lig. Tu il saperai quando e’ fia tempo; per ora non occorre ch’io te lo dica, perchè il tempo ci mancherà a fare, non che a dire. Tu vanne in casa e quivi mi aspetta, ed io anderò a trovare il dottore; e se io lo conduco a te, anderai seguitando il mio parlare, ed accomodandoti a quello.
Cal. Così farò, ancora che tu mi riempia di una speranza, che io temo non se ne vada in fumo.
E così finisce l’atto primo, in cui mentre il magistero
scaltrito del valentissimo artista lumeggia di
verità le astuzie del parassita, nelle quali furberia nasce
di furberia
...come l’un pensier dall’altro scoppia,
si mantien viva la sospensione dell’animo degli uditori, i quali ignorano ciò ebe accadrà e, nondimeno, sono stimolati da una viva curiosità a desiderar di conoscere quel che sia per avvenire.
E qui, di passaggio, noto come le sagaci e profonde osservazioni, figlio dell’acutissimo e insuperabile ingegno del Machiavelli, cascassero a questo sempre, in ogni occasione, anche quando meno sembra che e’ ci dovesse pensare, quasi a sua insaputa, dalla penna.
Nella brevissima canzone susseguente l’atto primonota v’ha un pensiero profondo che, più tardi, uscirà, per una di quelle coincidenze che si riscontrano talora nelle opere dei grandi intelletti, dalla penna del Leibnizio, il quale, probabilissimamente, non conosceva la Mandragola del Machiavelli.
La canzone dice così:
Chi non fa prova, Amore,
Della tua gran possanza, indarno spera
Di far mai fede vera
Qual sia del cielo il più alto valore;
Nè sa come si vive insieme e muore;
Come si segue il danno, il ben si fugge,
Come s’ama se stesso
Men d’altri, come spesso
Timore e speme i cuori agghiaccia e strugge,
Nè sa come ugualmente uomini e Dei
Paventan l’arme di che armato siei.nota
Dove è a notare la condensazione dei pensieri e la freschezza e nervosità della forma, tanto più ammirevole se si pensi come, a quei tempi, e quanto già l’onda
[5] [6] dell’evirato e scipito petrarchismo, come torrente limaccioso, dilagasse per tutte le terre d’Italia.
Come s’ama se stesso |
disse il Machiavelli; e il Leibnitz: «Amare è farsi felice dell’altrui felicità.»
Pensiero tanto profondo quanto umano: perchè l’amor vero, quello che si impossessa di tutta l’anima nostra, di tutte le sue facoltà, si inebria in effetto di un desiderio indefinibile di annichilimento di tutti noi stessi nella donna amata e per la donna amata: in quella febbre piacerebbe di essere assorbiti completamente in essa, si anela di divenir servi, di divenir schiavi, di essere tormentati dalle gioie stesse e dalle ebbrezze di colei che si ama... insomma è stupendamente, è umanamente vero... amare - badiamo di non prender la parola nell’abuso che se ne fa nell’uso comune - amare è farsi felice dell’altrui felicità.
Del resto, nell’atto II, per opera del previdente Ligurio, secondato dal febbricitante Callimaco, che sputa, opportunamente, in latino, sentenze ippocratiche, onde va in visibilio quell’asino addottorato di messer Moia, intorno alle cause della sterilità femminile e intorno alle urine di monna Lucrezia, che egli finge di aver bisogno di esaminare, ed esamina effettivamente, per meglio colorire la sua parte di medico, si vincono gli scrupoli dell’infatuato marito - che non sono nè scarsi nè lievi - e si ferma il disegno e si stabiliscono i modi di addurlo al fine desiderato.
La naturalezza e la celerità dello svolgimento di questo atto non lasciano un istante di sosta alla curiosità dello spettatore; mirabile per comica vibratezza la chiusa dell’atto stesso:
Nic. Io son contento, poi che tu di’ che re, e principi e signori hanno tenuto questo modo; ma sopra tutto che non si sappia, per amor degli Otto.
Cal. Chi volete voi che il dica?
Nic. Una fatica ci resta, e d’importanza.
Cal. Quale?
Nic. Farne contenta mogliema, a che io non credo che la si disponga mai.
Cal. Voi dite il vero; ma io non vorrei innanzi esser marito, se io non la disponessi a fare a mio modo.
Lig. Io ho pensato il rimedio.
Nic. Come?
Lig. Per via del confessore.
Cal. Chi disporrà il confessore?
Lig. Tu, io, i denari, la cattività nostra, la loro.[7]
Nic. Io dubito, non che’ altro, che per mio detto la non voglia ire a parlare al confessore.
Lig. Ed anche a codesto è rimedio.
Cal. Dimmi.
Lig. Farvela condurre alla madre.
Nic. La le presta fede.
Lic. Ed io so che la madre è della opinione nostra. Orsù avanziamo tempo, che si fa sera. Vatti, Callimaco, a spasso, e fa che alle due ore noi ti troviamo in casa con la pozione all’ordine. Noi andremo a casa la madre, il dottore ed io, a disporla, perchè è mia nota;[8] poi ne andremo al frate; e vi ragguaglieremo di quello che noi avremo fatto.
Cal. (sottovoce) Deh! non mi lasciar solo.
Lig. (c. s.) Tu mi pari cotto.
Cal. (c. s.) Dove vuoi tu che io vada ora?
Lig. (c. s.) Di là, di qua, per questa via, per quell’altra; egli è sì grande Firenze!
Cal. (c. s.) Io son morto.
Nell’atto III, mentre Sostrata, la madre della bella Lucrezia, convinta che è ufficio di uno prudente pigliare de’ cattivi partiti il migliore, e che se messer Moia «ad aver figliuoli non ha altro rimedio, e questo si vuole pigliarlo, quando e’ non si gravi la coscienza, e’ a pigliarsi,» va a persuadere la figlia sua di andarne dal Frate. Messer Moia, dati venticinque scudi a Ligurio, il quale lo ha indotto, perchè e’ non abbia a guastar le cose, a fìngersi sordo mentre che e’ parlerà a P. Timoteo, ne va, insieme col parassita, dal Frate.
E qui il Machiavelli, con fare al tutto shaksperiano, ci presenta, nella scena 3a dell’atto III, il P. Timoteo nell’interno della chiesa a colloquio con una donnicciuola, a fine di delinearne, con pochi tratti e’ michelangioleschi, tutta la fraudolenta figura del fratacchione e insieme la petulanza curiosa, pettegola, e la stimolante e lasciva superstizione della penitente.
F. Tim. Se voi vi voleste confessare, io farò ciò che voi volete.
Don. Non per oggi; io sono aspettata e mi basta essermi sfogata un poco così ritta. Avete voi detto quelle messe della nostra donna?
F. Tim. Madonna si.
Don. Togliete ora questo fiorino, e direte due mesi ogni lunedì la messa dei morti per l’anima del mio marito. Ed ancora che fusse un omaccio, pure le carni tirano; io non posso far che io non me ne risenta quando io me ne ricordo. Ma credete voi che ei sia in purgatorio?
F. Tim. Senza dubbio.
Don. Io non so già cotesto. Voi sapete pure quello che mi faceva qualche volta. Oh! quanto me ne dolsi io con essovoi. Io me ne discostava quanto io poteva; ma egli era sì importuno. Uh! nostro Signore...
F. Tim. Ni n dubitate, la clemenza di Dio è grande; se manca all’uomo la voglia, non gli manca mai il tempo a pentirsi.
Don. Credete voi che ’l Turco passi in quest’anno in Italia?[9]
F. Tim. Se voi non fate orazioni, sì.
Don. Naffe! Dio ci aiuti con queste diavolerie: io ho una grande paura di quello impalare. Ma io veggo qua in chiesa una donna che ha cert’accia di mio: io vo’ ire a trovarla. State col buon dì.
F. Tim. Andate sana.
E il Frate rimasto solo pensa:
Scena breve, sintetica, riepilogativa nella quale v’ha, pur tuttavia, la più sapiente e minuta analisi dei rapporti che corsero sempre tra i frati di tutti i tempi e le infinite femminuccie del volgo e anche della società più elevata e civile, da che il cattolicismo, falsando le santissime dottrine evangeliche, fondò la principale sua forza sulla confessione auricolare.
Il pettegolezzo triviale della penitente ricorre al confessore in tutte le più lievi contrarietà della vita, la curiosità malsana e lasciva dell’uno vince ogni resto di pudore nell’altra. Nella semioscurità della chiesa, sotto le fresche e silenziose arcate, odoranti di incenso e di cerume, a traverso al fidato graticciò del confessionale, che sembra separare i volti e congiunge gli aliti del Frate e della donna, si instituisce una dimestichezza pericolosa fra i due, una famigliarità spesso colpevole. La donna è debole, ondeggiante sempre fra il peccato e la penitenza, fra la bramosia del piacere e gli scrupoli della coscienza, fra la arrendevolezza della carne e i terrori dello inferno: essa, sulle prime è esitante a denudare l’animo suo a quell’uomo: ma egli, un po’ con la dolcezza, un po’ con le minaccie dei divini castighi, vince la naturai ritrosia della poveretta: bisogna dir tutto: il più orrendo dei peccati è tacerne qualcuno, fosse anche il minimo: bisogna frugare nell’intimo della coscienza, bisogna accusarsi delle opere, delle parole, dei desiderii, delle omissioni. In breve quella donna svela, in un oscillamento dell’animo fra il timido e il concupiscente, fra la esitazione e la compiacenza, tutto ciò che non avrebbe voluto e saputo svelare nè all’amica più fidata, nè alla più amorosa sorella... perchè la sorella o l’amica la potrebbero un giorno tradire, mentre il Frate non parlerà; il vincolo del segreto è vicendevole, vicendevole l’interesse del tacere[10]. Ed ecco i più reconditi pensieri di quella donna, ecco i desiderii suoi più fuggevoli sono in bal ìa di quell’uomo, che possiede, ormai, tutti i segreti di lei.
Ma la morale cattolica è ricca di ripieghi, è larga di concessioni, è abbondevole di accomodamenti col cielo. Siamo tutti fragili, figliuola: anche il giusto pecca sette volte al giorno: la misericordia di Dio è infinita: essa si piace di perdonare: non importa peccare: basta far atto di sommissione confessando i proprii peccati: se non manca all’uomo la voglia, non gli manca mai il tempo a pentirsi.
Allora quell’anima debole, vinta ogni erubescenza, si adagia nella compiacenza delle sue peccata, all’ombra dell’indulgenza del ministro di Dio: è una vicenda continua di peccati e di penitenze, di mancanze e di confessioni: allora quell’uomo, padrone assoluto di tutti gli arcani di quella coscienza, la volge a sua posta: a traverso al graticcio del confessionale egli scopre tutti gli andamenti della famiglia, egli si serve di quella donna come più gli talenta: egli se ne fa una spia, se ne fa una mezzana, se ne fa una prostituta.
Lo ciel poss’io serrare e disserrare |
egli grida, quando uno scrupolo, quando una resipiscenza per parte della sventurata accennasse alla più lieve resistenza... ella china il capo, ella è sommessa, ella è sua, è tutta sua: egli è il suo signore, un signore temuto ed amato ad un tempo, un signore mansueto e maneggevole, che accarezza i vizietti di lei, come madre indulgente, che è cedevole alle sue debolezze, che lusinga le sue vanità, che la sgrida qualche volta, che qualche volta la minaccia, ma che finisce sempre per perdonare. Oh! quel Dio che egli rappresenta è il più buono Iddio che possa desiderare la femminile debolezza!
E da quindi innanzi quella donna avrà bisogno di favellare quasi tutti i giorni col suo padrone: si confesserà una volta la settimana, ma andrà in chiesa tutta le mattine e, dopo udita la messa, avrà un breve colloquio col Erate. Di tanto in tanto gli farà dire qualche messa... con che si conseguono le grazie divine e si dà alimento ai segreti bisognucci del Confessore: poi ella gli confida i suoi piccoli affanni, le piccole contrarietà occorsele nella giornata precedente, i fattarelli e le dicerie del vicinato, poi
Velata di devota incontinenza
farà con lui un poco di pettegolezzo mondano, un zinzino di pietosa maldicenza, domanderà notizia del cholera.
— E vero che egli sta per venire, padre?
— Eli!... pur troppo, figliuola mia, i peccati del mondo sono tanti!... Lo sdegno di Dio e così grande!...
— Oh Gesummaria!... E come faremo noi?...
— Confideremo nel Signore, che protegge i devoti... Raccomandatevi a Dio... Pregate...
— Oh questa sera reciterò due parti di rosario!... Andrò a far visita alle quarantore a S. Gerolamo.
Ella gli bacia la mano, accomiatandosi da lui: egli la benedice:
— Dio vi accompagni, figliuola!
Tutto ciò è vero, è universale oggi, come lo era tre secoli e mezzo fa, a’ tempi del Machiavelli; e di tutto ciò è la sintesi stupenda nella breve scena 3U dell’atto III de!la Mandragola, e quella scena è d’un verismo così efficace, così artistico, così laudabile che io non saprei pensare che vi fosse chi non lo sentisse e non lo ammirasse.
Ma, per tornare allo intreccio della Mandragola, dirò che esso si avviluppa maestrevolmente nell’atto III quando, nella comicissima scena 4ª, Ligurio e messer Moia, che s’ha a finger sordo, vanno in chiesa a Fra Timoteo, al quale, co’ suoi scaltrimenti quel furbo da sette cotte del parassita, vuol persuadere che egli s’abbia a prestare a indurre l’abadessa di un immaginario monastero a dare una pozione a una supposta nipote di messer Nicia, educanda in quel tal monastero, accioccliè ella si sconci, essendo incinta di quattro mesi e, in compenso, promette al Frate trecento scudi per far tante elemosine.
La posta è grossa e fa gola al Frate, ma anche la trama a cui egli si deve acconciare è grave e pesante assai: onde il Padre Timoteo resta dubbioso. Ma Ligurio gli pone innanzi le ragioni per cui egli deve adattarvisi.
Lig. Guardate nel far questo quanti beni ne risulta. Voi mantenete l’onore al monastero, alla fanciulla, ai parenti; rendete al padre una figliuola, satisfate qui a messere e a tanti suoi parenti; tate tante elemosine quante con questi trecento ducati potete fare; e, dall’altro canto, voi non offendete altro che un pezzo di carne non nata, senza senso, che in mille modi si può sperdere. Ed io credo che quello sia bene, che faccia bene a’ più, e che i più se ne contentino.
F. Tim. Sia col nome di Dio, facciasi ciò che volete, e per Dio e per carità sia fatto ogni cosa. Ditemi il monastero, datemi la pozione; e, se vi pare, cotesti danari, da poter cominciare a far qualche bene.
La morale pretesca non ebbe mai, nè bocca più insinuantemente persuaditrice di quella di Ligurio, nè orecchio più accessibile alla persuasione di quello di Fra Timoteo.
Il Frate è presto a farsi mezzano d’infanticidio.
Chi non raccapezza un acca in tutto questo armeggìo è messer Micia, che dovrebbe esser sordo e ci sente e non intende dove l’astutissimo Ligurio voglia andare a parare: ma presto ogni cosa è palese: il parassita, allontanandosi alquanto, torna recando la novella che quella fanciulla incinta s’è sconciata da sè, onde ora egli non chiede al Frate, già disposto a servirlo in sì grosso imbroglio, che un servigio assai più lieve, che e’ voglia disporre monna Lucrezia, consenziente messer Nicla lì presente, a voler torre la pozione di mandragola che le sarà data e a voler poscia ricevere nel suo letto il giovinastro che dal marito le verrà condotto in camera.
È ragionevole che Fra Timoteo, il quale era disposto a dar la sua cooperazione per l’infanticidio, si mostri subito presto a darla per quella trama di tanto meno grave, onde egli si fa a persuadere Lucrezia, la quale è condotta in chiesa dalla madre, che era andata a prenderla in casa.
Ogni evento è naturale; le entrate e le uscite dei personaggi son tutte ampiamente giustificate: nulla di stentato e di artificioso: e intanto lo interesse cresce.
La morale fratesca appare in tutto lo splendore delle sue restrizioni mentali, dei suoi subdoli sofismi, delle sue sozze imposture nella bellissima scena 2ª dell’atto III.
F. Tim. Voi siate le ben venute. Io so quello che voi volete intendere da me, perchè Messer Nicia mi ha parlato. Veramente io sono stato in su i libri più di due ore a studiar questo caso; e dopo molte esamino io trovo di molte cose che, in particolare e in generale, fanno per noi.
Luc. Parlate voi davvero o motteggiate?
F. Tim. Ah! madonna Lucrezia, son queste cose da motteggiare? Avetemi voi a conoscere ora?
Luc. Padre no; ma questa mi pare la più strana cosa che mai si udisse.
F. Tim. Madonna, io ve lo credo; ma io non voglio che voi diciate più così. E’ sono molte cose che discosto paiono terribili, insopportabili, strane; e quando tu ti appressi loro, le riescono umane, sopportabili, dimestiche. E però si dice, che sono maggiori gli spaventi che i mali. E questa è una di quelle.
Luc. Dio il voglia.
F. Tim. Io voglio tornare a quello che io diceva prima. Voi avete, quanto alla coscienza, a pigliare questa generalità, che dove è uu ben certo e un male incerto, non si debbe mai lasciare quel bene per paura di quel male. Qui è un bene certo che voi in¬ graviderete, acquistando un’anima a messer Domeneddio. Il male incerto è che colui che giacerà, dopo la pozione, con voi, si muoia; ma e’ si trova anche di quelli che non muoiono. Ma perchè la cosa è dubbia, però è bene che messer Nicia non incorra in quel pericolo. Quanto all’atto, che sia peccato, questa è una favola; perchè la volontà è quella che pecca, non il corpo; e la cagione del peccato è dispiacere al marito, e voi gli compiacete; pigliarne piacere e voi ne avete dispiacere. Oltre di questo il fine si ha a riguardare in tutte le cose. Il fine vostro si è riempiere una sedia in paradiso, contentare il marito vostro. Dice la Bibbia che le figliuole di Lotto, credendosi esser rimaste sole nel mondo, usarono con il padre; e perchè la loro intenzione fu buona, non peccarono.
Luc. Che cosa mi persuadete voi?
Sos. Lasciati persuadere, ia abbandonata da ognuno.
F. Tim. Io vi giuro, madonna, per questo petto sacrato, che tanta coscienza vi è ottemperare, in questo caso al marito vostro, quanto vi è mangiare carne il mercoledì, che è un peccato che se ne va con l’acqua benedetta.
Luc. A che mi conducete voi, padre?
F. Tim. Conducovi a cose, che voi sempre avrete ragione di pregare Dio per me; e più vi satisfarà quest’altro anno, che ora.
Sos. Ella farà ciò che voi vorrete. Io Ja voglio mettere stasera a letto, io. Di che hai tu paura, moccicona? E’ c’è cinquanta donne in questa terra che ne alzerebbero le mani ai cielo.
Luc. Io son contenta; ma non credo mai essere viva domattina.
F. Tim. Non dubitare, figliuola mia, io pregherò Dio por te; io dirò l’orazione dell’angiolo Raffaello, che t’accompagni. Andate in buon’ora, e preparatevi a questo misterio, chè si fa sera.
Sos. Rimanete in pace, padre.
Luc. Dio m’aiuti e la nostra Donna, ch’io non capiti male.
Non era possibile raccogliere, con maggiore maestrevolezza e con più arguto e beffardo umorismo, in una breve scena, tutte le sottigliezze e le pieghevolezze della morale cattolica - e si osservi che non dico cristiana - per le quali, di transazione in transazione, un Frate può trovar modo di santificare l’adulterio.
Stupenda è la vereconda renitenza di Madonna Lucrezia, stupende le insinuazioni della madre di lei e naturali, poiché sappiamo già che, ai suoi tempi, ella è stata buona compagna[11].
Ben a ragione i Gesuiti ebbero sempre in uggia il Machiavelli, come quegli che, prima ancora che essi sorgessero, formidabile ausilio al papato, in società tenebrosa di astutissime distinzioni, di tortuosi raggiramenti, di morale melliflua e arrendevole ad ogni obiettivo, riassumendo in codice ed ordinando a sistema tutti i precedenti andamenti dei vari ordini religiosi, aveva indagato, sviscerato e smascherato tutte le imposture cattoliche.
Così la casta Lucrezia è più vinta che persuasa e si lascerà trascinare all’atto, cui tanto ripugna la sua timida e pura coscienza.
E di dubitare del Frate aveva le sue buone ragioni la onesta donna, giacché un altro Padre, vedendola andare tutte le mattine alla prima messa dei Serviti avendo ella, a consiglio di una sua vicina, fatto voto di udire quaranta mattine di seguito la prima messa, con la speranza di aver figliuoli[12] - le cominciò andare dattorno che la non vi volse più tornare.
Ad ogni modo, giunta a questo punto la trama, l’atto finisce fra le allegrezze di messer Nicia che è il più contento uomo del mondo, giacché il principale ostacolo è superato, e tutto è ormai disposto per il desiderato fine, onde ragionevolmente la canzone canta:
Sì soave è l’inganno |
Al principiar dell’atto IV, fra l’agitazione tanto più crescente di Callimaco quanto più l’ora dell’evento si appressa, giunge Ligurio il quale, da qualche ora, va in cerca del giovane innamorato e non gli è dato trovarlo perchè - come egli acutamente osserva - questi innamorati hanno l’ariento vivo sotto in piedi; e’ non si possono fermare;
Lig. O Callimaco, dove sei tu stato?
Cal. Che novelle?
Lig. Buone.
Cal. Buone in verità?
Lig. Ottime.
Cal. È Lucrezia contenta?
Lig. Sì.
Cal. Il frate fece il bisogao?
Lig. Fece.
Cal. Oh benedetto frate! io pregherò sempre Dio per lui.
Lig. Oh buono! Come se Dio facesse la grazia del male come del bene. Il frate vorrà altro che prieghi.
Cal. Che vorrà?
Lig. Danari.
Cal. Daremgliene. Quanti ne gli hai promessi?
Lig. Trecento ducati.
Cal. Hai fatto bene.
Lig. Il dottore ne ha sborsati venticinque.
Cal. Come?
Lig. Bastiti che gli ha sborsati.
Cal. La madre di Lucrezia che ha fatto?
Lig. Quasi il tutto. Come la intese che la sua figliuola aveva avere questa buona notte senza peccato, la non restò mai di pregare, comandare, confortare la Lucrezia, tanto che la condusse al frate, e quivi operò in modo che l’acconsentì.
Cal. O Dio, per quali miei meriti debbo io avere tanti beni? Io ho a morire per l’allegrezza.
Lig. Che gente è questa? Or per l’allegrezza, or pel dolore costui vuol morire in ogni modo.
Dove la profonda analisi dei più lievi moti del onore di un innamorato è sagace, vera, intima. Quando le notizie buone giungono all’orecchio di Callimaco, tanta è la sua gioia ch’egli ne dubita: Buone in verità? egli domanda: non può credere a sè stesso. Nell’impeto della sua contentezza egoistica, con movimento dell’animo mirabile di verità, egli vuol pregare Iddio pel Frate, egli vuol coprire questo di danari: non cape in sè dal giubilo, vorrebbe tutti felici e domanda per quali suoi meriti Dio lo colmi di tante buone venture e accerta Ligurio che morrà di allegrezza. Come è umanamente, come è eternamente vero tutto ciò! E come giustamente Ligurio pone in rilievo gli spropositi che dicono e le contraddizioni in cui cadono gli innamorati. Così egli nota la bestemmia che Dio faccia le grazie del male come del bene e con questa osservazione egli mette in chiaro la differenza fra la vera morale predicata dal Nazzareno e quella, accomodata a soddisfazione delle più turpi passioni, dalla chiesa cattolica.
Ora la matassa, quasi dipanata, volgerebbe al suo scioglimento, ma sopravviene un incidente, che scaturisce naturalissimo dal nodo stesso dell’azione.
Lig. Hai tu ad ordine la pozione?
Cal. Sì ho.
Lig. Che gli manderai?
Cal. Un bicchiere d’Ippocras, che è a proposito a racconciare lo stomaco, rallegra il cervello. Ahimè, ohimè, io sono spacciato !
Lig. Che è? Che sarà?
Cal. E’ non ci è rimedio!
Lig. Che diavol ha?
Cal. E’ non si è fatto nulla; io mi son misurato in un torno.
Lig. Perchè? Che non lo di’? Levati le mani dal viso.
Cal. 0 non sai tu che io ho detto a messer Nicia che tu, lui, Siro ed io piglieremo uno per metterlo allato alla moglie?
Lig. Che importa?
Cal. Come, che importa? Se io son con voi non potrò essere quello che sia preso; se io non sono e’ si avvedrà dello inganno.
Lig. Tu di’ il vero; ma non c’è egli rimedio?
Cal. Non credo io.
Lig. Sì, sarà bene.
Cal. Quale?
Lig. Io voglio un poco pensarlo.
Cal. Tu m’hai chiarito: io sto fresco se tu l’hai a pensar ora.
Lig. Io l’ho trovato.
Cal. Che cosa?
Lig. Farò che il frate, che ci ha aiutato infino a qui, farà questo resto.
Cal. In che modo?
Liv. Noi abbiamo tutti a travestirci, io farò travestire il frate, e contraffarà la voce, il viso, l’abito; e dirò al dottore che tu sia quello; e sel crederà.
Cal. Piacemi: ma io che farò?
Lig. Fo conto che tu ti metta un pitocchino indosso, e con un liuto in mano te ne venga costì dal canto della sua casa, cantando un canzoncino.
Cal. A viso scoperto?
Lig. Sì: che se tu portassi una maschera e’ gli entrerebbe in sospetto.
Cal. E’ mi conoscerà.
Lig. Non sarà: perchè io voglio che tu ti storca il viso, che tu apra, aguzzi, o digrigni la bocca, chiugga un occhio. Prova un poco.
Cal. Fo io così?
Lig. No.
Cal. Così?
Lig. Non basta.
Cal. A questo modo?
Lig. Sì, sì: tieni a mente cotesto. Io ho un naso in casa, io vo’ che tu te lo appicchi.
Cal. Orbè, che sarà poi?
Lig. Come tu sarai comparso in sul canto, noi sarem quivi: terremti il liuto, piglieremti, aggireremti, condurremti in casa, metteremti a letto; e il resto dovrai tu far da te.
Cal. Questo fatto resta a condursi.
Lig. Qui ti condurrai tu: ma a fare che tu vi possa ritornare, sta a te e non a noi.
Cal. Come?
Lig. Che tu te la guadagni in questa notte, e che innanzi che tu ti parta, te le dia a conoscere, scuoprale lo inganno, mostrile l’amore le porti, dicale il bene le vuoi; e come, senza sua infamia, la può essere tua amica, e con sua grande infamia tua nimica. E impossibile che la non convenga teco, e che la voglia che questa notte sia sola.
Cal. Credi tu cotesto?
Lig. Io ne son certo. Ma non perdiamo più tempo: e’ son già due ore. Chiama Siro, manda la pozione a messer Nicia, e me aspetta in casa. Io andrò per il frate, faremlo travestire, e condurremlo qui, e troveremo il dottore, e faremo quello che manca.
Da questo punto, le scene, sempre animate e piene di movimento, si succedono con larga vena di comicità svolgentisi e incalzantisi: Callimaco ha la febbre dell’ansiosa aspettazione; Siro porta la pozione a messer Nicia, poi, tornando, si acconta con Ligurio e con Fra Timoteo, che si è già trasfigurato. Il Frate, non senza obiezioni e difficoltà, si è indotto a quel passo, perchè, come egli dice in un suo monologo saporitissimo; «Dio sa che io non pensava a ingiuriare persona: sbavami nella mia cella, diceva il mio officio, intratteneva i miei devoti; capitommi innanzi questo diavolo di Ligurio che mi fece intingere il dito in un errore, donde io vi ho messo il braccio e tutta la persona e non so ancora dove io mi abbia a capitare.»
Messer Nicia non è ancora con loro, perchè è trattenuto in casa dalla necessità di persuadere la moglie a ingollare la pozione di mandragola. Ma eccolo che ei viene tutto sudato per la fatica durata a vincere i lezii di quella sua pazza: egli si incontra con gli altri travestiti: piena di forza comica è la scena dell’agguato nella quale Ligurio, il gran mestatore, dispone l’esercito per la giornata. «Al destro corno - egli dice - sia preposto Callimaco, al sinistro io, intra le due corna starà il dottore. Siro fia retroguardo per dare sussidio a quella banda che inclinasse.» Ed ecco si ode un liuto: è un garzonaccio che vien cantando: esso è afferrato, avvoltolato, messo in casa e l’atto finisce con un sapore di verismo attico e gradevolissimo.
L’atto V si apre con un monologo di Fra Timoteo, il quale, d’in su la porta della Chiesa, desideroso di sapere novelle del caso notturno di Callimaco e di monna Lucrezia, fa molte melanconiche riflessioni sullo scaduto culto della madonna. Ma ecco Micia, Siro e Ligurio che traggon fuori Callimaco imbavagliato, il quale fugge a precipizio. Poi Messer Micia narra a Ligurio e a Siro, che non potevan saperlo perchè non erano rimasti in casa i Calfucci, tutto ciò che avvenne. La cosa è naturale: e messer Nicia, informando i suoi complici degli ulteriori avvenimenti, ne informa anche il pubblico.
Nic. Oh io v’ho da dire le belle cose! Mogliema era nel letto al buio. Sostrata m’aspettava al fuoco, i’ giunsi su con questo garzonaccio; e perchè e’ non andasse nulla in capperuceia, io lo menai in una dispensa, che io ho in su la sala, dove era un certo lume annacquato, e gettava un poco d’albore, in modo che non mi poteva vedere in viso.
Lig. Saviamente.Ed è vero, saviamente, perché così mentre il dottore si studiava di non essere veduto, non poteva neppure veder bene Callimaco: che a luce chiara, quantunque contraffatto, e’ lo avrebbe potuto riconoscere. E messer Nicia continua:
Nic. Io lo feci spogliare. E’ nicchiava. Io me gli volsi come un cane, di modo che gli parve mill’anni d’aver fuori i panni, e rimase ignudo. Egli è brutto di viso. Egli aveva un nasaccio, una bocca torta; ma tu non vedesti mai le più belle carni! Bianco, morbido, pastoso; e delle altre cose nonne domandate.
Lig. E’ non è bene ragionare, che bisognava vederlo tutto.
Nic. Tu vuoi il giambo. Poi che aveva messo mano in pasta, io ne volsi toccare il fondo; poi volsi vedere se egli era sano. Se egli avesse avute le bolle, dove mi trovava io? Tu ci metti parole.
Lig. Avete ragione voi.
Nic. Come io ebbi veduto che egli era sano, io me lo tirai dietro, e al buio lo menai in camera. Messilo a letto, e innanzi io mi partissi, volsi toccar con mano come la cosa andava; che io non sono uso ad essermi dato ad intendere lucciole per lanterne.
Lig. Con quanta prudenza avete voi governata questa cosa!Immagina il lettore lo scoppio irresistibile di risa omeriche che debbe accogliere e le maestose e solenni e insieme ridicolissime e bestiali dichiarazioni del dottore - a lui non gliela accoccavano! - e l’ironica laude onde le prosegue quel fraudolento di Ligurio?
Ma messer Moia continua la sua narrazione, la quale è così lepida di comica serietà, che anche ai lettori, che se l’abbiano presentissima, vale la pena di ricordarla.
Nic. Tocco e sentito che io ebbi ogni cosa, mi uscii di camera, e serrai l’uscio, e me ne andai alla suocera, che era al fuoco; e tutta notte abbiamo atteso a ragionare.
Lig. Che ragionamenti sono stati i vostri?
Nic. Della sciocchezza di Lucrezia, e quanto egli era meglio che senza tanti andirivieni, ella avesse ceduto al primo. Dipoi, ragionammo del bambino, che me lo pare tuttavia avere in braccio il naccherino. Tanto che io sentii sonare le tredici ore, e dubitando che non il dì sopraggiungesse, me ne andai in camera. Che direte voi, ch’io non poteva far levare quel rubaldone?
Lig. Credolo.
Nic. E’ gli era piaciuto l’unto. Pure e’ si levò: io vi chiamai, e l’abbiamo condotto fuori.
Lig. La cosa è ita bene.
Nic. Che dirai tu che me n’incresce?
Lig. Di che?
Nic. Di quel povero giovane, ch’egli abbia a morire sì presto, e che questa notte gli abbia a costar sì cara.
Lig. Oh! voi avete i pochi pensieri; lasciatene la cura a lui.
Nic. Tu di’ il vero. Ma mi par ben mill’anni di trovar maestro Callimaco, e rallegrarmi seco.
Lig. E’ sarà fra un’ora fuori. Ma gli è chiaro il giorno: noi ci andremo a spogliare; voi che farete?
Nic. Andronne anche io in casa a mettermi i panni buoni. Farò levare e lavare la donna e farolla venire alla Chiesa a entrare in santo. Io vorrei che voi e Callimaco fuste là, e che noi parlassimo al frate per ringraziarlo, e ristorarlo del bene che ci ha fatto.
Lig. Voi dite bene, così si farà.
Ed io, per me dico, che non si finirebbe mai d’ammirare le grandi bellezze onde tutte riboccano, P una appresso all’altra, queste scene, palpitanti di un realismo artistico davvero e rigorosamente logico ed efficacissimo. E ne noterò alcune, chè troppo lungi dal mio proposito e dalla brevità impostami, mi addurrebbe il rilevarle tutte, ad una ad una.
Siro è presente alla conversazione di Nicia e di Ligurio, ma come a inferiore e a servo si conviene, ascolta, sogghigna, ma non interloquisce, perché non interrogato, nel dialogo.
Il pensiero del naccherino che il balordo messer Nicia si baloccherà fra nove mesi sulle braccia, e proprio nel momento in cui, secondo ogni probabilità, Callimaco e Lucrezia gli mettono insieme il marmocchio, oltre ad essere sommamente ridevole, è anche a proposito ripetuto per rammentare agli ascoltatori come messer Nicia sia mosso ad ogni sua balordaggine, infatuato come egli è di quella mania di avere prole.
Bella, vera, spontanea, è la tenerezza che messer Nicia prova per quel povero garzonaccio il quale giacque con sua moglie, pensando che fra otto giorni, lo sventurato si avrà a morire: e la bellezza - a mio avviso - è duplice; e perchè quel moto di commozione improvvisa prova ancora una volta come, nella mente infervorata del dottore, non sia mai nato neppur l’ombra del sospetto d’essere vittima d’una trama; e perchè dimostra la innata e soverchia bontà di quell’animo mite; nel che precisamente sta il fondamento principale della sciocchezza di questo personaggio.
È naturalissimo che Fra Timoteo, il più compromesso - a cagion del suo abito e del suo ufficio - il più compromesso di tutti, se, durante la notte messer Nicia avesse, per caso, scoperto l’inganno, è naturalissimo ch’egli, allorché sente il tumulto fatto da Ligurio, Nicia e Siro, che caccian fuori di casa, aggirandolo e vituperandolo, Callimaco, si ritragga in disparte, presso l’uscio della Chiesa per udire notizia di ciò che sia avvenuto.
E più naturale ancora che, udite le parole di Mcia e visti allontanarsi tutti coloro, egli esclami:
Quanto cinismo e quanta filosofia in questa frase veramente michelangiolesca!
Ma ecco Callimaco che vien discuoprendo a Ligurio, il quale è andato a cercarlo, com’egli, durante la notte, abbia tutto palesato a Lucrezia e come questa ormai vinta e dall’«astuzia di lui e dalla sciocchezza del marito e dalla semplicità della madre e dalla tristezza del suo confessore, le quali cose l’han condotta a far quello che per se medesima non avrebbe mai fatto,» e persuasa che tutto ciò e’ venga da una celeste disposizione che abbia voluto così lo abbia accettato per «signore, padrone e guida. Tu mio padre - olla gli ha detto - tu mio difensore e tu voglio che sia ogni mio bene; e quello che mio marito ha voluto per una sera, voglio ch’egli abbia per sempre.»
La felicità del giovine è al colmo: Nicia, Lucrezia, Sostrata ne vengono alla Chiesa. Frate Timoteo vien loro incontro, e poco lungi da esso Callimaco e Ligurio; Nicia li vede e dice al Frate che e’ li chiami.
F. Tim. Venite.
Cal. Dio vi salvi.
Nic. Maestro, toccate la mano qui alla donna mia.
Cal. Volentieri.
Nic. Lucrezia, costui è quello che sarà cagione che noi avremo un bastone che sostenga la nostra vecchiezza.
Luc. Io l’ho molto caro; e’ vuolsi che sia nostro compare.
Nic. Or benedetta sia tu! E voglio che egli e Ligurio vengano stamane a desinar con esso noi.
Luc. In ogni modo.
Nic. E vo’ dar loro le chiavi della camera terrena d’in su la loggia, perchè possano tornarsi quivi, a loro comodità, che non hanno donne in casa e stanno come bestie.
Cal. Io l’accetto per usarla quando mi accaggia.
F. Tim. Io ho avere i danari per la limosina.
Nic. Ben sapete come: Domine oggi vi si manderanno.
Lig. Di Siro non è uomo che si ricordi!
Eie. Chiegga, ciò che io ho è suo. Tu, Lucrezia, quanti grossoni hai a dare al frate per entrare in santo?
Luc. Dategliene dieci.
Nic. Affogaggine!
F. Tim. Voi, madonna Sostrata, avete, secondo mi pare, messo un tallo in sul vecchio.
Sos. Chi non sarebbe allegra!
F. Tim. Andiamne tutti in Chiesa, e quivi diremo l’orazione ordinaria; dipoi dopo l’ufficio ne andrete a desinare a vostra posta. Voi, spettatori, non aspettate che noi usciam più di fuori: l’ufficio è lungo; ed io mi rimarrò in chiesa, e loro per l’uscio del fianco se ne andranno a casa. Valete.
Dissi già che i caratteri, tratteggiati tutti con perfezione di linee, con sicurezza di tocco, con verità prodigiosa, con finezza d’arte squisita, mentre han ciascuno la loro logica, naturale e particolare fisonomia, la conservano inalterata, a traverso all’avvicendarsi dei casi e all’urto delle passioni che si agitano nella commedia.
E questi caratteri, studiati intimamente ad uno ad uno, fornirebbero tal ricca mêsse di osservazioni da poterne empire un grosso volume; e l’ammirazione che l’analisi di que’ medesimi caratteri desta nell’animo mio, mi fa sentire più vivamente il dispiacere che io provo perchè costretto ad essere relativamente breve.
Comincerò ad osservare che in pochissime commedie, tanto del teatro antico quanto del moderno, di tutte le nazioni civili, meglio che nella Mandragola è osservata una così equa e sapiente distribuzione dell’azione fra i vari personaggi, onde ugualmente importanti risultano le parti e ogni personaggio riesce indispensabile all’avvolgimento e allo svolgimento dei fatti.
Chi potrebbe dire se sia più importante la parte di Fra Timoteo, o quella di messer Micia, o se sia personaggio più interessante Callimaco o Ligurio?
A che varrebbe la tristizia, a che l’impostura del Frate, il quale, per cupidigia di guadagno, piega le divine scritture all’approvazione e alla soddisfazione delle più turpi passioni, se messer Moia non si struggesse dal desiderio d’aver prole, e se Callimaco non fosse perduto dietro le attrattive di monna Lucrezia? E a che gioverebbero le tre diverse passioni che giacciono, dirò così, immote nell’animo di Padre Timoteo, del dottor Nicia, e di messer Callimaco, se Ligurio non venisse coi suoi scaltrimenti, ad eccitarle, a sommuoverle, a dirigerle tutte tre per modo che mentre, svolgendosi, si addirizzano ad un fine comune, le riescono pur tuttavia a soddisfarsi ciascuna in un generale soddisfacimento? E se non esistesse Sostrata, se non vi fosse Siro, l’azione si svolgerebbe ella con tutta l’agevolezza, con tutta la rapidità, con tutta la spontaneità, con le quali, agendo nella commedia, que’ due personaggi, essa si svolge? Ma tutti questi personaggi quale valore avrebbero e quale potere senza la casta e vereconda figura di madonna Lncrezia de’ Calducci, la quale, benché parli ed agisca meno di tutti, è, pur tuttavia, parte precipua e fondamentale della commedia machiavellica?
Dunque, non soltanto necessari tutti, ma quasi tutti di grande importanza sono i personaggi della Mandragola, nella quale il sapiente autore, prevenendo di quasi tre secoli l’avanzarsi dell’arte comica in Francia e in Italia, ha instituito le categorie di parti che oggi costituiscono uno dei canoni fondamentali per coloro che si dedicano all’arte drammatica, ma delle quali il Machiavelli divinò la necessità, non avendone, a’ suoi tempi, nelle scarsissime commedie originali di allora, nè accenno, nè esempio.
Infatti, se oggi una Compagnia drammatica italiana o francese volesse rappresentare la Mandragola, come se ne distribuirebbero le parti?
Callimaco | primo attor giovine |
Nicia | caratterista |
Ligurio | brillante |
F. Timoteo | generico primario |
Siro | secondo brillante |
Lucrezia | prima attrice |
Sostrata | caratteristica |
Una donna | generica |
E non è già che noi divideremmo così le parti per accomodarci all’odierna costituzione delle Compagnie drammatiche, ma perchè i caratteri della commedia del Machiavelli sono così nettamente delineati che sarebbe assolutamente impossibile una diversa distribuzione.
Callimaco, difatti, è un vero e proprio innamorato; ma forte, vero, naturale, senza gli sdilinquimenti e il manierismo di molti amorosi delle commedie del secolo xvi, e dello stesso amoroso Camillo cui il Machiavelli medesimo ha dato vita - irresoluta, manchevole e convenzionale - nella sua commedia in cinque atti e in versi e senza titolo e di taluni degli stessi amorosi dell’immortale Molière; senza le svenevolezze, le sdolcinature dei Lelii e dei Fiorindi del secolo xvii e xviii. Callimaco è un giovane colto, intelligente, avveduto, vero di carne e di ossa, ma in preda ad una vera e propria passione, di quelle comuni a tutti gli uomini e le quali sono di tutte le nazioni e di tutti i tempi.[13]
Fin dalla scena lª dell’atto I egli svela lo stato dell’animo suo a Siro, e gli dice che egli ha trovato che la fama di madonna Lucrezia, contro quanto suol di solito avvenire, è assai minore del vero, onde egli si è acceso in tanto desiderio di esser seco che egli non trova loco.
L’amore del giovine è così ardente che, non ostante i grandi ostacoli che vi si frappongono, egli si pasce della piu fenile speranza perchè «e’ non è mai cosa al«cuna così disperata, che non vi sia qualche via di poterne, sperare, benché la fosse debole e vana; e la voglia e il desiderio che l’uomo ha di condurre la cosa, non la fa parere così.»
La sua passione calda, sincera, gli erompe dall’animo nel suo colloquio con Ligurio, nella scena 3a dell’atto I.
E, indi a un istante, soggiunge:
Questo linguaggio, pieno di calore e di sentimento, esprime, con grandissima forza ed evidenza, la passione che strugge Callimaco, senza avere in sè neppure una espressione che sia falsa, manierata, convenzionale. E, con questo linguaggio, resta giustificato tutto ciò . che Callimaco fa in seguito, il danaro che ei profonde e a Ligurio e a F. Timoteo, e il pericolo a cui si espone d’averla a fare con la legge e coi magistrati fingendosi medico, e tutti i rischi a cui si mette quando e’ simula di essere un garzonaccio suonator di liuto.
E la forza del vivo sentimento d’amore di Callimaco non è mai smentita, nè si affievolisce mai, durante tutta l’azione.
Cal. Quanto più mi è cresciuta la speranza, tanto più mi è cresciuto il timore. Misero a me! sarà egli mai possibile che io viva in tanti affanni, e perturbato da questi timori e da queste speranze? Io sono una nave vessata da due venti, che tanto più teme quanto ella è più presso al porto. La semplicità di messer Nicia mi fa sperare, la prudenza e la durezza di Lucrezia mi fa temere. Ohimè, che io non trovo requie in alcun luogo! Talvolta io cerco di vincere me stesso: riprendono, di questo mio furore e dico meco: Che fai tu? Se’ tu impazzato? Quando tu l’ottenga che fia? Conoscerai il tuo errore, pentiraiti delle fatiche e dei pensieri che hai avuti. Non sai tu quanto poco bene si trova nelle cose che l’uomo desidera, rispetto a quello che ha presupposto l’uomo trovarvi? Dall’altro canto il peggio che te ne va, è morire, ed andarne in Inferno: e son morti tanti degli altri; e sono in Inferno tanti uomini dabbene. Hatti tu a vergognare d’andarvi tu? Volgi il viso alla sorte: fuggi il male, o non lo potendo fuggire, sopportalo come uomo. Non ti prosternare, non t’invilire come una donna. E così mi fo di buon cuore, ma ci sto poco su; perchè da ogni parte mi assalta tanto desìo di essere una volta con costei, che io mi sento dalle piante dei pie’ al capo tutto alterare: le gambe tremano, le viscere si commuovono, il cuore mi si sbarba dal petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli occhi abbarbagliano, il cervello mi gira. Pure, se io trovassi Ligurio, io avrei con chi sfogarmi, ecc.
Così Callimaco, nel suo monologo con cui si apre l’atto IY.
E quanta efficacia di verità, quale potenza di colorito nella espressione di questa lotta al tempo stesso fisiologica e psicologica che si agita nel cuore e nel cervello di un innamorato!
Insomma durante tutta la commedia desideri, timori, speranze, allegrezze, si alternano mirabilmente nell’animo e sulle labbra di Callimaco fino all’espansione dell’impeto lirico della scena 4ª dell’atto V, in cui narrato a Ligurio ciò che avvenne fra monna Lucrezia e lui, esclama:
Così Callimaco, sempre commosso,sempre agitato dall’unico suo pensiero, dall’unico suo affetto, ora è nell’imo della disperazione, ora all’apice della contentezza; ora sta immobile e non sa dove andare, onde occorre che Ligurio lo spinga ad andarsene dicendogli: è tanto grande Firenze! ora, in preda alla febbre che lo tormenta, corre, corre, sì che Ligurio non può giungere a ritrovarlo; così egli, secondo il costume degli amanti, parla spesso di voler morire, ma, lo ripeto, sempre con verità di linguaggio e senza ombra di manierismo o di esagerazione.[14]
Così sagacemente è misto e misurato in questo carattere l’impeto della passione e la realtà dell’uomo, che io penso essere Callimaco uscito dalla penna dell’autore pittura vera e perfetta!
Che dirò io di messer Nicia? Egli discende in linea retta dal Calandrino del Boccaccio[15], ma, meno semplice e più presuntuoso di lui, ha in sè tutti i segni caratteristici di siffatta genia di uomini, della quale in nessun tempo fu mai penuria. Questo personaggio è tratteggiato con tanto amore e con tanta finitezza, che non soltanto ai contemporanei del Machiavelli piacque immensamente e parve vivo così che fu citato sempre, a quei dì, come prototipo degli sciocchi presuntuosi,[16] ma che, vivo, vegeto, robusto, becco e contento, passeggia ancora, mutati gli abiti e un pochino, in peggio, il linguaggio, tronfio e pettoruto per le vie di Roma, di Firenze, di Napoli, di Milano, e d’ogni grande e piccola città e d’ogni più remota borgata, nonchè di Italia, del mondo.[17]
E non è soltanto felicemente immaginato e studiato il carattere del Dottore, ma è anche continuamente lumeggiato, con garbo umoristico di tocco, che ne rende sempre più veri i contorni.
Prima ancora che messer Nicia venga in scena, Callimaco lo descrive con due tratti al suo servo Siro, quando gli dice quali siano le due cose sulle quali egli fonda le sue speranze: «L’una, la semplicità di messer «Nicia, che, benché sia dottore, egli è il più semplice e il più sciocco uomo di Firenze; l’altra, la voglia che lui e lei hanno di avere un figliuolo,» e Ligurie, nel breve monologo che apre la scena 3ª dell’atto I, dice di lui: «Io non credo che sia nel mondo il più sciocco uomo di costui; e quanto la fortuna lo ha favorito! Lui ricco, lei bella donna, savia, costumata, ed atta a governare un regno.»
Ma, allorché egli vi capita in scena favellando con Ligurio, tutto il ridicolo pomposo del suo carattere viene in luce immediatamente.
Nic. Io credo che e’ tuoi consigli sien buoni, e pariaine iersora con la donna. Disse che mi risponderebbe oggi: ma, a dirti il vero, io non ci vo’ di buone gambe.
Lig. Perchè?
Nic. Perchè io mi spicco mal volentieri da bomba. Dipoi avere a travasare moglie, fante, masserizie, la non mi quadra. Oltre di questo, io parlai iersera a parecchi medici: l’uno dice che io vada a S. Filippo, l’altro alla Porretta, l’altro alla villa, e mi parvero parecchi uccellacei; e, a dirti il vero, questi dottori di medicina non sanno quello che si pescano.
Lig. E’ vi debbe dare briga quel che voi diceste prima, perchè voi non sete uso a perdere la cupola di veduta.
Nic. Tu erri. Quando io era più giovane, io son stato molta randagio, e non si fece mai la fiera a Prato che io non vi andassi; e non ci è castel veruno all’intorno dove io non sia stato; e ti vo’ dire più là; io sono stato a Pisa e a Livoimo: o va’.
Lig. Voi dovete avere veduto la Carrucola di Pisa.
Nic. Tu vuoi dire la Vernacola.
Lig. Ah! sì la Verrucola. A Livorno vedeste voi il mare?
Nic. Ben sai ch’io il vidi.
Lig. Quanto è egli maggior che Arno?
Nic. Che Arno? Egli è per quattro volte, per più di sei, per più di sette, mi farai dire; e non si vede se non acqua, acqua, acqua.
Lig. Io mi meraviglio adunque (avendo voi pisciato in tanta neve) che voi facciate tanta difficultà d’andare al bagno.
Nic. Tu hai la bocca piena di latte, e ti pare a te una favola avere a sgominare tutta la casa. Pure io ho tanta voglia d’aver figliuoli, che io son per fare ogni cosa. Ma parlane un poco tu con questi maestri; vedi dove e’mi consigliassero che io andassi, ecc.
Vedete voi tutto ciò che vi ha di comico in questo baggiano che fa il gradasso e parla in tòno di sufficienza e quasi con arroganza del suo continuo viaggiare che l’ha condotto fino a... Pisa e a Livorno, e che rintuzza la sapienza che vuol mostrar Ligurio con quel burbanzoso e sentenzioso: Tu hai la bocca piena di latte?
Io per me lo vedo, lo sento questo balordo, gonfio dei suoi quattrini e della sua laurea, atteggiarsi a protoquamquam e me lo godo, me lo godo... specialmente quando io l’odo dichiarar solennemente a Ligurio che 11 medico di cui questi gli ha parlato a lui non venderà vesciche, specialmente quando io l’odo a spropositare amenamente nella scena 2ª dell’atto II, allorché egli è a colloquio con Callimaco, da lui creduto maestro di medicina.
Cal. Chi è quello che mi vuole?
Nic. Bona dies, domine magister.
Cal. Et vobis bona, domine doctor.
Lig. (sottovoce a Nicia). Che vi pare?
Nic. (come sopra). Bene alle guagnele.
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Cal. Che buone faccende?
Nic. Che so io? vo cercando due cose che un altro per avventura fuggirebbe; questo è di dar briga a me e ad altri. Io non ho figliuoli e vorreine, e per aver questa briga vengo a dare impaccio a voi.
Cal. A me non fia mai discaro far piacere a voi ed a tutti gli uomini virtuosi e da bene come voi siete; e non mi sono a Parigi affaticato tanti anni per imparare per altro se non per poter servire a’ pari vostri.
Nic. Gran merce; e quando voi avessi bisogno dell’arte mia, io vi servirei volentieri. Ma torniamo ad rem nostram. Avete voi pensato che bagno fosse buono a disporre la donna mia ad impregnare? Ch’io so, che qui Ligurio vi ha detto quello che vi si abbia detto.
Cal. Egli è la verità; ma a volere adempiere il desiderio vostro, è necessario sapere le cagioni della sterilità della donna vostra, perchè le possono essere più cagioni. Nam causae sterilitatis sunt, aut in semine, aut in matrice, aut in instrumentis seminanis, aut in vìrga, aut in causa extrinseca.
Nic. (sottovoce a Ligurio). Costui è il più degno uomo che si possa trovare.
Cal. Potrebbe, oltre di questo, causarsi questa sterilità da voi per impotenzia; e quando questo fusse non ci sarebbe rimedio alcuno.
Nic. Impotente io? Oh voi mi farete ridere! Io non credo che sia il più ferrigno ed il più rubizzo uomo in Firenze di me.
Cal. Se cotesto non è, state di buona voglia, che noi vi troveremo qualche rimedio.
Nic. Sarebbeci egli altro rimedio che bagni? Perchè io non vorrei quel disagio, e la donna uscirebbe di Firenze mal volentieri.
Lig. Sì, sarà, io vo’ rispondere io. Callimaco è tanto rispettivo che è troppo. Non mi avete voi detto di saper ordinare certa pozione che indubitatamente fa ingravidare?
Cal. Sì, ho; ma io vo ritenuto con gli uomini che io non conosco, perchè io non vorrei mi tenessero per un cerretano.
Nic. Non dubitate di me, perchè voi mi avete fatto meravigliare, di qualità che non è cosa che io non credessi o facessi per le vostre mani.
Messer Nicia è proprio stato incantato da maestro Callimaco, come si rileva dalla scena susseguente nella quale egli, parlando con Siro, leva a cielo il padrone di lui. Graziosissima la confessione che egli fa dei nessuni guadagni procacciatigli dalla sua professione; della quale assenza di clienti egli non dà imputazione alla propria ignoranza, ma a difetto dei cittadini, di cui egli dice peste e vituperi poiché - egli esclama, accennando ai fiorentini - «non siamo buoni ad altro che andare a mortori o alle ragunate d’un mogliazzo,[18] o a starci tutto dì in sulla panca del proconsolo a donzellarci;» dei quali cittadini egli soggiunge che, sendo ricco, fortunatamente non ha bisogno. Ma non vuol parlar oltre per tema che lo gravino di qualche balzello, onde «egli avrebbe qualche porro di dietro che lo farebbe «sudare.»
Più comica delle precedenti è la scena 6ª dell’atto II, quando Callimaco, esaminata l’urina di madonna Lucrezia, e ragionatone, con latino ippocratico, onde ser Nicia grida: «O uh potta di S. Puccio! costui mi raffinisce fra le mani: guarda come ragiona bene di queste cose», il finto medico propone di dare alla donna una pozione di mandragola. Callimaco però gli dice che «quell’uomo che avrà a far con la donna, presa che sia questa pozione, muore infra otto giorni, e non lo camperebbe il mondo.»
Nic. Cacasangue! Io non voglio cotesta suzzacchera; a me non l’appliccherai tu. Voi mi avete concio bene.
Cal. State saldo, e’ ci è rimedio.
Nic. Quale?
Cal. Far dormire subito con lei un altro, che tiri (standosi seco una notte) a sè tutta quella infezione della mandragola; dipoi vi giacerete voi senza pericolo.
Nic. Io non vo far cotesto.
Cal. Perchè?
Nic. Perchè io non vo far la mia donna femmina e me becco[19].
Cal. Che dite voi, dottore? Oh, io non vi ho per savio come io credetti. Sicché voi dubitate di fare quello che ha fatto il Re di Francia, e tanti signori quanti son là?
E gli autorevoli esempli vincono, alla fine, gli scrupoli naturali di messer Nicia, scrupoli sapientemente suscitati dall’autore nell’animo del baggeo, acciò e’ non sembri uscire dalla linea del verosimile.
Nè meno graziose e risibili son le scene 4ª, 5ª, 6ª, 7ª e 8ª dell’atto III, nelle quali lo scaltro Ligurio induce il Frate a persuader monna Lucrezia ad acconciarsi a tutto quel tramestìo, intanto che messer Nicia, lì presente, s’ha a finger sordo. E siccome e’ ci sente, quando vede allontanarsi E. Timoteo e Ligurio, il quale va a mettere a parte quello del tranello che si ordisce a messer Nicia, questi, rimasto solo, esce in quel bellissimo monologo, che lumeggia sempre più la umana, benché burlevole, fìsonomia del dottore.
Ma i due si son posti d’accordo alle spalle di Messer Nicia: F. Timoteo è disposto a fare ogni cosa onde 11 dottore si ricrea tutto quanto e domanda se il figliuolo sarà maschio e avutone affermazione egli esclama: Io lagrimo per la tenerezza.
Immensamente comico è l’altro monologo della scena 8ª dell’atto IV, nel quale il messere si lamenta degli scrupoli - che egli chiama lezii - della moglie. Egli vorrebbe veder le donne schizzinose, ma non tanto. E il pubblico, che sa come messer Nicia si affanni a quel modo a proprio danno, non può non ridere della schernevole situazione di lui che si arrovella contro la moglie, la quale intende a non farlo becco, mentre egli ad altro non tende che a divenirlo.
E la comicità continua a splendere tanto nella situazione, quanto nel carattere di Nicia e nella successiva scena 9ª dell’atto IV e nella 2ª dell’atto V, nella quale il dottore racconta come si passò l’evento e come egli volesse toccare e sentire, e come mettesse in letto con la moglie ramante, e come serrasse con precauzione l’uscio e come stesse su tutta la notte a ragionar con la suocera accanto al fuoco, perchè egli - continuando nella sua boria di uomo avveduto e che la sa lunga - procaccia con ogni mezzo di persuadere il pubblico che e’ non è uso ad essergli dato ad intendere lucciole per lanterne; il che - sapendosi dal pubblico ciò che è avvenuto e come stanno le cose costituisce il più alto grado di comicità possibile.
In fine, a voler riepilogare, dirò che intorno a questa bellissima figura umana tratteggiata dal Machiavelli non ci sono parole bastanti per lodarla a dovere. Messer Nicia, che non pronunzia motto, non muove passo, non fa atto che non sia, in effetto, diretto ai proprii danni, mentre egli, in apparenza, mosso dalla sua fatuità e dalla manìa di aver figliuoli, crede fermamente di non tendere che al proprio utile, è una delle più comiche creazioni del teatro moderno[20]. La continua contraddizione che circonda questo personaggio, il quale crede di accoccarla a tutti, mentre tutti l’accoccano a lui, che ha l’aria di dire continuamente al pubblico «vedete il furbo che io mi sono e come mi beffo di tutti costoro e li volgo a mia posta, mentre, in realtà, il beffato, il menato pel naso e lui solo, è addirittura il sublime del ridicolo; e merita il nome di sommo artista lo scrittore che lia saputo immaginare e svolgere, tanto felicemente, lungo tutta la sua commedia, un così fatto carattere.»
In mezzo alla società corrotta che il Machiavelli ci ha quasi fotografata nella sua Mandragola, grandeggiano, in modo ammirevole, i due personaggi più corrotti e più pervertiti e che meglio rappresentano il lato debole ed infermo dell’epoca, i due impostori, i due imbroglioni, il frate e il parassito; i due corrotti e che alla lor volta son corruttori, l’uno vipera che si annida nelle deboli coscienze, l’altro biscia che serpeggia nell’interno delle famiglie; l’uno e l’altro elementi principali della corruttela, dei vizi, delle turpezze de’ tempi.
E qui, veramente, a chi attentamente legga e bene consideri la Mandragola, non può sfuggire tutta l’acutezza, tutta la sapienza del Machiavelli, non soltanto riguardato come artista, ma anche come pensatore e filosofo.
Nel quadro che egli presenta agli spettatori dei suoi tempi e ai lettori venturi, l’immortale autore del Principe, non fa soltanto uno stupendo studio dal vero, ma pone in luce, con l’azione, le cause che danno origine alle tinte fosche, all’aere malsano, alle brutture morali onde quel quadro è l’effigie vivente.
Messer Nicia è uno sciocco, come ve ne furono, ve sono e ve ne saranno sempre tanti, ma è un uomo onesto; Lucrezia è una donna debole, dolce, dominata dagli scrupoli religiosi, ma è assolutamente una donna pudibonda, una donna pura, una donna onesta; Callimaco è giovane, in preda alla foga di passione, ma è giovane dabbene ed un’ardente onesto; eppure tutta questa gente onesta ha un tarlo in fondo alla coscienza: ed è appunto la debolezza di questa coscienza; la mancanza di profondo sentimento, l’assenza di alti ideali, lo scetticismo più o meno sviluppato, il desiderio del benessere materiale a qualunque costo, l’aspirazione all’agiatezza, ai piaceri, alla dei proprii appetiti, ecco ciò che soddisfazione costituisce la debolezza della coscienza di quella gente.
E questa debolezza genera l’attitudine alla transazione, e una volta che si è cominciato a transigere, di grado in grado, si scende fino all’abbiezione, fino al delitto; perchè tutto l’intrigo della commedia è roba da processo, è roba da otto - come più volte osservano i personaggi stessi - perchè messer Moia, il quale crede, in buona fede, che il giovane, giaciutosi con sua moglie, morrà fra otto dì, si è spinto, acconsentendo a questo fatto, sino al delitto; perchè il frate, il quale si dichiara pronto a tener mano all’infanticidio, si è spinto fino al delitto.
Quella gente era, in fondo, onesta; ma è bastato che due furbi, due raggiratori che, sotto la larva dell’onestà, non han più nessuna nozione esatta del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, del diritto e del dovere, è bastato che quei due furbi siansi insinuati nelle coscienze di quella gente onesta, siansi avveduti delle passioni di essa, abbiano fatto vibrare la corda di quelle passioni, perchè, leggermente, quasi senza accorgersene, tutta quella gente onesta sia scesa, sia scesa.... fin dove l’abbiam vista discendere.[21]
E Lucrezia, che non ha passioni, che non ha appetiti da soddisfare, Lucrezia, l’unica persona veramente sana, veramente onesta della commedia, lotta accanitamente, spinta dal sentimento puro della sua pura coscienza, contro le insidie che le si tendono da ogni parte, ma è alla fine travolta e vinta; e, visto che tutti, a incominciare da suo marito e da sua madre, si sono adoperati e sforzati a far di lei un’adultera e, visto che, in mezzo a quella società non vale la pena serbarsi onesti, si rassegna ad esser donna del di suo tempo e finisce per adagiarsi nelle voluttà dell’adulterio.
Ora, questa mancanza di virilità di carattere, questa assenza di sentimento profondo e di altezza di ideali, che il Machiavelli lamenta in tanti luoghi dei suoi scritti politici e che qui, nella commedia, riepiloga e pone in mostra, avvolta nelle più splendide forme dell’arte, e celata sotto un sublime comico riso, che è però
. . . . un riso che non passa alla midolla
onde l’autore, probabilmente
. . . . si sente simile al saltimbanco Trattien la folla |
questa mancanza di carattere e di coscienza è la causa prima della fiacchezza morale del popolo italiano nel cinquecento, d’onde scaturirà ben presto la servitù politica.
Sotto l’aspetto politico e morale, adunque, Fra Timoteo e Ligurio rappresentano la corruttela dei costumi nella religione e nella famiglia, il falso amico di casa e il falso ministro di Dio, due delle piaghe più sanguinanti di quell’epoca di decadenza e a causa delle quali si spiega la furiosa reazione promossa, pochi anni prima, da Fra Gerolamo Savonarola.
Del rimanente, osservate nella loro essenza artistica, le due persone di Ligurio e di Fra Timoteo sono sovranamente belle e perfette.
Fra Timoteo è lavorato mirabilmente al rilievo, è di una scultura fine, viva, parlante: è la più completa e la più antica personificazione dell’ipocrisia, dopo quella meravigliosa, più come descrizione che come azione, fattane dal divino Alighieri
La faccia sua era faccia d’uom giusto, |
Un secolo e mezzo prima che l’immortale Molière avesse creato Tartufo, il Machiavelli aveva creato Fra Timoteo e un secolo e mezzo prima che Tartufo avesse detto:
Je vous puis dissiper ces craintes ridicules,
Madame; et je sais l'art de lever les scrupules.
Le ciel défend, de vrai, certains contentements;
Mais on trouve avec lui des accomodements.
Selon divers besoins, il est une science
D’étendre les liens de notre conscience,
Et de retifier le mal de l' action
Avec la pureté de notre intention.
Già Fra Timoteo aveva detto ciò che di sopra fu riferito e che qui giova ripetere per porlo a immediato confronto con le parole dell’ipocrita francese: «Voi avete, quanto alla coscienza, a pigliare questa generalità, che dove è un ben certo e un male incerto, non si debba mai lasciare quel bene per paura di quel male. Qui è un bene certo, che voi ingraviderete, acquistando un’anima a messer Domeneddio. Il male incerto è che colui che giacerà, dopo la pozione, con voi si muoia; ma e’ si trova anche di quelli che non muoiono. Ma perchè la cosa è dubbia, però è bene che messer Nicia non incorra in quel pericolo. Quanto all’atto che sia peccato, questo è favola; perchè la volontà è quella che pecca, non il corpo; e la cagione del peccato è dispiacere al marito, e voi gli compiacete; pigliarne piacere, e voi ne avete dispiacere. Oltre di questo, il fine si ha a riguardare in tutte le cose. Il fine vostro si è riempiere una sedia in paradiso, contentare il marito vostro. Dice la Bibbia, che le figliuole di Lotto, credendosi essere rimaste sole nel mondo, usarono col padre; e perchè la loro intenzione fu buona, non peccarono.»
E come, un secolo e mezzo dopo il Machiavelli, la Elmira della commedia francese oppone alle restrizioni mentali e alle sottigliezze casuistiche di Tartufo l’interpretazione vera e legittima della morale evangelica, così, un secolo e mezzo prima del Molière, la Lucrezia della commedia italiana contrapponeva alle restrizioni mentali e alle sottigliezze casuistiche di Timoteo, le pure e semplici interpretazioni che alla vera morale evangelica dava la sua onesta coscienza.[22]
I tratti, che io ho riportato lungo questo studio della parte di Fra Timoteo, bastano a mostrarlo quale egli ci si presenta, fin dalla prima e quale e’ si mantiene fino all’ultima scena, cupido di danaro, fraudolento e impostore, intento sempre a piegare e a sottoporre la morale cristiana ai bisogni e agli appetiti di coloro die pagano la complicità di lui. - Ma tutto il comico di questo carattere a me sembra ammirevolmente diffuso nel monologo con cui Fra Timoteo apre l’atto v.
Si può immaginare qualche cosa di più lepido e di più ameno di questo frate impostore e senza pudore, il quale, dopo aver mostrato al pubblico di quali nefandezze egli, e con lui quasi tutti i frati de’ suoi tempi, sieno capaci, si arrovella perché le immagini delle madonne non sono tenute pulite, non han veli nuovi, non han lampade accese? Seguace fedele di una religione, che già comincia precipuamente a basarsi sulle pratiche esteriori, sulle apparenze fastose del culto anziché sulla morale vera e sullo spirito della parola evangelica, Fra Timoteo, ingannando se stesso, finge di credere che non le scelleratezze e le turpitudini dei ministri di Dio affievoliscano il sentimento della fede negli animi delle genti, ma sibbene la mancanza di lampade, di veli e di preci clamorose innanzi alle immagini delle madonne! Mirabile cinismo pel quale il confessore, che tien mano agli adulterii e agli infanticidii, non a queste nefandezze sue e degli altri suoi confratelli dà colpa della freddezza dei devoti, ma ai meschini nonnulla degli apparati esterni del culto religioso! Insomma, Fra Timoteo è la più sublime personificazione e la più comica dell’impostura. Tutta la teorica dei sottintesi, delle restrizioni mentali, della intenzionalità finale egli la svolge, con le azioni e con le parole, nel più ampio svolgimento ond’essa è capace; con quella teorica egli trova modo di ingannare - con la coscienza dell’inganno - i suoi penitenti, messer Domeneddio e perfino sè stesso!
Ne meno avvenente di artistica leggiadria è il callido Ligurio. Non uno dei soliti parassiti della commedia plautina, soverchiamente esagerati nelle tinte e, più che ritratti, caricature di ritratti, non uno dei parassiti, servili imitazioni dei latini, onde abbondano le commedie del cinquecento e seicento, è Ligurio, ma un uomo di maneggio, come venezianamente direbbe il Goldoni, un arruffone, un imbroglione, desideroso di trar quattrini e lautezze di vivere, dai ruffianesimi e dai lenocinli. a cui si presta per amore del ventre, per amore dei proprii comodi e del proprio benessere.
Egli è uomo al tutto moderno; è piacevole, affabile, industre, immaginoso; ricco di astuzie, di sotterfugi, di ripieghi; ma in quella sua stessa abbiezione di fare il mezzano a servizio di Callimaco, c’è una così grande disinvoltura che si potrebbe quasi dire riserbo dignitoso e rispetto del proprio decoro; ciò che non soltanto rende gradevole e briosa la sua figura, ma fa meno antipatico il personaggio e lo palesa al pubblico nelle sue sembianze vere ed umane.[23]
Già queste sue sembianze ci son mostre fin dalla prima scena dell’atto i allorché Callimaco, parlando a Siro, favella di Ligurio.
Cal. Tu conosci Ligurio, che viene continuamente a mangiar meco. Costui fu già sensale di matrimonii; dipoi s’è dato a mendicar cene e desinari: e perchè egli è piacevol uomo, messer Nicia tien con lui una stretta dimestichezza, e Ligurio l’uccella, e benché noi meni a mangiar seco, gli presta alle volte danari. Io me lo son fatto amico, e gli ho comunicato il mio amore; lui mi ha promesso di aiutarmi con le mani e co’ piè.
Siro. Guardate che e’ non vi inganni: questi pappatori non sogliono aver molta fede.
E, non ostante questa presentazione tutt’altro che lusinghiera per Ligurio, egli ci appare briccone nel fondo, ma, nelle esteriorità, allegro, motteggiatore, e quello che oggi dicesi brillante; e di tanto meno odioso in quanto che del suo interesse in tutta l’azione, egli, con grandissima verità, non favella mai; sì nè favellano gli altri quanto basta a far comprendere allo spettatore che la molla dell’interesse suo personale fa agire Ligurio, ma egli noi dice; e dissi con grandissima verità perchè non v’ha, in natura, furfante, per furfante che e’ sia, che ami andare in piazza a dire: guardate il bel furfante ch’io mi sono!
Ligurio, del resto, è audace, destro, infaticabile: egli è sempre in azione e sempre sul trovar ripieghi agli inconvenienti, in cui nello svolgere la sua matassa e’ si incontra: nel suo linguaggio è sempre corretto e riguardoso e, nel ’tempo medesimo, festoso e giocondo: nel servire, con mirabile astuzia ai desiderii di Callimaco da una parte e a quelli di messer Nicia dall’altra, egli adopra uno zelo che si potrebbe quasi chiamare coscienza: insomma, se mi si concede una apparente contraddizione, Ligurio è e ci tiene ad esser creduto onesto nella sua furfanteria, un galantuomo fra i birbanti.
Il che - secondo il mio modesto parere - è il più alto culmine cui possa riuscire l’arte.
Ma dove la squisitezza dell’arte del Machiavelli più luminosamente si manifesta è nella pittura di madonna Lucrezia. Si direbbe che Giorgione, Leonardo, Raffaello abbiano al Machiavelli prestato la parte migliore della loro tavolozza e del loro disegno perchè egli ne traesse fuori quella figura casta, pura, dolcissima di donna del cinquecento, più somigliante alle madonne, ormai umanizzate, le quali a quei dì i nostri grandi artisti creavano, di quello che a creatura terrena; tanta è la pudicizia che emana dal volto e dagli atteggiamenti di monna Lucrezia, tanta è la soavità dei contorni e delle tinte che incarnano la bella persona di lei.[24]
Lucrezia comparisce, per la prima volta, ad azione assai inoltrata e cioè alla scena 10ª dell’atto iii e nondimeno, quando essa ci si presenta, noi già la conosciamo; la sua fisonomia ci è cognita, ci sono noti i suoi onesti costumi, sappiamo che essa è bella e, ciò che più monta, sappiamo che essa è buona come un angelo. Tutti i personaggi ci hanno parlato di lei.
Callimaco ha già detto: in prima mi fa guerra la natura di lei, che è onestissima, e al tutto aliena dalle cose d’amore.
E Ligurio ha soggiunto che messer Nicia ha bella donna, savia, costumata, atta a governare un regno.
E messer Moia ha rincarato la dose allorché egli, tornando con l’orinale, racconta quanta fatica ha dovuto durare a procacciarsi dalla verecondia di Lucrezia il seguo che e’ desiderava.
Nic. Io ho fatto d’ogni cosa a tuo modo; di questo vo’ io che tu faccia a mio. Se io credevo non aver figliuoli, io avrei preso piuttosto per moglie una contadina che.... Se’ costì, Siro? Vienmi dietro. Quanta fatica ho io durata a fare, che questa mia monna sciocca mi dia questo segno, e non è dire che ella non abbia caro di far figliuoli, che ella ne ha più pensiero di me; ma come io le vo’ far fare nulla, egli è una storia.
E quando Callimaco, esaminate le urine ne deduce che costei non sia la notte coperta, messer Nicia risponde, dandoci un altro particolare intorno a Lucrezia, che accresce la grazia e la soavità della sua fìsonomia:
Nic. Ella tien pure addosso un buon coltrone; ma la sta quattro ore ginocchioni a infilzar paternostri innanzi che la se ne venga in letto, ed ò una bestia a patir freddo.
Così noi apprendiamo che Lucrezia è pur anco sinceramente credente e dotata di quel cieco, ignorante, ma fervido sentimento religioso che hanno, quando le sono oneste e costumate, le donnicciuole.
Ma ciò non basta: altri tratti mancano a compire la pittura della donna di messer Nicia, il quale, in confidenza, a Ligurio aggiunge queste opportune pennellate al ritratto della moglie.
Nic. Tu ti meravigli forse, Ligurio, che bisogni far tante storie a disporre mogliema; ma se tu sapessi ogni cosa, tu non te ne meraviglieresti.
Lig. Io credo che sia, perchè tutte le donne sono sospettose.
Nic. Non è cotesto. Ell’era la più dolce persona del mondo, e la più facile; ma sendole detto da una sua vicina, che se ella si botava di udire quaranta mattine la prima messa de’ Servi, che la impregnerebbe, la si botò, e andovvi forse venti mattine. Ben sapete che uno di que’ fratacchioni le cominciò andare dattorno, in modo che non la vi volse più tornare. Egli è pur male però che quelli che ci avrebbero a dare buoni esempi sian fatti così: non dich’io il vero?
Lig. Come? Diavolo, s’egli è vero!
Nic. Da quel tempo in qua ella sta in orecchi come la lepre; e come se le dice nulla, ella vi fa dentro mille difficultà.
Lig. Io non mi meraviglio più; ma quel boto come si adempiè?
Nic. Fecesi dispensare.
E Fra Timoteo stesso, questo frate senza ombra di coscienza, ha egli pure in grande concetto di onestà Lucrezia, anzi teme di non riuscire nell’assunto propostosi perchè madonna Lucrezia è savia e buona. Ma egli dice che la giungerà in sulla bontà poiché tutte le donne hanno poco cervello.
Noi, quindi, allorché la donna apparisce sulla scena, sappiamo ohe essa ha ragione di dubitare de’ frati, noi sappiamo che ella ha resistito alle seduzioni di uno di questi, noi sappiamo che essa è da tutti decantata non soltanto per bella, ma per pia, per pura e costumata.
Ma eccola che essa viene: la madre la va persuadendo, ma ella, mossa dal suo istinto pudibondo e dalla sua onesta coscienza, non sa indursi alla bestialità che tutti la vogliono trascinare a commettere.
Sos. Io credo che tu creda, figliuola mia, che io stimi l’onor tuo quanto persona del mondo, e che io non ti consigliassi di cosa che non stesse bene. Io. ti ho detto, e ridicoti, che se fra Timoteo ti dice che non ci sia carico di coscienza, che tu lo faccia senza pensarvi.
Luc. Io ho sempre mai dubitato che la voglia che messer Nicia ha d’aver figliuoli non ci faccia fare qualche errore; e per questo sempre che lui mi ha parlato d’alcuna cosa, io ne sono stata in gelosia e sospesa, massime poi che m’intervenne quello che voi sapete per andare ai Servi. Ma di tutte le cose che si sono tentate, questa mi pare la più strana, di avere a sottomettere il corpo mio a questo vituperio, ed esser cagione che un uomo muoia per vituperarmi; che io non crederei, se io fossi sola rimasa nel mondo, e da me avesse a risurgere l’umana natura, che mi fusse simile partito concesso.
Sos. Io non ti so dir tante cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà, e farai quello che tu dipoi sarai consigliata da lui, da noi, da chi ti vuol bene.
Luc. Io sudo per la passione.
La rigida logica di un’onesta coscienza non poteva usare parole più persuasive, argomenti più saldi di quel che faccia qui la cara Lucrezia, al cui volto leggiadro e simpatico, il Machiavelli aggiunge una soave tinta di erubescenza con quella sublime pennellata «io sudo per la passione.»
Ed ecco il reo frate a valersi di tutta la sua spirituale autorità, di tutti i sofismi del suo perverso intelletto per persuadere al vituperio la casta donna, la quale, con la scorta del semplice buon senso e del naturale pudore, si dibatte sotto le morse degli ipocriti e scellerati consigli.
Essa principia per domandare al suo confessore «Par«late voi da senno o motteggiate?» e poiché quegli si sdegna quasi e le chiede se ella lo tenga per uomo da motteggiare, la poveretta risponde: «Padre no, ma, questa mi pare la più strana cosa che mai si udisse.» E? alla falsa e sottile logica del Frate, quando egli le ha citato l’esempio delle figlie di Lotto, madonna Lucrezia, tutta pensosa, triste ed angustiata, domanda ancora quasi stupefatta «Che cosa mi persuadete voi?» E poiché l’altro le giura pel suo sacrato petto che in ciò che le consiglia non v’è che un peccato veniale che se ne va con l’acqua benedetta, la donna ancora perplessa, quasi vinta, ma meno che mai persuasa, ridomanda «A che mi conducete voi, padre?...»
Vinta alla fine, si sottomette più che non aderisca, ma un resto di pudore le fa esclamare «Io son contenta; ma non credo mai esser viva domattina.» E quando, alla fine, se ne va, la vezzosa e ancora incontaminata donna getta l’ultimo grido che esprime gli scrupoli, i timori, i dubbii della sua, limpida già, ora così turbata coscienza: «Dio m’aiuti e la nostra donna che io non capiti male!»
E poi, dalla bocca sproloquiatrice di messer Nicia noi sappiamo, dal monologo di questo nella scena 8ª dell’atto IV, tutte le difficoltà dalla schiva donna opposte ancora, allorché si trattava di porsi in letto «ma io non la laudo già, che innanzi che la sia voluta ire a letto, ella abbia fatto tante schifiltà. Io non voglio... Come farò io?.. Che mi fate voi fare?.. Ohimè! mamma mia!...»
E vedete arte somma del grande scrittore! Questa dolce e serena figura, la quale dello splendore che emana dalla sua virtù, illumina le tenebre della scena e che spande un profumo tenue e delicato, in mezzo all’ammorbante atmosfera della commedia; questa soave e serena figura, dalla quale, come da centro, si irradiano alla circonferenza tutte le fila della trama e attorno alla quale tutta l’azione si annoda e si riconcentra, comparisce due sole volte in tutta la commedia.
Eppure essa è sempre presente; il suo alito si diffonde ognora per la scena e la anima e la avviva! E tanto più cara sembra riuscirci la sua avvenente e adorna persona quanto più la sentiamo e meno la vediamo.
Ma è in questo carattere appunto che meglio risplende la sottilissima sagacia, il profondo genio del Machiavelli nell’analisi del cuore umano.
Voi avete veduto la monna Lucrezia, scintillante di purezza e di bontà, suffusa da una leggiera e vaga tinta di debolezza e di rassegnazione; ora vedrete la trasformazione che l’adulterio, a cui fu forzata, ha operato, ad un tratto, in lei. Essa ha dovuto giacersi con uno sconosciuto del quale, forse, non avrebbe preso piacere; ma, all’udire la storia di quell’inganno, e l’affetto ardentissimo nutrito per lei, da lungo tempo, da Callimaco e pensando alla bestialità del marito suo e sentendosi stretta al petto dal giovane che, palpitante di tenerezza, coi baci infuocati e con i fluidi invadenti che emanano da tutti i pori della sua persona, le rivela tutte le dolcezze inebrianti di un amore, ben differente da quello glaciale e abitudinario del grossolano e ormai invecchiato marito, ella si abbandona completamente a quelle delizie inusitate.[25] Ma anche in questo abbandono vi sono gli ultimi barlumi della verecondia, della castità che stanno per far luogo, nell’animo della donna, alla simulazione e alla frode; e l’arte dell’immortale autore, anche qui, si è rivelata in tutta la sua potenza. Ecco le parole che Callimaco riferisce avergli detto Lucrezia «Poiché l’astuzia tua, la sciocchezza del mio marito, la semplicità di mia madre, e la tristizia del mio confessore m’hanno condotta a far quello che mai per me medesima avrei fatto, io voglio giudicare che e’ venga da una celeste disposizione che abbia voluto così, e non sono sufficiente a ricusare quello che il cielo vuole che io accetti. Però ti prendo per signore, padrone e guida. Tu mio padre, tu mio difensore, e tu voglio che sia ogni mio bene; e quello che il mio marito ha voluto per una sera, voglio che egli abbia sempre. Faraiti adunque suo compare, e verrai questa mattina alla chiesa, e di quivi ne verrai a desinare con esso noi, e l’andare e lo stare starà a te, e potremo ad ogni ora e senza sospetto convenire insieme.»
La morale delle transazioni e della intenzionalità predicata dal P. Timoteo produce i suoi effetti; poiché fu applicata ai danni di Lucrezia, ora essa l’applica a proprio comodo. Ora la donna, seguendo l’esempio ricevuto dal ministro di Dio, vuol vedere - perchè così le torna utile e piacevole - un volere del cielo nella trama ordita dall’amore di Callimaco, dall’astuzia di Ligurio, dall’asinità di messer Nicia, dalla perversità di Fra Timoteo: la donnicciuola vuol godersi l’amante e vuol essere in regola con gli scrupoli della coscienza, vuol esser adultera, ma col consenso di Domeneddio; onde, siccome non si muove foglia die Dio non voglia, così, essendo evidente che, in tutta quella trama, il dito di Dio ci è entrato ed è stato quello anzi die l’ha fatta riuscire, Lucrezia non si opporrà alla volontà di Dio e si rassegnerà all’amore adultero cui è stata trascinata; tanto più che, come acutamente osservò Ligurio a Callimaco nella scena 2ª dell’atto XV, ad acconsentire all’amore del giovine ella, dopo il fatto che questi era entrato nel suo letto, schiverebbe l’infamia e ad ostinarglisi nemica, correva rischio di essere da lui, che, in fine, l’aveva goduta, infamata. Tanto sapientemente - lo si noti un’altra volta - è intrecciata la rete di tutta l’azione comica della Mandragola.
E le conseguenze di queste transazioni si notano subito, nel riapparire di Lucrezia alla scena 5ª dell’atto V. Una trasformazione si è già operata nell’animo della donna e la sapienza scrutatrice del Machiavelli l’ha stupendamente rivelata. La donna umile, rimessa, quasi timida, comincia già a divenire alquanto audace, alquanto riottosa, alquanto oltracotante; si direbbe quasi che, perdendo il pudore, essa abbia mossi i primi passi sulla via della sfrontatezza. La cosa e così naturale, così vera che prova - lo ripeto - la finezza di osservazione del segretario fiorentino. Ecco il dialogo fra Lucrezia, messer Nicia e Sostrata:
Nic. Lucrezia, io credo che sia bene fare le cose con timor di Dio, e non alla pazzaresca.
Luc. Che s’ha egli a fare ora?
Nic. Guarda come ella risponde! La pare un gallo.
Sos. Non vi maravigliate, ella è un poco alterata.
Luc. Che volete voi dire?
Nic. Dico che egli è bene che io vada innanzi a parlare al frate, e dirgli che ti si faccia incontro in su l’uscio della Chiesa per menarti in santo; perchè gli è proprio stamane come se tu rinascessi.
Luc. Che non andate?
Nic. Tu se’ stamane molto ardita! Ella pareva iersera mezza morta.
Luc. Gli è la grazia vostra!
Nella quale ultima frase sono espressi perfettamente i sentimenti di rancore, di nausea, di sprezzo che il marito suscita ormai nel cuore di Lucrezia, sentimenti naturali in lei, dopo tutto ciò che è avvenuto.
E questa donna, ieri cosi massaia, oggi, anche in ciò ragionevolmente trasformata, allorché il marito gli domanda quanti grossoni s’abbiano a dare al frate per entrare in santo, risponde: Dategliene dieci; onde il marito, stupefatto di tanta splendidezza, egli che si è mostrato, in tutta la commedia, anche nei momenti in cui è sforzato alla prodigalità, alquanto ritenuto nello spendere, esclama: affogaggìne!
E anche qui, come sempre in tutta la Mandragola, splende il vero: perchè, sotto quei dieci grossoni che la donna regala al frate, si nasconde il perdono, il quale ella gli accorda del tiro fattole, in rimunerazione delle dolcezze che da quel tiro le son venute e le verranno in avvenire.
Sostrata e Siro non sono meno veri degli altri personaggi della commedia.
Sostrata, un po’ credulona, un po’ smaniosa d’avere nepotini da trastullarsi sulle ginocchia e un po’ per essere stata già donna allegra, amante delle brigate e buona compagna, tien mano alla trama per la quale le si accerta che la figliuola ingraviderà.
Ella, come a vecchia naturalmente si addice, ha un po’ l’aria di porgere consigli a lei suggeriti dall’esperienza e che han tutta l’intonazione di proprii e veri aforismi.
Io ho sempre mai sentito dire ch’egli è officio d’uomo prudente pigliare de’ cattivi partiti il migliore.
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Lasciati persuadere, figliuola mia, non vedi tu che una donna che non ha figliuoli, non ha casa? Muorsi il marito, resta come una bestia, abbandonata da ognuno.
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Ella farà ciò che voi vorrete. Io la voglio mettere stasera a letto io. Di che hai tu paura, moccicona? E c’è cinquanta donne in questa terra che ne alzerebbero le mani al cielo.
E qui, in quest’ultime parole, fa capolino un altro aspetto del carattere di Sostrata, la buona compagna, della quale già Ligurio ci ha detto che come intese che la sua figliuola aveva avere questa buona notte senza peccato, la non restò mai di pregare, comandare, confortare la Lucrezia, tanto che la condusse al frate, ecc.; buona compagna che, memore delle dolcezze procuratele dagli strappi da lei fatti ai doveri matrimoniali e incapace oramai, per la tarda età, di più poterne fruire, si inebria del piacere che proverà la sua figliuola in quella notturna avventura. Si direbbe che qui monna Sostrata è complice per reminiscenza, come lo prova del resto, il motto del frate, sul finire della commedia: Voi, madonna Sostrata, avete secondo mi pare, messo un tallo sul vecchio; al che ella risponde: Chi non sarebbe allegra?
Quanto a Siro, egli non è uno dei soliti servi sciocchi, o uno dei soliti servi furbi e ladri, imbroglioni, così comuni in quasi tutte le commedie del cinquecento e del seicento e che derivano, in linea retta, dalla commedia latina. E di ciò va data, parmi, gran lode al Machiavelli.
Siro è un servo come ve ne sono tanti: accorto, fedele al suo padrone, obbediente, sobrio di parole, spedito nell’azione. È riflessivo perchè ha ingegno e perciò parla poco. Egli ha un solo monologo, il quale dimostra che egli possiede alcune delle qualità di sopra espresse.
Siro. Se gli altri dottori fossero fatti come costui, noi faremmo a’ sassi pe’ forni. Che sì, che questo tristo di Ligurio, e questo impazzato di questo mio padrone, lo conducono in qualche luogo che gli faranno vergogna? E veramente io lo desidererei, quando io credessi che non si risapesse; perchè, risapendosi, io porto pericolo della vita, il padrone della vita e della roba. Egli è già diventato medico; non so che disegno fia il loro e dove si tenda questo loro inganno. Ma ecco il dottore che ha un orinale in mano. Chi non riderebbe di questo uccellaccio?
C’è un momento in cui la sua avvedutezza prevale su quella sua abitudine, lodevolissima in un servo, di parlar brevissimo, ed è quando, nella scena 5ª dell’atto IV, e’ s’incontra con Fra Timoteo, travestito e che deve, agli occhi di messer Nicia, figurare per Callimaco. Siro, o che siasi insospettito che sotto quelle finte spoglie si asconda il frate, o che egli lo abbia riconosciuto, domanda:
Siro. Chi è teco, Ligurio?
Lig. Un uomo da bene.
Siro. E egli zoppo, o fa le viste?
Lig. Bada ad altro.
Siro. Oh egli ha il viso del gran ribaldo!
Lig. Deh! sta cheto!
Così, anche questo personaggio secondario della commedia machiavelliana ha una fisonomia propria, comica e vera ad un tempo.
Ora che io ho analizzato e messo in luce, il meglio che per me si potesse, tutte le riposte bellezze che, vuoi dal lato dell’intreccio animato, vivace, interessante; vuoi da quello della condotta naturale, spontanea, spoglia di qualsiasi sforzo od artificio, vuoi da quello dei caratteri veri, umani, con arte sublime immaginati, con sublime arte mantenuti e svolti; vuoi da quello della lingua purissima e dello stile semplice, nervoso, scintillante, inarrivabile[26]; ora che ho messo innanzi le ragioni per le quali, secondo la mia opinione, la Mandragola del Machiavelli e a tenersi come un vero capo-lavoro, anzi come uno dei più stupendi capo-lavori dell’arte drammatica antica e moderna, resta ad esaminare un’altra quistione, non meno grave, intorno a questa meravigliosa opera d’arte.
Le anime timorate, gli uomini dai sottili scrupoli, in una parola gli ipocriti pudibondi della società moderna, nel segreto della loro vita privata, capaci di ogni più rea sozzura, all’aperto, giù per le vie, fieri e disdegnosi propugnatori del pubblico decoro, della pubblica moralità, della pubblica decenza, stretti contro il muro, quando un accurato esame abbia posto in luce le tante e rare bellezze onde splende il capo-lavoro comico del Machiavelli, gridano:
— Bene, sta bene, concediamo: la Mandragola è un capo-lavoro, ma... e la morale? Perchè dovrete convenire che ogni opera d’arte debbe avere un intento morale. E qui non soltanto manca assolutamente l’intento, ma i mezzi di cui si serve l’autore sono tutti immorali, spesso laidi ed osceni e tali che non permetterebbero oggi alla commedia del Machiavelli di poter reggere all’esperimento scenico, neppure dinanzi al pubblico che meglio si piaccia della più sfacciata pornografia.[27]
Ah! la morale!... eccola la grande obiezione!
Sapevamcelo, diran quei di Capraia e diciam noi: quale, sospinti di parapetto in parapetto, avreste finito per asserragliarvi. Ma l’espugnazione del vostro ultimo riparo, o critici moralisti dell’oggi, non sarà tanto difficile quanto voi mostrate di credere.
Noi potremmo benissimo impugnare intanto, e innanzi ad ogni altra cosa, cotesta solenne ed assiomatica affermazione, ogni opera d’arte, oltre al fine puramente estetico, doversi proporre anche un intento morale. Noi vi potremmo domandare: in quale codice ciò sta scritto? Quale legislatore d’arte lo stabilisce? Su quali razionali fondamenti si basa esso, cotesto vostro precetto? E contro alle autorità che voi poteste addurre, per confortarlo d’appoggio, noi potremmo addurne di validissime per oppugnarlo. Noi vi potremmo domandare, ad esempio: sapreste voi dirci quale sia, oltre il fine estetico, l’obiettivo morale di quella meravigliosa, anzi miracolosa poesia che è il Cantici, non supponendo neppure per un istante che voi possiate ritenere per credibile la pretesa allegoria la quale, contro la cronologia, contro la logica, contro il senso comune, vi han voluto vedere gli interpreti ecclesiastici che lo sposo di quel cantico sia Cristo e la sposa la Chiesa? E quale fine morale si proponeva il divino Raffaello nel dipingere la Galatea della Farnesina sapreste dirci? E quale il Canova nello scolpire|ecclesiastici che lo sposo di quel cantico sia Cristo e la sposa la Chiesa? E quale fine morale si proponeva il divino Raffaello nel dipingere la Galatea della Farnesina sapreste dirci? E quale il Canova nello scolpire il gruppo delle Grazie?... - Ma noi non disputeremo su ciò e vi daremo per assentato che il fine morale v’abbia ad essere in qualsiasi opera d’arte.
Ma vi diremo che, a giudicare del fine della Mandragola, si ha giudicare l’opera e l’autore non subiettivamente, ma obiettivamente.
Là, in mezzo alla società italiana d’in sul finire del cinquecento e nella prima metà del seicento, in mezzo alla società che ci dà le Rime del Poliziano, l’Orlando Furioso, le Commedie, le Satire dell’Ariosto e le Novelle del Firenzuola, del Lasca e del Bandello; i Capitoli del Berni, l’Autobiografia del Cellini, le Com'Commedie dell’Aretino e i Capitoli di Monsignor Della Casa, là, in mezzo a quella società in putrefezione, che vive, si agita e ride, gaia, elegante, che corrono dai spensierata, nei tempi pontificati di Calisto III e di Alessandro VI a quelli di Leone X e di Clemente VII, di Paolo III e di Paolo IV, fra le violenze e le turpitudini di Cesare Borgia e di Alessandro de’ Medici; fra le fraudolenti e sanguinose lotte di Francesco I e di Carlo V, fra gli ultimi baleni della virtù militare italiana, splendente in Giovanni dalle Bande Nere e in Francesco Ferruccio e fra gli eccidi Medicei e Farnesiani di Alessandro, bastardo di Papa Clemente, e di Pier Luigi, bastardo di Papa Paolo; là, in mezzo a quella società, ricca di corti fastose, giulive, ospitali, abbondevole di Principi mecenati e di gloriosissimi artisti, fra lo splendore che emana dalle pitture di Leonardo, di Giorgione, di Raffaello e di Michelangiolo e dei cento valorosissimi che loro fanno corona, fra l’onda di poesia immaginosa, calda, lasciva che dal Morgante del Pulci dalle Stanze e del Poliziano va sino al Canzoniere di Galeazzo di Tarsia e alle Maccheroniche del Folengo, là, fra quella società in cui la Calandra e la Mandragola son recitate, fra le più grasse risa e i più caldi plausi, nelle principali Corti italiane, in presenza dei Papi, dei Principi, dei cardinali, dei dotti, dei cortigiani, delle principesse più esimie e laudate del tempo, fossero esse di costumi facilmente lascivi come Lucrezia Borgia, fossero severamente virtuose come Vittoria Colonna; è là, in quella società, fra quella filosofia, fra quella poesia, fra quell’arte, fra quelle costumanze; è là, in quell’ambiente, di cui l’Ariosto potrà cantare veracemente:
O nostra mala avventurosa etade
Che le virtudi, che non abbian misti
Vizi nefandi, si ritrovin rade;
Senza quel vizio son pochi umanisti
Che fe a Dio forza, non che persuase
Di far Gomorra e i suoi vicini tristi. [28]
è là, in quell’ambiente, che voi, critici moralisti, sepolcri imbiancati, dovete giudicare l’opera drammatica del Machiavelli. [29]
E allora, considerati i tempi e i costumi e la corrutela di quella società, nella quale, in mezzo ai grandi vizii, v’eran pure ancora bagliori e guizzi di gagliarde virtù, e allora, considerata quella società in decomposizione, come la presente vostra odierna - con questa differenza che, a que’ dì, l’educazione generale era meno ipocrita e meno simulata e bugiarda di quella d’oggi e il pane si aveva coraggio di chiamarlo pane, e l’orinale orinale e la prostituta prostituta - allora vedrete svanire in un baleno tutti i fantasmi paurosi di lesa decenza, di pudore offeso, di morale calpestata, a causa dei quali voi andate, cotanto lagrimando ed in omaggio ai quali volete scomunicato e vituperato il Machiavelli e toltagli la fama e l’onore di insuperabile comediografo.
Data quella società, dati quei tempi e quei costumi, dato quell’ambiente, il fine morale, altissimo, propostosi dal Machiavelli e questo: mostrare agli spettatori, in tutta la sua ributtante crudezza, il marcio della società d’allora; insegnare come una sola coscienza onesta, lottante contro tante coscienze corrotte, aggirata, assalita, sospinta da ogni parte, abbia, di necessità, a corrompersi anch’essa; indicare i tarli che corrodono 1 intimo della famiglia, d’onde la corratela degli ordinamenti sociali e la ruina dello Stato e la imminente servitù della Nazione. E questa non è cervellotica supposizione, o benevola interpretazione de’critici moderni, intenti a giustificare il Machiavelli dalle tante accuse onde fu fatto segno da Reginaldo Polo al Lerminier, dal Lucchesini al Dantier, durante tre secoli e mezzo, ma è chiara, manifesta, solennemente affermata intenzione dell’Autore.
Un amante meschino,
Un dottor poco astuto,
Un frate mal vissuto,
Un parassito di malizia il cucco
Fieri questo giorno il vostro badalucco.
Questi versi del Prologo svelano apertamente il pensiero
dell’immortale fiorentino.
Il quale, come uomo positivo e d’azione che egli era in tutte le cose, come pensatore profondo, come indagatore stringato e sintetico dell’indole degli uomini e della infinita e variata natura nella storia degli eventi umani, come squisito e sublime artista che egli era, non da vacui e noiosi predicozzi, non da inopportuni e sonnolenti fervorini, ma dall’azione semplice, vera, rapida, spontanea volle, a disegno, che scaturisse la morale della favola.
Smascherando gl’impostori, mostrando qual peste sia per una famiglia un falso e bisognoso amico, il quale, sotto le lusinghe e le piacevolezze della domestica intimità, ad altro non miri che al proprio utile e a’ proprii guadagni; palesando quale nido di scelleratezze siano le Chiese e i confessionali e di quali perversità maestro il confessore; ponendo in chiaro di quale ruina alla sua casa, alla moglie, a sè stesso, possa essere un marito sciocco, male istruito e presuntuoso e a quali insidie possa andar soggetta la virtù timida e inesperta di una buona e casta donna che, invece di sussidio e di riparo trovi nella madre condiscendente, nel marito insensato, nel turpe confessore incitamenti al mal fare; mettendo in rilievo come anche la pera sana ed integra s’abbia di necessità a guastare posta, per ogni parte, a contatto di pere marcie e imputridite, il Machiavelli porgeva ai suoi contemporanei, sotto la gaia ed esilarante forma della più leggiadra commedia, i più profondi, i più pensati, i più importanti insegnamenti che mai predicatore santo e pio esponesse, con mistico ed esaltato e talora noioso linguaggio, all’oppresso uditorio nella più efficace delle sue prediche. E si noti che fra commedia e predica v’ha una gran differenza; quella si recita in teatro per allietare, l’altra si blatera in Chiesa per uggire la gente. E che tale esclusivamente fosse l’intendimento del Machiavelli e che non già voglia lasciva di corrispondere alle procaci tendenze dell’età, sua spingesse il grande scrittore a svolgere dinanzi al pubblico, in tutta intera la sua crudele ed efficace nudità la tela di quell’intrigo, si può dedurlo dalle parole che egli ha dettate nel Prologo della Clizia.
«E’ mi resta a dirvi - è il Prologo che continua l’incominciato discorso agli spettatori come lo autore di questa commedia è uomo molto costumato, e saprebbegli male se vi paresse, nel vederla recitare, che ci fusse qualche disonestà. Egli non crede che la ci sia; pure quando ei paresse a voi, si escusa in questo modo: sono trovate le commedie per giovare e per dilettare agli spettatori. Giova veramente assai a qualunque uomo, e massimamente ai giovanetti, conoscere l’avarizia di un vecchio, il furore di un innamorato, gl’inganni di un servo, la gola di un parassito, la miseria di un povero, l’ambizione di un ricco, le lusinghe di una meretrice, la poca fede di tutti gli uomini: de’ quali esempi le commedie sono piene, e possonsi tutte queste cose con onestà grandissima rappresentare. Ma volendo dilettare è necessario muovere gli spettatori a riso, il che non si può fare mantenendo il parlare grave e severo; perchè le parole che fan ridere sono o sciocche o ingiuriose o amorose. E necessario pertanto rappresentare persone sciocche, malediche o innamorate, e perciò quelle commedie che sono piene di queste tre qualità di parole, sono piene di risa; quelle che ne mancano non trovano chi con il ridere le accompagni. Volendo adunque questo vostro autore dilettare e fare in qualche parte gii spettatori ridere, e non inducendo in questa sua commedia persone sciocche, ed essendosi rimasto di dir male, è stato necessitato ricorrere alle persone innamorate ed agli accidenti che nell’amore nascono. Dove se ha cosa alcuna non onesta, sarà in modo detta, che queste donne potranno senza arrossire ascoltarla.»
Nelle quali brevi parole il Machiavelli, riassume, con la condensazione che è tutta propria e in modo inimitabile di quel sovrano scrittore, tutta la sapiente e profonda sua teorica sulla essenza e sui fini del teatro comico; teorica netta, precisa, vera, tutta gravida di avveduti precetti, derivati dall’intrinseca natura dell’arte comica. E siccome, in base a questi suoi precetti, l’autore ha posto e voluto porre in scena nella Mandragola persone sciocche (Micia), innamorate (Callimaco) e malediche (un po’ più un po’ meno tutti gli nitri personaggi) così risulta evidentissimo il duplice fine cui egli mirava; dilettare, con la comicità sublime della sua commedia, gli spettatori, giovarli col mostrar loro gli effetti, funesti alla famiglia, e perciò alla società, che derivano dal furore di un innamorato, dalla presunzione avventata di uno sciocco, dalla cupidigia dell’oro e dalle fraudi di un ipocrita, dai lusinghevoli e destri raggiri di un parassito e dalla poca fede di tutti gli uomini; onde è esclusa assolutamente nell’autore l’intenzione di servirsi dell’oscenità per il piacere dell’oscenità, ed è invece solennemente affermata la decisa volontà di lui di servirsi dei mezzi, apparentemente osceni, per raggiungere il duplice scopo di giovare e di dilettare gli spettatori[30].
Ma, oltre a ciò, il Machiavelli nel Prologo stesso della Mandragola, detto quale era il precipuo fine cui mirava la sua commedia, some sopra abbiamo accennato, aggiunge - quasi prevedesse gli assalti dei pudibondi critici dell’avvenire - altre notizie intorno alle altre ragioni che lo mossero a dettar la commedia e circa agli altri fini che egli, scrivendola, se ne imprometteva.
Alle quali e ai quali avrebbero dovuto e dovrebbero aver riguardo i critici moralisti nel giudicare l’opera del segretario fiorentino, cosa che, pur troppo non han fatto, nè voglion fare.
E se questa materia non è degna
Per esser più leggieri
D’un uom che voglia parer saggio e grave,
Scusatelo con questo, che s’ingegna
Con questi van pensieri
Pare il suo tristo tempo più soave,
Perchè altrove non ave
Dove voltare il viso;
Che gli è stato interciso
Mostrar con altro ingegno altra virtue,
Non sendo premio alle fatiche sue.
Il premio che si spera, è, che ciascuno
Si stia da canto e ghigna
Dicendo mal di ciò che vede o sente.
Di qui dipende senza dubbio alcuno,
Che per tutto traligna
Dall’antica virtù ’l secol presente;
Imperocché la gente,
Vedendo che ognun biasma,
Non s’affatica e spasma
Per far con mille suoi disagi un’opra
Ch ’l vento guasti o la nebbia ricuopra.nota
Pur se credesse alcun, dicendo male
Tenerlo pe’ capegli,
E sbigottirlo o ritirarlo in parte,
Io lo ammonisco, e dico a questo tale
Che sa dir male anch’egli,
E come questo fu la sua prim’arto;
E come in ogni parte
Del mondo ove il sì suona
Non istima persona,
Ancor ch’ei faccia il sergiere a colui
Che può portar miglior mantel di lui.
La fiera melanconia che traspira dalla prima di queste strofe e il sentimento altissimo di dignità e la gagliarda protesta contro l’avversa fortuna, che costringe a scriver commedie lui, nato per governar sapientemente gli Stati, sono cose che me inteneriscono e che dovevano, nell’intendimento del Machiavelli, se non intenerire, fare almeno pensosi del misero stato di lui i maggiorenti della fazione prevalente allora nelle faccende del comune fiorentino.
L’ironia che serpeggia nella strofa susseguente sferza gli sciocchi, pronti sempre a dileggiare i forti ingegni, intenti a dotti studi e sembra diretta a scudisciare i
[31] detrattori delle profonde elucubrazioni storiche e filosofiche dell’autore dei Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio.
Nella terza, che è poi la settima del Prologo, il quale, in tutto, ne ha otto, l’autore, che sembrava aver inchinato il capo sotto il peso della sorte nemica e del dileggio degli insipienti, per un subito movimento dell’animo, maturale in un grande carattere quale era il suo, rialza orgogliosamente la testa e avverte, a mezzo del Prologo, che nè gli eventi avversi, nè gli immeritati dileggi lo abbatteranno; che se alcuno creda soggiogarlo col dir male di lui, egli è sempre maestro nell’arte del dir male, che egli è sempre forte e libero e che si stima, benchè costretto a servire altrui, da più di quanti italiani, grandi e piccoli, vivono fra l’alpi e il mare siculo.
Dettando la Mandragola il Machiavelli voleva dare un’altra prova di quel che potesse il suo duttile, ferace e potentissimo ingegno e mostrare con quanta ingiustizia e danno della cosa pubblica egli venisse posto da canto e chiarire i suoi nemici che a lui, avvegnachè sbattuto dalla fortuna e povero e negletto, rimaneva ancora, oltre le armi formidabili dell’invincibile ingegno e della sapienza politica, un’arme più terribile ancora, l’arte del ridicolo che egli sapeva maneggiare in quel meraviglioso modo di cui offriva un saggio; e con la quale, egli, fiero della sua dignità e libero della sua coscienza, avrebbe potuto e saputo trar le cuoia di dosso a parecchi dei suoi nemici.
Non vi par’egli, o critici teneri del pudore, che di intenti morali nella Mandragola ve ne sia più d’uno?
Del resto è sommamente ridicolo che vi siano oggi dei critici ipocriti i quali, nascondendo il piombo della loro anima falsa e sozza di ogni raffinatezza dell’odierne sporcizie sotto l’aurea apparenza della politezza e della moralità, vengan fuori a scandalizzarsi della immoralità e della indecenza onde essi accusano macchiata la Mandragola del Machiavelli, essi, che traggono immenso diletto dalle provocanti sconcezze della pochade e dagli inebrianti atteggiamenti del can-can da cui derivano momentanea irritazione ed effimero galvanismo i loro nervi frollati e il loro esausto sensualismo!
E ora, prima di finire, due parole per fatto personale.
So bene che fra i numerosi giovani dedicatisi, in questi ultimi tempi, agli studii critici in Italia ve ne ha parecchi, i quali o perchè credono che la freddezza, il sussiego e un pizzico di ghigno mefistofelico conferiscano a dar dottrina, acutezza e autorità a un critico, o perchè proprio essi abbian l’anima agghiadata ad ogni entusiasmo e l’intelletto chiuso a ogni impeto di sentimento, ve ne ha parecchi, dico, che atteggeranno il labbro, più o meno adolescente, ad un sorriso di beffarda compassione, trovando nella espressione della mia ammirazione pel Machiavelli, un entusiasmo giovanile d’affetto, un impeto di epiteti laudativi, che, a parer loro, mal si addice a chi intende fare opera di critica severa e che, a loro avviso, detrarrà qualche cosa a quel pochissimo di serietà e di gravità che possa aver il presente studio sulla Mandragola.
A cotesti giovani critici intedescati, bramosi di sembrar più tedeschi, soffocando nell’animo gli slanci dell’entusiasmo, proprio della nostra indole italica, quando le si lasci libero corso e agevolezza di mostrarsi tale quale ella è, a cotesti giovani critici e alle loro censure io non ho, fino da ora, che una scusa da opporre ed è che io sono della scuola antica.
A loro, nati a patria redenta e venuti su a pappa fatta, e i quali perciò non hanno avuto opportunità di soffrire, di combattere e di sperimentare gli aneliti che spingono alla attuazione di un grande ideale, e gli sconforti delle cadute e la speranza del riaversi e il desiderio febbrile della riuscita e i palpiti della vittoria e le lacrime sul sangue onde fu bagnata la via che adduceva a quell’ideale, a loro può affarsi il filosofico sprezzo di qualsiasi entusiasmo; ma a noi della vecchia schiera, che studiammo, alla meglio, i classici latini e che non avemmo tempo di scrutare la sapienza tedesca; ma a noi, che lottammo, soffrimmo, combattemmo e ci tirammo su, a briccioline di timori continui e di ansie indicibili, fra le veglie e i geli dei campi e le miserie della vita randagia dell’esilio, una patria abbastanza forte e abbastanza rigogliosa, non solo non è dicevole il gelido indifferentismo, ma è a concedersi questa ormai inveterata debolezza degli entusiasmi, con i quali riuscimmo a far qualche cosa di bene e senza i quali, ignari come eravamo della critica e della sapienza tedesca, nè avremmo fatte delle belle, nè avremmo fatte. Forse... chi sa?... nuovi ideali si affameranno sugli orizzonti delle genti umane, e quei bravi giovani, oggi freddi, severi, compassati, si innamoreranno di quei nuovi ideali e li inseguiranno, e l’ora dei santi entusiasmi suonerà anco per loro e anclie fra loro - io lo spero - sorgeranno nuovi combattenti, fra loro anche nuovi martiri.
Mi perdonino adunque cotesti giovani critici e non ridano della mia foga, che la fede di nascita non mi consente di chiamar più giovanile.
Sono quello che sono: sarò fatto male, ma son fatto così. Ciò che mi par bello, ciò che mi commuove, ciò che mi par nobile ed elevato, mi trae all’ammirazione, all’entusiasmo; e non so frenarmi, e quel che mi si agita nell’animo bisogna che io metta fuori così come lo sento; e non comprendo, poi, perchè dovrei comprare una maschera alla bottega degli scettici e simulare una freddezza compassata, che è precisamente l’opposto del fuoco proprio dell’indole mia. Così, restando quel che sono, vale a dire latino, con tutti i difetti e i pregi della razza latina, a cui mi glorio alteramente di appartenere, in mezzo all’invadente tedeschismo, io non posso apparire agli occhi dei giovani altro che un codino. E sia: son codino e, come tale, ho anche io il calendario dei miei santi, pochi ma buoni; e fra questi santi v’ha anche Giuseppe Mazzini, che io venero, ammiro e adoro: e trai tanti insegnamenti da questo santo lasciati a chi legge le sue opere, preziosi documenti di fede, di amore, di dottrina profonda nella storia del nostro terzo risorgimento, v’ha anche questo, che mi varrà, spero, a scudo e a difesa.... pel mio soverchio entusiasmo.
«I nostri padri, i nostri grandi avevano fede, adoravano l’entusiasmo e si circondavano di poesia; traevan dal core, concitato a forti e frementi passioni, l’inspirazione del vero e il segreto della costanza.
«Però si levavan giganti, quando l’altre nazioni giàcevano. Però le nazioni risorte li venerano insegnatori. E voi, ricordatevi che giacete da tre secoli, che il disprezzo di tre secoli vi sta sopra, che da quei medesimi che pur vi studiate imitare, non vi vengono se non rimproveri, epigrammi villani, o più villana pietà».[32]
Note
- ↑ Basterà ricordare nel capitolo V dell’Asino d’oro;
«E perchè all’un pensier l'altro risponde
«La mente alle passate cose corse,
«Che il tempo per ancor non ci nasconde;
«E qua e là ripensando discorse,
«Come l’antiche genti alte e famose
«Fortuna spesso or carezzò e or morse.
«E tanto a me parver maravigliose,
«Che meco la cagion discorrer volli
«Del variar delle mondane cose.
«Quel che rovina dai più alti colli
«Più ch’altro i regni, ecc.sino alla fine del capitolo.
E nel capitolo della Fortuna i versi:«Nel primo loco colorato e tinto
«Si vede, come già sotto l’Egitto,
«II mondo stette soggiogato e vinto, ecc.»sino alla fine.
E quasi per intero di riflessioni storiche e filosofiche son tessuti i capitoli dell’Ingratitudine e dell’Ambizione.
E nel Canto degli Spiriti Beati, fra i Carnascialeschi parla il poeta dello sdegno di Dio:«Poi che vede il suo regno
«Mancare a poco a poco, e la sua gregge,
«Se pel nuovo pastor non si corregge.
«Tant’è grande la sete
«Di gustar quel paese,
«Che a tutto il mondo die’ le leggi in pria,«Che voi non v’accorgete
«Che le vostre contese
«Agli inimici vostri apron la via.
«Il signor di Turchia
«Aguzza l’armi, e tutto par che avvampi
«Per inondare i vostri dolci campi, eec.con quei che siegue.
E dalle familiari, fra cento che se ne potrebbero citare, traggo un esempio solo dalla lettera indirizzata a Francesco Vettori, da Firenze, il 9 aprile 1513:
- «Magnifice orator.
«Ed io che del color mi fui accorto
«Dissi: Come verrò se tu paventi
«Che suoli al mio dubbiar esser conforto?...«Questa vostra lettera mi ha sbigottito più che la fune, e duolmi di ogni opinione che voi abbiate che mi alteri, non per mio conto, che mi sono acconcio a non desiderar più cosa alcuna con passione, ma per vostro. Priegovi che voi imitiate gli altri, che con improntitudine ed astuzia, più che con ingegno e prudenza, si fanno luogo; e quanto a quella novella di Totto, la mi dispiace se la dispiace a voi. Peraltro io non ci penso e se e’ non si può rotolare, voltolisi; e per sempre vi dico, che di tutte le cose vi richiedessi mai, che voi non ne pigliate briga alcuna, perchè io non le avendo non ne piglierò passione alcuna.
«Se vi è venuto a noia il discorrere le cose, per veder molte volte succedere i casi fuori dei discorsi e concetti che si fanno, avete ragione, perchè il simile è intervenuto a me. Pure se io vi potessi parlare, non potrei fare che io non vi empiessi il capo di castellucci, perchè la fortuna ha fatto, che non sapendo ragionare nè dell’arte della seta, nè dell’arte della lana, nè dei guadagni nè delle perdite, e mi conviene ragionar dello Stato, e mi bisogna botarmi di star cheto, o ragionar di questo. Se io potessi sbucar del dominio, verrei pure anch’io a dimandare se il Papa è in casa; ma fra tante grazie, la mia, per mia trascurataggine restò in terra. Aspetterò il settembre.
«Intendo che il cardinale Soderini fa un gran dimenarsi, ecc.»
Ora, per questo infiltrarsi della politica e della ragione di Stato nelle poesie, nelle lettere familiari, da per tutto, insomma, diremo noi, potremo in modo assoluto dire che, nel dettare, i Canti Carnascialeschi o le lettere di affari e currentì calamo buttate giù, il Machiavelli intendesse fare, d’animo deliberato e con preconcetto proposito, opera che avesse ad essere di sussidio e di complemento a quella principale di indagatore profondissimo delle segrete cause e dei riposti effetti delle vicende storiche alla quale e’ s’era dedicato?...Diciamo piuttosto che il Machiavelli politico c filosofo della storia sopraffaceva siffattamente il Machiavelli artista - quantunque Michelangiolo e, insieme, Cellini, dello stile egli fosse e soventi inspirato poeta e sommo commediografo e perciò artista eccelso in tutto il più lato significato della parola - che, quasi senza che egli se ne accorgesse, ad ogni pie’ sospinto, egli incappava negli altissimi pensieri che gli si aggiravano per la mente, onde e’ era quasi costretto a dare ad essi posto in ogni sua scrittura, per la ragione dallo stesso immortale fiorentino mirabilmente addotta nel capitolo I dell’Asino d’oro, nel quale, traducendo quasi l’oraziano:
«Naturam expellas farca tamm usque recurret.»
egli scrive:«Perchè la mente nostra sempre intesa
«Dietro al suo naturai, non ci .consente
«Contr’abito o natura sua difesa...» - ↑ E lo splendore di questi versi soltanto basterebbe a sbugiardare il Gioda, il quale afferma che la canzone posta in fine dell’atto IV e che io più avanti riferisco, è la più bella di tutte quelle che si leggono nella commedia, è la più affettuosa, spontanea, naturale: e che ha insomma le qualità, che non si riscontrano mai o di rado ne’ versi del Machiavelli. La quale sentenza prami assolutamente erronea ed avventata, giacché in tutte le poesie del Machiavelli, e più specialmente nell’Asino d’oro, vi sian squarci di lirica stupendi e tali da poter tener degnamente il confronto coi più belli dell’italiana letteratura.
- ↑ Di questa opinione è anche l’illustre De Sanctis. Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana; Napoli, Antonio Morano editore, 1879.
- ↑ Al Gioda sembra stiracchiato questo modo di render conto dell’antefatto al pubblico. (Vedi Carlo Gioda, Machiavelli e le opere, par. 1, capitolo 3°.) Nessun altro dei critici della Mandragola accenna a questo difetto. A me la ragione addotta dall’autore: Se io non detto infino a qui quello che ti dirò, non è stato per non mi fidare di te, ma per giudicare, le cose che l’uomo vuole non si sappiano sia bene non le dire, se non sforzato sembra vera, logica, naturalissima: se Callimaco non avesse avuto bisogno della cooperazione del servo non lo avrebbe messo a parte del suo segreto: ma, poiché è di necessità che e’ ricorra alla cooperazione di Siro, cosi è che esso gli partecipa il suo amore per Madonna Lucrezia.
- ↑ Meno il V atto, tutti gli altri della Mandragola sono canzone di undici versi, chiusi da una breve all’infuori di quella che segue l’atto III, che è di dieci versi soltanto.
- ↑ Il Machiavelli, come a tutti è noto, aveva familiarissimo il divino poeta, delle cui opere egli era assiduo ammiratore e meditatole; e certo l’Alighieri non ebbe mai ammiratore più degno di lui, che il Machiavelli. La dimestichezza del segretario fiorentino coll’immortale autore della Divina Commedia, della Vita Nuova, del Convito, del De Monarchia e del De Vulgari Eloquio, era tanta che a me questa canzone, e un pochino, qua e là, anche le susseguenti fan l’effetto di rammentare, alla lontana, pensieri e forme delle canzoni dantesche.
Quella di sopra riportata, per esempio, non par che richiami subito alla memoria e che derivi dalla prima strofe della sublime canzone dell’amante di Beatrice Portinari:«Amor che movi tua virtù dal cielo
«Come ’l sol lo splendore,
«Che là s’apprende più lo suo valore
«Dove più nobiltà sua raggio trova? ecc. ecc.» - ↑ La furberia nostra, la loro, cioè dei frati.
- ↑ Perchè mi è nota, la conosco.
- ↑ Questo brano circa al Turco e allo impalare fu letteralmente copiato, e nelle aggiunte, storpiato dallo svergognato Pietro Aretino nel dialogo fra il P. Guardiano dell’Ara Coeli e la ruffiana Alvigia nella scena 12 dell’atto III della sua Cortigiana.
Questa imitazione fu notata dal De Amicis, L’Imitazione classica nella commedia italiana del XVI secolo, e anche dal Graf: Arturo Graf, Studi drammatici, il quale non ne rilevò, però, la servilità e la fiacchezza. Il Graf anzi desidera che si istituisca un confronto fra l’Ipocrita dell’Aretino e la Mandragola del Machiavelli, senza accennare abbastanza quale abisso separi la figura michelangiolesca di Fra Timoteo da quella slavata e inconcludente di Ipocrito, la cui impostura consiste tutta nel nominare, fino alla nausea, la carità e nel consigliare eccellentemente Liseo nelle angustie in cui si trova ravvolto, procurando di ricavare il suo utile da quegli ottimi consigli. Quindi la inferiorità immensa che risulta allo sbiadito personaggio di Ipocrito a fronte di quei due colossi che sono Fra Timoteo e Tartufo.
D’altronde un parallelo fra la commedia dell’Aretino e quella del Machiavelli manca dei termini necessari ad essere istituito, quando si rifletta al modo diverso della condotta delle due commedie.
Basterà osservare che nello Ipocrito - come, del rimanente, in tutte le commedie del turpe Aretino i personaggi, quando son soli, non fanno monologhi che debbono essere uditi soltanto dagli spettatori, ma parlano ad alta voce, per essere anche ascoltati dagli altri attori. Il che, mentre da un lato è fuori del vero e del naturale, è anche un comodissimo mezzo per svolgere, ma falsamente, ma senza verosimiglianza, l’azione, eliminando, con tale convenzionale e bruttissima licenza, tutte le difficoltà alle quali si trova, invece, esposto il Machiavelli, che, vero e naturale sempre, non ha voluto servirsi di questo facile e stolto mezzuccio, contrario alla verità e alla naturalezza.
Basterebbe questo fatto a dimostrare di quanto la Mandragola, del Machiavelli sia superiore allo Ipocrito dell’Aretino: il primo come autore comico, sta a quest’ultimo come il Petrarca lirico sta al lirico Bembo.
Non parlo della arrischiatissima asserzione del dotto ed estinto amico Ignazio Ciampi, Conferenze sulla Storia delle lettere italiane, il quale chiama l’Ipocrito precursore del Tartufo, giacché nessuna, benché minima, analogia nell’azione e ne’ caratteri secondarii sussistendo fra la commedia dell’Aretino e quella del sommo commediografo francese, non mi pare che l’affinità nella impronta generale del carattere esistente, in apparenza, fra lo scipito Ipocrito dell’italiano e il sublime Tartufo francese basti a giustificare quella poco felice affermazione.
Secondo me esiste maggior relazione fra un pezzo di creta cruda e giallastra e un vaso meravigliosamente smaltato e dipinto da Luca della Robbia, di quella che ne esista fra Ipocrito e Tartufo.
Se nella commedia dell’Aretino, che dall’Ipocrito si intitola, v’è un personaggio che presenti un carattere originale e degno di ammirazione, è quello di Liseo con lo studiato indifferentismo onde fa mostra dalla metà dell’atto III sino alla fine della commedia - ↑ Dei frati almeno state sicura, chè più di voi hanno caro ch’egli stia segreto. Machiavelli, Commedia in tre atti, in prosa, senza titolo, atto II, scena 1
- ↑ Scena lª dell’atto I.
- ↑ Scena 2ª dell’atto III.
- ↑ Il breve esame ohe io farò di questo personaggio e degli atti suoi e delle sue parole, mi sembra che possa servire di risposta vittoriosa ed irrefutabile alle critiche che il Gioda, op. citata e il Camerini, Eugenio Camerini, Profili letterati, muovono al carattere di Callimaco il primo dicendo: Callimaco è gran tempo che ha cessato di manifestare i suoi desideri con quello scurrile (!) linguaggio e il secondo asserendo che Callimaco è uno sdolcinato (!!) un primo amoroso che si è perpetuato fino ai nostri dì. Giudizi - mi duole il doverlo dire, pel rispetto che nutro pei due valorosi critici - non saprei se più avventati, o più falsi.
Ammiratori invece del carattere di Callimaco si palesano il Ginguené, Histoire littéraire d’Italie, il Settembrini, Lezioni di letteratura italiana, il De Sanctis e il Graf, opere citate, il Ciampi nelle sue Conferenze sulla Storia delle lettere italiane, l’Emiliani Giudici nella sua Storia della letteratura italiana, il Villari nella sua lodata opera Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, il Tallarigo, Compendio della Storia della letteratura italiana, mentre nulla contro il personaggio di Callimaco trovano a ridire, anzi lo lodano senza dubbio perchè lodano tutti i caratteri della Mandragola, nè il Macaulay nei suoi Saggi critici, nè il Sismondi, Histoire de la littérature de l’Europe, nè Gaspar Amico, Vita di Niccolò Machiavelli, commentari storico-critici. - ↑ Insomma Callimaco è in azione, l’innamorato che, con tanta leggiadria ed efficacia, nella commedia, senza titolo, in 5 atti e in versi, dello stesso Machiavelli, Saturio parassito descrive nella sua canzone dell’atto II:
«Oh che miseria è quella degli amanti,
«Ma molto più di quelli
«Ch’hanno i loro modi strani a sofferire!
«Io per me innanzi vuo’ prima morire
«Che servir tai cervelli;
«Voglion, non voglion, corrono e stan fermi,
«Or lieti, or mesti, or sani ed ora infermi.
«Questi vizi in amor si trovan tutti,
«Ingiuria e sosptzione,
«Inimicizie e tregue e guerre e paci,
«Concordie e sdegni, e promesse fallaci, ecc» - ↑ Anche il Macaulay osserva, e giustamente, nell’opera citata, che messer Micia è derivato o dal Calandrino o dal Simone da Villa del Boccaccio.
- ↑ Vedere a questo proposito il Giovio, Elogia doctorum vivorum. Elogi Nic. Machiavelli, Anversa 1571, pag. 187; Fabbroni, Leonis X Pont. Max., Vita, Pisa, Alessandro Landi, 1797, pag. 161 e nella nota 78 a quella pagina sottoposta.
Alla rappresentazione della Mandragola, o Messer Nicia che dir si voglia, secondo ogni probabilità, si riferisce, Donato Giannotti, Opere politiche e letterarie, Firenze, Le Mounier, 1850, là dove nel lib. III della sua Repubblica fiorentina parla della rappresentazione di una commedia del Machiavelli, la quale aveva messo desiderio in ciascuno di vederla, rappresentazione avvenuta in casa Jacopo Fornacciaio fuori porta S. Friano. - ↑ Anche intorno a questo personaggio, che tutti i critici suaccennati, compreso fra essi anche il Camerini, levano a cielo come creazione comica bellissima ed efficacissima, il Gioda fa delle riserve, ritenendo che esso, pei mutati costumi, non sia più riconoscibile ai giorni nostri; dimenticando, per certo che, dal Machiavelli in poi, tutti gli scrittori drammatici più celebrati, a cominciare dal Molière e a venire, giù giù al Goldoni, allo Scribe, al Giraud, han rappresentato parecchie dozzine di Messer Nicia nelle loro commedie fino alle due ultime e più famose riproduzioni di quel tipo fatte dall’Augier nel suo bellissimo Marechal de1 Fils de Giboger e dal Ferrari nostro nel comico e festevole Marchese Colombi della Satira e Purini.
Tanto era ed è immortalmente vero ed umano e immutabile e di tutti i tempi Messer Nicia! - ↑ Il Graf, a questo punto, seguendo il testo di alcune edizioni errate delle opere del Machiavelli, scrive alle ragunate di un magolazzo e poi si domanda, in una nota, a pie’ di pagina, che diavolo sia questo magolazzo che egli ha trovato in dieci edizioni da lui riscontrate e che non è registrato neppure nel Vocabolario della Crusca. Poi, tutto felice della propria penetrazione, scopre che forse si ha a leggere mogliazzo!!! Ma la meravigliosa sagacia di questo nuovo Vasco di Gama è frustrata completamente dalla edizione completa delle opere del Machiavelli, in 10 volumi, Italia, 1810, e dall’altra, in un solo grosso volume di XL-928 pagine, pubblicato a Firenze, presso Borghi e Comp., nel 1833, splendido e correttissimo volume e da quello della edizione delle commedie machiavelliane nella collezione Diamante del Barbera, con prefazione di F. Perfetti, Firenze, 1860 e dall’altra del Le Mounier: Firenze, 1852: Opere minori di Niccolò Machiavelli, rivedute sulle migliori edizioni con note filologiche e critiche di F. L. Polidori, le quali tutte, prima che il Graf venisse d’oltremonti in Italia per scoprire il passaggio del Capo di Buona Speranza, come altrettanti Bartolomei Diaz, avevano già corretto
11 magolazzo in mogliazzo.
Ma non si disperi per questa scoperta andatagli a male il buon prof. Graf e metta questa pure con l’altra da lui fatta allorché, due anni or sono, pubblicò, senza riconoscerli, nel suo Giornale della letteratura italiana, ventuno versi del Paradiso del Divino Alighieri che egli direttore del Giornale storico della letteratura italiana aveva scambiati, insieme con l’autore dell’articolo, per poesia inedita di uno sconosciuto lirico del trecento, errore dal quale venne a trarlo opportunamente il chiaro mio amico dott. Guido Blagi (vedi Fanfulla della Domenica del 10 febbraio 18S4, n. 6.)
Decisamente l’egregio prof. Graf non è nato col bernoccolo dello scopritore! - ↑ In questo stupendo motto il Machiavelli stabilisce la distinzione fondamentale che intercede fra donna e femmina; di che si apprende come, mentre rarissime son le donne, le femmine sian quasi innumerevoli, quantunque quasi tutte le femmine le pretendano esser tenute per donne.
- ↑ E il Machiavelli, con felice sintesi, raccoglie negli undici versi onde si compone la canzone che chiude l’atto II, tutte le qualità caratteristiche di quel citrullo di personaggio che è messer Nicia.
«Quanto felice sia ciascun sei vede,
«Chi nasce sciocco; ad ogni cosa crede,
«Ambizion noi preme,
«Non lo muove il timore,
«Che sogliono esser seme
«Di noia e di dolore.
«Questo nostro dottore,
«Bramando aver figliuoli,
«Crederla che un asili voli,
«E qualunque altro ben posto ha in oblìo,
«E solo in questo ha posto il suo desìo.» - ↑ E ciò sia detto, anche per riguardo a Fra Timoteo, con buona pace del De Amicis, il quale nell’accurato scritto citato (parte III) dice che il Frate non ha perduto il senso del bene e del male, clic non è nè dissoluto nè ipocrita, nè intrigante, che è semplice, ma non imbecille, ecc.
Più avanti dimostrerò come, a parer mio, siano in errore quei critici - e son pochissimi - i quali credono che Fra Timoteo non abbia la coscienza corrotta e che non sia, perciò, un impostore. - ↑ Il Camerini, il Villari, il Gioda, il De Sanctis, l’Emiliani Giudici, il Ciampi, il Settembrini, - il quale nel vol. II, cap. 53, nota che nessuno osservò più profondo del Machiavelli e nessuno fra gl’italiani sin oggi ha scritto una commedia che valga la Mandragola, che egli chiama il capolavoro della drammatica nostra - il Tallarigo, il Graf, il Macaulay, il Sismondi, il De Amicis, Gaspar Amico son tutti concordi nell’ammirare, in genere, il carattere di Fra Timoteo, che, da tutti, è ugualmente riconosciuto come una vera creazione. Meno il Graf, il De Amicis suddetto e il Ruth (Geschichte der italienischen poesie) tutti riconoscono in Fra Timoteo il tipo dell’impostore, ad eccezione del Ginguené che lo fa con qualche riserva.
Il De Sanctis trova che Fra Timoteo è il precursore di Tartufo, meno artificiato, anzi tutto naturale. Anche Edgard Quinet (Révolution d’Italie, II, 1) afferma che il Machiavelli crée dans Frère Timothée l’aièul de Tartufe; opinione partecipata dal Sismondi e, in genere, anche dal Ginguené: che, parlando del Frate, dice «Il n’est ni débauché, ni mème, trop hypocrite: il ne s’occupe que de faire venir l’argent au convent, et, comme on dit l’eau au molin. Tout moyen lui parait bon: mais au fond il n’est pas plus méchant qu’autre, et c’est la grande différence qui est entre lui et Tartufe, auquel on pourrait croire qu’ à d’autres un égards il a pu servir de modèle.»
Sembra che anche il Gioberti (Del Buono e del Bello, Firenze, Le Monnier, 1853) accoppii Fra Timoteo e Tartufo, quantunque questi due caratteri a lui non piacciano, là dove dice (pag. 430) «.... il male dee essere adoperato con gran misura e mitigato col bene e da questo squisito temperamento nasce la stupenda perfezione che nel Chisciotte del Cervantes, nel Falstaff del Shakspeare e nell’Abbondio del Manzoni si ravvisa: tre fatture comiche alle quali non so qual’altra in alcuna lingua per la pellegrina eccellenza del concetto e esecuzione si possa pareggiare. Il quale elogio non si può fare al Tartufo del Molière, nè al Timoteo del Machiavelli, con tutto l’ingegno che vi mostrano gli autori, perchè la bruttezza morale di tali personaggi eccede i limiti conceduti al poeta.»
E a questo modo di considerare il carattere del Frate sembra che si avvicini alquanto il De Sanctis il quale, dopo aver dettato le parole che di sopra riportammo, addentrandosi di più nell’esame dell’indole di Fra Timoteo, trova che questo tipo d’ipocrisia «non è abbastanza idealizzato» e che «ha colori troppo crudi e cinici;» ciò che non gli impedisce di concludere che tutta la commedia è di carattere e di intreccio, è una vera e propria azione vivacissima di movimenti e di situazioni, animata da forze interiori, che ci stanno come forze o istrumenti, e non come fini e risultati. Il carattere è messo in vista vivo, come forza operante, non come qualità astratta. Ciò che di più profondo ha il pensiero esce fuori sotto le forme più allegre e più corpulente fino della più volgare e cinica buffoneria, come è il San Cucù e la palla di aloè.»
E a questa stessa opinione si accosta il Villari il quale crede (lib. II, cap. 10) che il Machiavelli abbia passato il segno e varcata la linea estetica nella dipintura del carattere di Fra Timoteo. Il Perfetti (nella prefazione ricordata) afferma che l’ipocrisia di Fra Timoteo è più intrinseca dì quella di Tartufo, è l’arte sua, il suo mestiere quotidiano.
Taluni dei menzionati scrittori, e specialmente il Villari, fanno delle grandi riserve circa alla moralità del carattere di Fra Timoteo e sulla moralità della commedia: e di ciò ragioneremo a suo luogo quotidiano.
I soli De Amicis e Graf fra gli autori che di questa commedia scrissero in italiano e fra gli stranieri il Lóise (Histoire de la poesie mise en rapport avec la civilisation) e il Ruth, scostandosi da tutti e sviluppando, di là assai delle intenzioni del Ginguenè, le parole di questo da noi sopra riferite, affermano che Fra Timoteo non è un’ipocrita: stiracchiando e contorcendo - almeno questa è l’opinione mia - il senso delle parole che il Machiavelli mette in bocca al suo frate. Anzi, a leggere le parole adoperate dal Ruth, nel profondo e sapiente esame che egli fa dei caratteri della commedia del Machiavelli emettendole a confronto con quelle del Graf e specialmente con quelle del De Amicis, precisamente per ciò che riguarda Fra Timoteo, si sarebbe tentati di credere che i due ultimi avessero dinanzi agli occhi, allorché scrivevano; il testo del tedesco. Ma, checché ne sia di ciò, ho detto che quei critici hanno allargato l’intendimento del Ginguenè perchè questi dice: «Il n’est ni débauché, ni mime trop hypocrite», il che vuol dire che un po’ d’ipocrisia nel Fra Timoteo il Ginguenè l’ammette e la riconosce.
E, di fatti, come negare l’ipocrisia di Fra Timoteo? Se ipocrisia è falsare il vero, il presentare altrui come cosa onesta quella che, nell’intimo dell’animo, si stima cosa illecita; se ipocrisia è, come afferma Euripide, (Ippolito, III, 1ª) il giurare del labro mentre tace il core; se essa è, come dice Molière (Festin de Pierre, V. 2) «un vice privilegié qui, de sa maìn, ferme la bouche a tout le monde etjouit en repos d’une impunite souvaraine, per il che on He, à force de grimaces, une société ètroite avec tous les gens da parti.... et ceux que l’on sait ménte agir de bonne foi là-dessus et que chacun connoit pour étre vèritablement touchés, ceux-la, dis-je, sont toujours les dupes des autres; ils donnent bonnement dans le panneau des grimaciers,» ecc.; se essa è come insegna lo Shakspeare (Macbeth, 1, 6.) l’arte per la quale si ottiene che mascheri un falso volto i segreti di cui si pasce un falso core, come si potrà ragionevolmente dire che Fra Timoteo non è un ipocrita, non è un impostore? Non è un ipocrita, quando invitato da Ligurio a tener mano all’infanticidio, e mostrategli da lui tutte le subdole e sofistiche ragioni per le quali e’ ci si debba prestare, esclama: «Sia col nome di Dio, facciasi ciò che volete; e per Dio e per carità sia fatta ogni cosa?...» Non è ipocrisia, non è impostura invocare Dio complice e consenziente a tanto misfatto?... Non è egli un impostore, quando afferma alle due donne di «esser stato in su i libri più di due ore a studiare il loro caso», mentre si è mosso punto dalla chiesa e il pubblico sa benissimo che egli non ha studiato nulla? Non è impostore quando giura «pel suo sacrato petto che tanta coscienza vi è a ottemperare in questo caso al marito, quanto vi è mangiar carne il mercoledì, che è un peccato che so ne va con l’acqua benedetta?
Vorrei concedere che questo fosse un ragionamento sottile, casuistico, sofistico, proprio della condizione morale della coscienza elastica e pervertita di Fra Timoteo, se il caso fosse stato all’occhio del frate tale quale realmente si presenta agli occhi della moglie e del marito, che sono i due ingannati, i due soli in istato di assoluta buona fede in tutta quella trappoleria - perchè Siro e Sostrata sono già in qualche sospetto dell’inganno; - ma come sì fa a dire che Fra Timoteo non è un impostore, mentre egli sa benissimo che tutto l’armeggio della pozione di mandragola e del garzonaccio che s’ha a giacere con la donna è una trama ordita contro la buona fede di Lucrezia e di Messer Nicia; mentre sa benissimo che se il marito e la moglie conoscessero di che effettivamente si tratti, nè l’uno, nè l’altra vorrebbero acconsentire a cadere nella pania che è loro tesa? E non sono calcolo di raffinata impostura le parole che pronuncia Fra Timoteo nel suo soliloquio della scena nona dell’atto III, e specialmente quelle con cui conclude, parlando di Sostrata, «la quale è bene una bestia e sarammi un grande aiuto a condurla (la figlia) alle mie voglie?» E non è un ipocrita Fra Timoteo quando, sapendo come si tratti di un adulterio al quale si trae, per inganno, una donna onesta riluttante e del quale si vuol render istigatore e complice quel bietolone dell’aggirato marito, tutto quel fatto egli chiama - come acutamente osserva il De Sanctis - un misterio, al quale egli invoca mozzano l’Arcangelo Raffaello? E non è un raffinato ipocrita Fra Timoteo, che esclama, nel suo monologo della scena terza dell’atto V: «io non voglio star più qui, ma aspettarli alla chiesa dove la mia mercanzia varrà più?» Con che egli dimostra come la religione, che egli professa e di cui è ministro, la ritiene quale una bottega, ove la merce principale che egli vende è la morale accomodata in tutte le salse della causistica, del sofisma, della restrizione mentale e della intenzionalità finale, perchè la riesca accessibile ai varii gusti e alle varie passioni delle diverse coscienze de’ suoi avventori.
Ma se Fra Timoteo non è un ipocrita, un impostore, noi potremo, a coloro che questa verità impugnano, gridare col divino Molière (Tartufo, 1, 5.)«Vous les voules traiter d’un semblable langage,
«Et rendre même honneur au masque qu’ au visage;
«Egaler l’artifice à la sincérité,
«Confondre l'apparence avec la vérité,
«Estimer le fantôme autant que la personne
«Et la fausse monnaie à l’égal de la bonne?»
No, ma no, davvero. E, appunto perciò, noi esclameremo, a proposito di Fra Timoteo, con Cleante:«Aussi ne vois-je rien que soit plus odieux
«Que le dehors plâtré d’un zèle specieux,
«Que ces francs charlatans, que ces devot de place,
«De qui le sacrilège et trompeuse grimace
«Abuse impunément et se joue à son gré
«De ce qu’ ont les mortels de plus saint et sacrò;
«Ces gens, qui par une ame à l’intérêt soumise,
«Font de dévotion métier et marchandise, ecc.»
Quando spassionatamente si analizzino tutte le parole e tutte le azioni di Fra Timoteo, da questo esame risulterà, limpido come la luce meridiana, il convincimento che Fra Timoteo è un impostore, è un ipocrita, indurito nel pervertimento, selvaggiamente sfrontato, ma - come dice il Macaulay - un mirabile ritratto d’ipocrita confessore. - ↑ Il Ligurio della Mandragola, quantunque il Camerini lo rinvenga di tutte le feste comiche e il Gioda lo creda oggi mutato da quello che ce lo descrive il Machiavelli, è tanto poco umano e moderno che rassomiglia - se io non m’inganno al Ludro, imbroglione e intrigante che il Goldoni creò nella sua commedia L'uomo di mondo; il quale Ludro, non altrimenti veneziano, ma uomo di tutti i paesi della terra, aveva in sè tanta vitalità che fu suscettibile di maggiore sviluppo e se l’ebbe nella trilogia che consacrò a quel personaggio l’attore ed autore F. A. Bon, Ludro e la sua gran giornata, Il matrimonio di Ludro e La vecchiaia di Ludro, delle quali tre commedie la prima è veramente bellissima. Così il Ludro goldoniano, che nell’Uomo di mondo era personaggio secondario e costituiva una parte, come suol dirsi, di fianco, nelle commedie del Bon fu elevato a protagonista.
Circa alla somiglianza fra il Ligurio del Machiavelli e il Ludro del Goldoni, senza voler detrarre menomamente alla gloria del famoso commediografo veneziano, del quale fui, sono e sarò sempre ammiratore entusiasta, io penso che essa derivi dalla reminiscenza del Ligurio del Machiavelli, forse, inconsapevolmente, surta nella mente del Goldoni allorché egli scrisse il suo Uomo di mondo.
E in questa opinione mi spinge il ricordo della profonda, incancellabile ammirazione che produsse nell’animo del poeta veneziano la lettura della Mandragola da lui fatta a diciassette anni, lettura che il giovinetto, futuro gran commediografo, ripetè dieci volte, come egli stesso narra nelle sue Memorie da servire per la storia della sua vita e del suo teatro al cap. 10 della p. I. - ↑ A torto - secondo la mia modesta opinione, - il Graf, sulla scorta, direi quasi, della signora Franceschi Ferrucci (I primi quattro secoli della Letteratura italiana, Firenze, Barbèra e Bianchi, 1858), si lamenta per la debolezza del sentimento religioso e per la fiacchezza della virtù di Lucrezia.
La donna di Messer Nicia ò quella che è: è tale quale l’han fatta, quale di necessità debbono averla fatta, l’ambiente, i tempi, l’educazione, i costumi. E debole, è superstiziosa, è buona e perciò abbastanza arrendevole: non può e non deve esser forte. In fin fine è la figlia di Sostrata, la moglie di Messer Nicia, la penitente di Fra Timoteo. Anzi, essa è - a mio avviso - migliore di quello che, a tutto rigor di logica, avrebbe dovuto essere.
O come e perchè il Machiavelli avrebbe potuto immaginare, in mezzo a quella gente, una Lucrezia romana, vera, autentica e apparentemente virtuosa come l’antica?
Ciò, oltre il costituire un ingiustificabile anacronismo, sarebbe stato in diretta opposizione con la logica e con la verità.
E il Machiavelli non era uomo da commettere siffatti errori e non ne commise. - ↑ E anche qui il Machiavelli, con poesia calda ed efficace, riepiloga nella canzone, che termina l’atto IV, la situazione notturna di Callimaco e Lucrezia.
Oh dolce notte, oh sante
Ore notturne e quete
Che i desiosi amanti accompagnate!
In voi si adunan tante
Delizie, onde voi siete
Sole cagion di far l’alme beate:
Voi giusti prendi date
Alle amorose schiere
Delle lunghe fatiche,
Voi fate, o felici ore,
Ogni gelato petto arder d’amore. - ↑ Il Bonghi, il quale, nel suo acuto e dotto studio giovanile, pubblicato da prima nel periodico fiorentino Lo Spettatore, poi due volte edito in un volume sotto il titolo Perchè la letteratura italiana non sia popolare in Italia (ett. XXII), pur lodando il Machiavelli come uno dei più efficaci scrittori italiani, ne critica, forse con soverchia sottigliezza, alcuni periodi tolti dal Principe, non parla affatto - almeno se mal non ricordo - dello stile della Mandragola, perchè sopra di esso assai difficilmente anche la critica più arguta e sottile potrebbe mettere il dente.
Il Ciampi, invece, (opera citata) afferma che «nessuno e quasi nemmeno il segretario fiorentino possono stare a paragone con l’Ariosto per la precisione, la fluidità, l’amenità insieme con la grazia e la naturalezza che vestono discorsi e facezie di nativi colori.»
La quale asserzione - che in me destò profonda meraviglia, sapendo io per prova quanto fosse squisito il gusto del Ciampi e come serio il suo discernimento quanto sia lontana dal vero non è chi, ponendo a fronte le commedie del fiorentino e quelle del cantore d’Orlando Furioso, non possa di per sè vedere.
No, il Machiavelli non peccò di fiorentinesca albagia quando disse nel Dialogo sulla lingua - se pure quel dialogo è opera sua - che l’Ariosto per mancanza di idioma non seppe mostrare troppa gentilezza di dialogo. Ammiratore caldissimo tanto del Machiavelli quanto dell’Ariosto, idolatra di ambedue questi colossi del cinquecento, io, che non sono nè fiorentino nè ferrarese, credo fermamente che il Machiavelli o chiunque sia l’autore del Dialogo sulla lingua avesse ragione.
E perchè l’opinione mia può esser priva di autorità, io voglio confortarla con le parole di un valoroso critico e non toscano, il Camerini, il quale, op. cit. scrive cosi: «L’Ariosto con tutti i suoi sdruccioli, con tutto il suo stile lombardeggiante, fu ammirabile in certi intrecci, in certi caratteri e nell’abbondanza talora affettuosa del dialogo. Il Bibbiena con tutte le sue lungaggini spesso ingegnoso nell’intreccio e frizzante nello stile. Il Caro stupendo, al solito, nel dialogo degli Straccioni, i Cecchi, i Lasca e tutti i fiorentini ricchi di stile mottegevole e trattoso. Ma son tutti monotoni come il deserto: v’è qualche oasi, ma quanto bisogna camminare e patire per arrivarvi! La Mandragola è un giardino che la magia, amica a Messer Ansaldo, ha fatto sorgere, e che la natura, prendendo il mago il parola, ha ritenuto per suo.· · · · · · · · · · · · · · · · · · · · «Quello che non si può non abbastanza lodare, e per sventura dà una certa luce, sebben falsa e sinistra anche all’oscenità, si è l’atticismo, la vivezza, il brio di uno stile impareggiabile, meraviglioso nelle Commedie, più meraviglioso nelle lettere famigliari. È una bellezza meretricia, ma che è vano negare.»
- ↑ Del rimanente, oltre gli autori citati nelle note precedenti, ho trovato che trattarono della Mandragola lo Schlegel (Angusto Guglielmo) e il Gherardini
suo traduttore, il Voltaire,
il Royer, il Tiraboschi, il Gravina, il Crescimbeni,
il Napoli Signorelli, il Corniani, il Riccoboni, il Fijoo, il Bettinelli, l’Algarotti, il Maffei, l’Ambrosoli, il Quadrio, l’Andres, il Colombo, il Betti,
l’Artaud, il Meinhard, il Lessing, il Lerminier, l’Hallam, il Ratery, il Loise
e il Ruth suddetti, il Bougrault, il Taine, la Franceschi Ferrucci, il Fornari,
il Canello, il Cantù, il Ranalli, il Guerzoni, il D’Ancona, il Carducci, il il Mestica, il Massarani, il Tommaseo, il Galanti, l’Amicarelli, l’Agresti, il De-Gubernatis, il Klaine, il Ferrari, il Dantier, il Cuccetti, il Carrer, il
Dandolo, il Martini, il Monnier e parecchi altri che sotto verrò indicando.
Lo Schlegel del del quale il Carducci, nella sua arguta critica della commedia Calderon della Barca, Vida es suéno (Bozzetti critici e Discorsi letterari di Giosuè Carducci, Livorno, F. Vigo, 1876) dimostrò nettamente la mala fede letteraria e la deficienza di gusto e di discernimento, lo Schlegel, (Corso di Letteratura Drammatica, Lezione IX) confermando, anche nel suo giudizio avventato e puerile intorno alla Mandragola, la generale insufficienza delle sue cognizioni sul teatro italiano, loda il dialogo vivo ed ardito dell’autore fiorentino, ma nega alle commedie del Machiavelli la caratteristica di opere teatrali perchè l’intreccio rozzamente ordito (!!) non produce alcun effetto drammatico (!!!). E con poche parole se ne sbriga.
È vero che il buon Giovanni Gherardini, traduttore dello Schlegel, in una nota, la 37“(nella edizione di Milano, P. A. Molina, 1844) cerca timidamente di attenuare l’asprezza del giudizio del critico tedesco, giudizio così errato e così ingiusto da far dubitare se più da odio cattolico contro l’autore del Principe o da mancanza di precise cognizioni sull’argomento fosse dettato.
Il Voltaire, invece, e per l’acutezza dell’alto ingegno e pel gusto squisito, giudice competentissimo, nel suo Essai sur les Moeurs, ec. (Cap. 21) scrive: «... il y a de la verité, du naturel et du bon comique dans les Comédies de l’Arioste; et la seule Mandragore de Maehiavel vaut mieux que tonte les piece d’Aristophane;» e nelle Lettres d’Amabeb (Lettera 16"), parlando delle rappresentazioni sceniche che si davano alla corte del pagano Pontefice Leone e, più specialmente, di quella della Mandragola, dopo aver accennato alla soverchia licenza della commedia stessa, soggiunge che essa scandalizzava gli spettatori, ma che «la comèdie est si jolie que le plaisir l’a emporté sur le scandaale. (Voltaire, Oeuvres complets, Paris, Firmili Didot, 1870).»
Il Rover, dal canto suo, (Histoire universelle du Thèàtre par Alphonse Royer Paris, A. Franck, 1869) nel § 4° del Cap. XVI, vol. II, non ostante qualche lieve inesattezza in cui egli cade, attribuendo un discorso di Callimaco a Fra Timoteo, reca un giudizio assennato e amoroso intorno a! Machiavelli commediografo e afferma che i tre caratteri di Nicia, di Fra Timoteo e di Lucrezia sono «toutes trois traitècs de main de maitre, ammira la nettetè et la pr’écision avec lesquelles sont dessinés les caractères» e dice che «ce ne sont pas là personnages de convention, mais des portraits vivents.»
Il buon Tiraboschi (Storia della Letteratura Italiana, III, 63) ammira troppo il Granchio attribuito, a quell’uggioso e iroso pedante che fu Leonardo Salviati e troppo loda la Calandra del Cardinal Bibbiena per poter applaudire nelle commedie del Machiavelli qualche cosa oltre la purità della lingua.
Il dottissimo Gravina (Ragione Poetica, Venezia, tipografia di Alvisopoli, 1829, lib. II, cap. 21), benché vi accenni di sfuggita, loda le commedie del segretario Fiorentino.
Perfino il Crescimbeni, quantunque cosi parziale e, sovente, così privo di discernimento nei suoi giudizi, loda non poco (Commentari di G. M. Crescimbeni alla sua storia della volgar poesia, Roma, per Antonio Rossi, 1702), nel Lib. IV, Cap. 6° la Mandragola del Machiavelli.
Il Napoli Signorelli (Storia critica dei Teatri antichi e moderni, Napoli, V. Orsino, 1813, voi. V, Cap. 4°) si palesa ammiratore caldissimo della Mandragola
L’Algarotti (Opere, Cremona, per Lorenzo Manini, 1783, vol. IX, Lettere, pagina 13) trova, nella Mandragola, «l’eleganza del dire di Terenzio e la forza comica di Plauto» e scommetterebbe che quella commedia avrebbe mosso a riso lo stesso Orazio «cui non garbeggiavano gran fatto i sali plautini.»
Benedetto Gerolamo Feido, un erudito spagnolo, nel suo Teatro critico universale, ossia ragionamenti in ogni genere di materia per disinganno degli errori comuni, traduzione dell’Abate Antonio Eligio Martinez, Genova, G. B. Ferrando, 1779, nel voi. V, Ragionamento 3°, intitolato il Machiavellismo degli Antichi, pieno di inesattezze per ciò che riguarda la vita e le azioni del Machiavelli, mentre difende in parte questo dalle accuse mosse alle dottrine politiche da lui professate, trova l’autore del Principe fornito di un più che mediocre ingegno, lo acclama poi poeta eccellentissimo e loda la Mandragola che, non si sa perchè, afferma composta sul gusto dei poeti greci.
Il Maffei (Storia della Letteratura Italiana di Giuseppe Maffei, Firenze. Le Monnier, 1853), scrive: «quell’altissimo ingegno del Machiavelli, avendo considerato le intime potenze ed i più occulti vincoli dell’ordine sociale, aguzzò l’occhio anche al vizio ed al ridicolo che in tante guise trasmutano l’aspetto della società e si dilettò di presentarne l’immagine nelle sue commedie, il cui intrigo è condotto con molto artificio, gl’incontri son nuovi e comici, schietto il dialogo, caldo e spedito, e veri i caratteri.»
Il Bettinelli in quel suo affannoso e fiacco Risorgimento d’Italia negli studi, nelle arti e nei costumi dopo il mille, nel decimo dei 24 volumi, onde si compone l’edizione delle sue Opere edite ed inedite, Venezia, 1779, presso Adolfo Cesare, al capitolo VI, intitolato Feste e Spettacoli, in una nota a pie’ della pagina 31, scrive che «ben è curioso legger le lodi date a queste commedie (la Mandragola e la Clizia) come se fosser l’ottime del teatro italiano, essendo in vero lor primo merito lo stile fiorentino colle più licenziose e triviali profanazioni del costume onesto.» E questo è tutto ciò che il Gesuita, detrattore del Divino Dante, ha inteso ed ammirato nelle commedie del Machiavelli. Non si può proprio negare che la critica tabaccosa del pedante mantovano fosse fondata sopra un acuto discernimento e sopra un gusto estetico squisito!
L’Ambrosoli (Manuale della Letteratura Italiana, Firenze, G. Barbèra, 1875) nel volume II, pagina 23, celebra per l’arte e per lo stile le commedie del Machiavelli, senza dar però la preferenza alla Mandragola.
La Franceschi Ferrucci (I Primi quattro secoli della Letteratura Italiana dal XIII al XVI, Firenze, Barbèra, Bianchi e C., 1858) dice che «le commedie del Cecchi, dell’Ariosto, del Bibbiena, del Lasca e del Machiavelli sono, in tutto o in alcune parti, pallide copie di Plauto e di Terenzio,» e non fa la menoma distinzione fra il Machiavelli e gli altri, il che dimostra che la savia gentildonna, la Mandragola o non l’aveva letta o non l’aveva capita. E forse questo giudizio, così poco assennato e cosi poco conforme al vero, intorno ai comici del cinquecento, fu ispirato alla valorosa letterata dallo sdegno che quegli scostumati autori le inspirano per non averle ritratto un certo cotal tipo di donna dabbene, cristiana, massaia, da lei vagheggiato e che avrebbe dovuto rappresentare la donna del cinquecento, quale alla signora Franceschi Ferrucci è piaciuto di figurarsela e immaginarsela, e quale, effettivamente, però non si offerse agli sguardi del Machiavelli, del Dovizi e dell’Aretino. Cosi la signora Franceschi Ferrucci scomunica fieramente i comici di quel tempo perchè e’ furono «licenziosi ed osceni nelle immagini, nelle parole, nelle invenzioni.»
Gran peccato che la signora Franceschi Ferrucci non fosse nata tre secoli prima! Ella avrebbe potuto insegnare al Machiavelli quale fosse precisamente il tipo di donna che egli avrebbe dovuto ritrarre nelle sue commedie e il Segretario Fiorentino avrebbe potuto, probabilmente, soddisfare i desideri di lei e meritarne le lodi.
Il Canello nella sua Storia della Letteratura Italiana nel secolo XIV (Milano, Francesco Vallardi, 1880) nel capitolo IX, § 3° afferma che la Mandragola è una «fina commedia satirica» in cui le premesse sono storiche e le conseguenze tali quali da quelle premesse legittimamente dovevano derivare.
Il chiaro prof. Mestica (Istituzioni di Letteratura, Firenze, Le Monnier, 1876) al capitolo 28 acutamente osserva che la «Mandragola fondata sulla massima che la vita non è un giuoco del caso o del destino, ma quale se la forma ciascuno con la sua mente e col suo libero arbitrio, pel contrasto delle passioni, la verità dei caratteri e la bontà dell’intreccio c dello stile, può dirsi la più bella di quelle del Cinquecento e in tutto esemplare, se non fosse deturpata, come le altre di quel secolo, dalla solita licenziosità.»
Il dotto e valoroso critico Alessandro D’Ancona (Origini del Teatro Italiano, Firenze, Successori Le Monnier, 1877) nel capitolo XL, vol. II, afferma che il «Male chiavelli per la Mandragola è degno di starsi terzo fra Aristofane e Molière.»
Il Massarani (Saggi critici, Firenze, Successori Le Monnier, 1884) nel § VIII del suo bellissimo studio sul Camerini scrive che «nella commedia del Cinquecento stampò un’orma profonda e meglio incisa di tutti il Machiavelli, il quale, strapotente osò anche nel brutto la commedia umana.»
A più riprese accenna, con ammirazione, alla Mandragola l’illustre Carducci nel suo Svolgimento della Letteratura Nazionale; anzi nel § 5° del discorso V, con pensiero acutissimo, osserva che il Machiavelli e l’Ariosto, quei due colossi del Cinquecento dei quali egli, con novità e profondità ammirevole di concetti ha già parlato nei paragrafi precedenti, da due parti opposte venivano a riscontrarsi «e a toccarsi nella commedia; e il fatto di uno storico e di un epico commediografi dà ragione, più assai che ogni lungo discorrere, di quel secolo e di quella letteratura.» osservazione che, molto più ristrettamente e soltanto per ciò che riguarda il Machiavelli, era stata fatta dal Ginguenè (opera citata) allorché notò che «de tous Ics contrastes qui existe quelquefois entre les diverses productions des grands hommes le plus extraordinaire est peut-òtre celiti que forme, avec les discours sur Tifo Live, aree Vllistoire de Florence et avec le livre du Prince, la comedie de la Mandragore.»
Il Corniani (Secoli della Letteratura Italiana, Milano, Ferrano, 1832, Ep. IV, Art. 3°) leva a cielo, come opera perfetta, la Mandragola .
Il Riccoboni (Histoire du Théâtre italien depuis la décadence de la comédie latine, Paris, André Cailleaux, 1730, pagina 145) trova originale la Mandragola «et toute d’invention de l’auteur» e afferma che quella «c’est une des bonnes comédies, que nous avons, mais il ne voudrait pas dire qu’elle fut la meilleure.»
Il Cantù (Storia della Letteratura Italiana, Firenze, Le Monnier, 1865), dopo aver detto, al capitolo IX, che il Machiavelli «dettò sconcie commedie» soggiunge più sotto, parlando delle commedie dell’Aretino, del Bibbiena, del Machiavelli «. . . . . immorali, oscene, micidiali composizioni: ma che importa? erano belle e bastava, l’immaginazione ne era ricreata, abbagliata la ragione, ecc.» Pur tuttavia nel Cap. XVI trova nella Mandragola «caratteri felici, giusta distribuzione di accidenti, sali graziosi, ecc.»
Il Quadrio, Della Storia e della Ragione di ogni poesia, Milano, F. Agnelli, 1744, nel lib. II, dist. 1° capo 3° particella 4ª (!!!) non può negare, e si scorge che lo fa a malincuore, che la Mandragola fosse tutta d’invenzione dell’autore, ma nega ciò che uno «egli non sa più quale scrittore, per altro di merito,» aveva affermato essere cioè «la Mandragola unica commedia e ’l pezzo migliore che abbiano gl’italiani,» e asserisce che «quel messere non dovette averne vedute altre molte, perchè molte altre sono che contendono a questa il posto.» E quali mai?!..
L’Andres, Dell’origine, progressi e stato attuale d’ogni letteratura, Parma, Stamperia Reale, 1785, più discreto del Quadrio, pur mostrandosi poco amico del teatro comico del cinquecento, nel tomo II della parte I, lib. II, capit. 4° (!!) ammette che «fra le commedie di quell’età meritano il primo luogo la Mandragola e la Clizia, le quali hanno un dialogo più animato, mostrano più moto e più spirito nell’andamento, e si nello stile che nell’invenzione e nella condotta sono assai più comiche delle altre,» quantunque poi dica che anche queste peccano di lentezza e di languore per la imitazione dei complimenti, delle frasi, delle espressioni dei comici latini...». (Nella Mandragola??!!) Oh uh potta di S. Puccio, mi sentirei tentato di esclamare col sommo Machiavelli. Si scommetterebbe quasi che il buon abate non l’avesse letta la Mandragola!
Il Colombo invece, uomo di squisito gusto, nella sua Lettera sulla lingua del trecento, (Opere di Michele Colombo, vol. 146, della Biblioteca scelta pubblicata m Milano per Gio. Silvestri, 1842) dopo aver lodata la Clizia, esclama: «e non è gran peccato che sia empia ed immorale la Mandragola, la quale supera forse tutte le commedie or mentovate (quelle del cinquecento) nella grazia del dire?»
Salvatore Betti, erudito di molta dottrina e letterato di sagace discernimento, Scritti vari di S. Betti, Firenze, Emilio Torelli, 1856) nella lettera I al barone Alberto Nota, pagina 123, afferma «potentissimo l’ingegno del Machiavelli, che di centocinquanta anni prevenne il Molière nel dar l’ultima perfezione alla commedia con la Mandragola.»
L’Artaud, Machiavel, son génie et ses erreurs, par A. Artaud, Paris, Firmin-Didot, frères, 1833, nei capitoli XXIV, XXXI e XLIX, esaminando la Mandragola e l’opera di commediografo del Machiavelli, si associa al giudizio del grande Voltaire, e, a proposito della commedia in prosa senza titolo, rigettata l’opinione di coloro che la vogliono intitolata Frate Alberigo, osserva che in questo tipo di Frate «ne serait pas difficile d’y trouver des indications du caractère de Tartufo.» E più sotto esclama: «Où Machiavel avait-il trouvé ces secrets de l’entente de la scène, si justifié, et l’on peut dire, si savant?»
E soggiunge che «il faut reconnaître ici Machiavel comme inventeur,» e, dopo avere col Macaulay convenuto che il Fiorentino è superiore al Goldoni e inferiore soltanto al Molière, riflette che «cependant Machiavel dans ses dénouements, a surpassé quelquefois Molière,» e conclude: «il était donc réservé a ce génie si féconde, de n’être jamais médiocre dans ses compositions, même les moins analogues à ses études habituelles.»
E, a ragione, lo stesso scrittore ammira la spontaneità della vena e la forza comica del Machiavelli a proposito anche delle sue poesie e della squisitissima sua novella di Belfagor, la quale, sia detto di passaggio, degua di stare al paragone con le più belle del Boccaccio, fu tradotta in francese dal Le Fevre, e stampata in Saumur nel 1G64 in 12° e poscia imitata dall’elegantissimo e finissimo La Fontaine.
Il Lessing, Opere complete, Berlino, Gosche Riccardo, 1875, nella sua Raccolta di Lettere intorno alla letteratura moderna, lettera 322ª, vol. IV, pag. 638, riferendosi ad un giudizio del Meinhard nei suoi Saggi sull’indole e sulle opere dei migliori poeti italiani, afferma che il Machiavelli produsse un «paio di commedie nelle quali il sapore del Molière va unito con l’humor e con la forza comica degli inglesi.»
Il Lerminier invece (Philosophie du droit, par L. Lerminier, Paris, 1851) un messere che non ha grandi tenerezze per gl’italiani, a causa della tenenezza ancora minore che egli professa pei romani, loro antenati, nel tomo II, pag. 86, infuria maledettamente contro il Machiavelli perchè rallegrò Firenze con la sua Mandragola, quasi a coronare, con un grande scoppio di risa, la sua opera perniciosa di storico e di pensatore. Meno male che biasimando il Machiavelli riconosce che la sua è una colpevole gaiezza cui si abbandonano talvolta gli spiriti superiori!!
L’Hallam (Henry Hallam, Inlroduction to thè Literature of Europe, Paris, Baudray’s Eurepean Library, 1859) loda molto la Clizia e trova nella Mandragola i caratteri del capolavoro affermando che «it is admirable for its comic delineations of character, the management of thè plot, and the liveliness of its idiomatic dialogue....» insomma ammirevole e vigorosa la delineazione dei caratteri, la condotta dell’intreccio, la leggiadria della lingua, la finezza del dialogo.
Il Rathery (Influence de l’Italie sur les Lettres françaises, Paris, Firmin Didot) rammenta la Mandragola unicamente perchè «imitée par La Fontaine sous une autre forme» e perchè «il y a des traits qui étonnent pour une pièce jouée devant le Pape.» Soltanto?.„
Il Loise, dal canto suo, nell’opera citata, nel Livre II, 3e section, chapitre 4°, esclama, a proposito della Mandragola: «C’est Tacite et Terence dans un seul homme! Et quelle vene comique! Quel feu roulant de plaisenteries! Quelle peinture de caractères! Quelle habilité de mécanisme!» E, piangendo egli pure sulla depravazione della commedia, aggiunge che «Timothée est le cousin germain de Tartufe.»
Il Ruth nell’opera citata, libro II, parte 3ª, capitolo 2°, paragrafo 2°, parla a lungo della Mandragola con acutezza di osservazioni e larghezza di intendimenti critici ed estetici.
Egli pure, che ha scritto l’opera sua tanti anni prima che il De Amicis dettasse la sua tesi alla Scuola Normale di Pisa, L’imitazione classica nella Commedia italiana del XVI secolo, da me di sopra citata, egli pure, proprio come il De Amicis, opina che Fra Timoteo, a differenza del Frate Alberigo dello stesso Machiavelli e di altri Frati della commedia del cinquecento, non rappresenti una persona o una individualità, ma «i Frati tutti di quell’epoca e forse di tutti i tempi.» Anche il Ruth, come il De Amicis, osserva che Fra Timoteo «non è dei Frati il peggiore, che non è nè ipocrita, nè intrigante» e che esso, in buona fede, «non ha in mira altro guadagno che l’utile del suo convento, pel cui bene unicamente lavora.»
Ed è il Ruth che, primo, per quanto io mi sappia, ha sottilmente osservato che «si può essere quasi indotti a credere che il poeta nel ritratto del Dottor Nicia sia stato guidato inconsciamente dall’amaro ricordo della sorte del suo paese,» e che quindi nel Nicia sia simboleggiata la grassa, neghittosa e ridicola borghesia fiorentina dì quella età.
Il critico tedesco, del rimanente, si mostra egli pure caldo ammiratore della Mandragola che egli chiama ripetutamente «sublime e la sola che possa reggere nella Storia del Teatro italiano, per la finezza della satira, pei vivaci caratteri e per la efficacia della tinta comica;» e fra i caratteri il Ruth loda caldamente il Dottor Nicia, Fra Timoteo, e, in special modo, il parassita Ligurio.
Il Bougeault (Histoire des Littératures Étrangères, Paris, E. Plon et C., 1876) a proposito del Machiavelli, scrive: «on voit que cet esprit actif et fécond portait dans tous les genres la supériorité d’une conception hardie; a la suite de Plaute, de Terence, et d’Aristophane, il se montra originai jusque dans la comédie et on l’en louerait davantage s’il n’avait sacrifié au goût du temps en y servant des tableaux et des avventures qui offensent, les moeurs.»
Il Taine, nelle sue stupende lezioni sulla Philosophie de l’Art, Paris, Hachette et C., 1881, colloca esso pure la Mandragola prima fra le migliori commedie del cinquecento.
Vito Fornari (Dell’arte del dire, Napoli, R. Marghieri, 1881) nel libro III, paragrafo 33, riconosce principi nella commedia moderna il Molière e il Goldoni, e afferma che «Niccolò Machiavelli forse fu il primo che tentò non infelicemente questa via.» E gli sian rese grazie della benignità di quel non infelicemente.
Ippolito Amicarelli, nelle sue lezioni Della lingua e dello stile italiano, Napoli, Leitemtz, 1870, nejla parte I, dice che, tra le opere letterarie del Machiavelli, «le due commedie la Mandragola e la Clizia e la novella di Belfagor sono cose in lor genere eccellentissime,»
Il Ranalli (Ammaestramenti di letteratura, Firenze, Le Monnier, 1858) da quel critico gretto, minuto, tutto circoscritto piccinino che egli è, tutto intento all’uso delle parole e nella miserevole sfera delle regole pedantesche c dei relativi esempli, nella parte II, libro IV, capitolo III, articolo 2° (che peccato che non ci sia possibilità di una più minuziosa partizione!) nell’oscenissima Mandragola non ammira che la lingua!!! E il contenuto? - O che cosa è mai il contenuto!- Per maestri come il Ranalli la parola è tutto, l’idea è nulla! K pure, anche sotto il riguardo dell’intreccio, della condotta, dei caratteri, della vis comica, le commedie dovrebbero essere considerate in un Trattato di letteratura!
L’egregio professor Guerzoni (Il Teatro italiano nel secolo XVIII, Milano, Fratelli Treves, 1876) afferma risolutamente che la Mandragola è la più originale delle commedie del cinquecento, ma crede anche che sia la più oscena, e, ad ogni modo, non si mostra pienamente persuaso che essa e le altre commedie di quella età, riproducano compiutamente la società del XVI secolo.
E pare che le bellezze della Mandragola abbiano ottenuto una certa indulgenza perfino dal Tommaseo, critico di gusto squisito, quando il suo intelletto non è ottenebrato dalle passioni del clericale fervente ed appassionato, poichè nello scritto Delle presenti condizioni d’Italia (nell’Appendice al Dizionario Estetico, Firenze, Successori Le Monnier, 1867) trova delle attenuanti alle offese recate alla morale e al pudore dal Machiavelli nella commedia di Fra Timoteo e di Messer Nicia.
Il dotto e acutissimo Giuseppe Ferrari (Corso sugli scrittori politici italiani, Milano, F. Manini, 1862) nella Lezione XI loda il Machiavelli come «degno di essere paragonato al Boccaccio,» quale «autore di commedie spiritosissime, di scherzi poetici e di ghiribizzi...» meriti che non impediscono all’illustre filosofo lombardo di trattare spesso assai poco gentilmente il Machiavelli politico, storico e pensatore.
Il Galanti (Carlo Goldoni e Venezia nel secolo XVIII, Padova, Fratelli Salmin, 1882) non sembra, nel capitolo III, disposto ad associarsi a tutto l'entusiasmo del Macaulay riguardo alla Mandragola, quantunque egli pure convenga che questa commedia è un capolavoro; ma egli crede che, come in tutte le commedie del cinquecento, anche in quella del Machiavelli manchino molte cose, ad esempio, la verità dell’azione. Però il Galanti riconosce che la Mandragola è commedia di carattere, onde esso è tratto all’entusiasmo dalla figura di Fra Timoteo, nel quale egli riconosce l’impronta dell’ipocrita. A lui, per altro, pare che la Cortigiana dell’Aretino possa contendere il primato alla Mandragola fra le commedie del cinquecento, e crede che nell’ Ipocrito del vigliacco scrittore di Arezzo s'abbiano a ricercare le origini di Tartufo.
L’illustre De Gubernatis (Storia dal Teatro Drammatico, nella storia universale della Letteratura, Milano, U. Hoepli, 1883) nella parte IV, capitolo 1° (Teatro italiano) favella a lungo della Mandragola, e ammette che essa sia, in grazia «della sua gran disinvoltura» una delle più belle commedie del cinquecento, ma al giudizio del Macaulay e del D’Ancona e degli altri che affermano essere essa la più bella di quell’epoca egli non sembra di potersi per verun conto acconciare.
Il dottissimo uomo, anzi, raffrontando due frammenti della Mandragorizsomene, ossia Mandragoreggiata, e cioè la Donna a cui fu data la mandragora, commedia greca di Alessi da Thurio con due passi della Mandragola del Machiavelli, e vale dire con lo sdottoreggiare di Callimaco allorché si finge medico nel suo primo incontro con Messer Nicia e col soliloquio di Callimaco stesso nell’atto IV, entra in sospetto che il sommo fiorentino, pur non conoscendo la lingua greca, possa avere avuto da qualche suo amico contezza dei detti frammenti della commedia di Alessi, e che quindi da questa egli abbia tratto la idea genetica della sua: sospetto che è rigettato addirittura dal Villari, il quale si basa principalmente sul fatto che al Machiavelli non era nota la lingua greca. Ma noi modestamente faremo osservare al dotto orientalista il quale, primo, con le sue accurate e pazienti ricerche, ha trovato questa analogia fra i due passi di Alessi e i due del Machiavelli, che i frammenti del commediografo di Thurio sono così scarsi e insufficienti da non poterci dare neppure una incerta notizia dei caratteri e dell’ intreccio della commedia greca ; per cui, anche nella ipotesi che il Machiavelli avesse avuto contezza di quei frammenti, non avrebbe in quelli potuto pescare altro che il titolo della commedia e appena un baleno di luce sulla probabile azione del componimento di Alessi e, forse, e sempre nella peggiore ipotesi, quei pensieri dal De Gubernatis notati. Se i lievi indizi derivanti da queste analogie rilevate dal De Gubernatis bastassero a giustificare il sospetto di lui, si potrebbe dire egualmente e, con altrettanta tenue probabilità di esser nel vero, che il Machiavelli non soltanto ha imitato Alessi, ma anche Saffo. Di fatti mettiamo la Iª delle odi rimasteci intere della lasciva poetessa di Mitilene a fronte del monologo di Callimaco (scena Iª dell'atto IV della Mandragola) e vediamo quali singolari rassomiglianze fra il modo di sentire c di manifestare i fenomeni dell’erotismo, tanto per parte di Saffo quanto per parte di Callimaco ne scaturiscano fuori.SAFFO. CALLIMACO. Che se l’alta ventura unqua mi tocca
D’esserti appresso, o mio soave amore,
Non io ti guardo ancor, che sulla bocca
La voce muore.
Si fa inerte la lingua, il pensier tardo,
Un sottil fuoco va di vena in vena,
Fischian gli orecchi, mi si appanna il guardo
E veggo appena.
Un gelido sudor tutta m’ inonda,
Ma trema il cor, rabbrivida ogni membro;
Mancami il fiato, e pallida qual fronda
Morta rassembro..... E così mi fo buon cuore; ma io ci sto poco su: perchè da ogni parte mi assalta tanto desìo di essere una volta con costei, che io mi sento dalle piante dei pie’ al capo tutto alterare : le gambe tremano, le viscere si commuovono, il cuore mi si sbarba dal petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli occhi abbarbagliano, il cervello mi gira. Eppure v’è maggior somiglianza qui che non ve ne sia nei luoghi di Alessi e del Machiavelli raffrontati dal De Gubernatis. E vorremmo e potremmo per questo dire che il segretario fiorentino ha imitato la poetessa quale di Lesbo, gli scritti della quale v’ha novantanove probabilità su cento che egli non conoscesse punto?.... Io questo non dirò sicuramente: ma dirò che, date certe situazioni e certi punti di partenza, si debbano di necessità verificare certe analogie di pensiero e di espressione e certe rassomiglianze nei punti di arrivo.
D’altra parte, oltre alla quasi nessuna probabilità e verosimiglianza che qualcuno possa aver messo sull’avviso il Machiavelli circa l’esistenza dei frammenti di Alessi e che il segretario fiorentino abbia potuto trarne e ne abbia tratto un profitto qualsiasi - il quale, quand’anche esistesse, non potrebbe essere che assai meschino ed inconcludente, e nulla potrebbe detrarre e detrarrebbe alla originalità della commedia machiavelliana - resta sempre il fatto affermato dal Machiavelli e apertamente confermato dal Giovio essere il caso, che è soggetta della Mandragola, avvenuto in Firenze, e lo storico comasco anzi aggiunge che i protagonisti del ridicolo avvenimento eran conosciuti da tutti, e che essi stessi, assistendo alla rappresentazione della commedia, in cui era ritratta la loro strana avventura, ne avevan riso pei primi.
Quanto al titolo di Mandragola dato alla commedia, già il chiaro e valoroso amico mio avvocato Oreste Tommasini nel I volume della dotta e pregevole sua opera: La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli (Torino, E. Loescher, 1883) nella quale non ha ancora parlato delle opere drammatiche del segretario fiorentino, di cui, evidentemente, per l’ordine cronologico da lui seguito, tratterà nel II volume, atteso con grande impazienza dai cultori dei buoni studi - già, nel capitolo 6° del libro II del volume pubblicato, a pag. 503, accenna chiaramente alla probabile origine di quel titolo, derivato, forse, dal fatto che il Machiavelli fu in Francia affetto della malattia detta coqueluche, contro la quale si faceva dai volghi grande uso di mandragore. Cosicché anche per questa parte il sospetto nato nell’animo del chiarissimo De Gubernatis verrebbe eliminato.
Il La Harpe (Cours de Littirature ancienne et moderne, Paris, Firmin-Didot. Frères, 1861) nella introduzione al libro I della parte II, parlando del Machiavelli scrive che «.... il appartient à l'epoque dont je parlais, par sa comédie de la Mandragore, qui de son temps, eut un grand succès et dont nous avons une imitations dans les ouvres de J. B. Rousseau. Tout imperfaìte qu’est pour nous cette pieces, elle donna la première idée de l'intrigue et du dialogue comique, comme la Sophonisbe du Trissin fut la première tragedie composte d’après les règles d’Aristote. Mais ces essais, quique dignes d’estime, furent alors des semences stériles, et la poésie dramatique resta dans son enfance chez ces mêmes italiens, qui dans les autres arts, étaient les précepteurs des Nations.»
Il qual giudizio, se potrà sembrare soverchiamente rigido, e, per quanto riguarda la Mandragola, anche ingiusto, come quello che sembra dettato dal La Harpe senza che egli abbia letto o almeno, senza che egli abbia capito la commedia del Machiavelli, apparirà immensamente laudativo a chi rammenti in qual guisa lo stesso professore, altrettanto indotto quanto presuntuoso e oltracotante, impellicciato nell’ampio vaio del più sfrontato chauvinisme, giudicasse dell’Alighieri e del Petrarca nella introduzione alla I parte del medesimo Corso di letteratura antica e moderna:
«Ces deux hommes» egli sentenzia burbanzosamente «furent le Dante et Pétrarque; l’un, dans un poëme d’ailleurs moustreux (!!!) et rempli d’extravagances et qne la manie paradoxale de notre. siècle a pii seule justifier et priconiser, a rc«pandu ime foule des beautès des style et d’espressions, qui dévaient étre vivement senties par ses compatriotes, et mème quelques morceaux assez généralment beaux pour ètre admirés par toutes les nations; l’autre né, peut-étre, avec moina de génie, avis avec plus de gout, a en le dèfaut, il est vrai, de faire de l’amour un jeu d’esprit presque continuel: mais ces esprit a quelquefois (!!!) saisi le langage du sentimant, surtont dans ses odes appellies Canzoni et meme a su, dans sajets plus relevìe, tirer de sa lyre quelques sons assez nobles et assez fermes pour nous rappeler ce le d’Orace (!!!). Son plus grand mérite est dans ime eligance qui lui est particulière, et. qui l’a mis au rang des classiques de son pays»
Nei quali giudizi di questo protoquamquam della letteratura francese, che tuttora gode di un certo credito e di una certa fama nel suo paese, è difficile giudicare se maggiore sia la generosità o maggiore il discernimento.
Quando penso, difatti, alla benigna degnazione per la quale M. La Harpe accorda il suo compatimento al divino poeta, non ostante le mostruosità e lo stravaganze di cui ribocca il poema, in grazia di quei quelques morceaux assez généralmènt beaux!.... io mi sento intenerire tanto quanto mi sento sdilinquire al pensiero della grande e meravigliosa scoperta fatta dall’autore dell’obliato Timoleone e del sotterrato Filottete di una intima ed immediata affinità fra Orazio Flacco e Francesco Petrarca!...
Che serve?... Si può dire tutto ciò che si vuole... ma, già, è inutile infingersi... le son cose che strappan le lacrime!...
Lorenzo Pignotti (Storia della Toscana sino al Principato con diversi Saggi sulle Scienze, Lettere ed Arti, Firenze, Ducei, 1826) nel volume II, saggio IV, pagina 153, loda assai assai le commedie del nostro autore, ed aggiunge: «E veramente uno dei più gran scrittori di teatrali rappresentanze, il Voltaire, giunse ad asserire essere più stimabile la Mandragola di Machiavelli di tutte le commedie di Aristofane, giudizio che quantunque per la venerazione verso i Greci troverà assai contradditori, non lascia però di avere gran peso.»
Il Salfi (Saggio storico-critico della Commedia Italiana, Parigi, Baudry, 1820) loda altamente la Mandragola, e senza asserire decisamente che essa sia superiore al Tartufo, afferma e dimostra come il Fra Timoteo del Machiavelli sia più comico, più speciale e più efficace dell’ipocrita dipinto dal sommo Molière.
Il Montani (nel suo esame critico sulle Opere complete di Nicolò Machiavelli, inserito nell’Antologia del Viesseux, vol. XLVI-XLVII della collezione, fascicoli dell’aprile e del luglio 1832) loda, con grande calore, tutte le commedie del Machiavelli e più specialmente la Mandragola nella quale «scovre copiosissima la vena poetica dello scrittore.»
Philarete Chasles (L’Aretin, sa vie et ses ceuvres, nella Revue des deux mondes, del 1834, troisième sèrie) mentre si mostra ammiratore ardente dell’Aretino, più assai che questi non meriti, crede, erroneamente, che esso «a fait plus vivement que l’Ariost, et mime que Machiavel, la comédie aristophanique.»
Nella Bibliotèque Universelle de Genève (4me sèrie, 1er annèe, tom. ler, pag. 116 e seg.) v’ha uno studio, tolto dalla New Quarterly Review, intitolato: Carlo Goldoni et la reforme de la Comèdie italienne, in cui si legge: «L’Italie n’est pas riche en drames de quelque mérite; ce genre a éte cultivé avec plus d1 abondance, que de talent. De six mille pièces de théàtre énumerées par Riccoboni, à peice y en a-t-il une douzaine de premier ordrc. Les meilleurs tragédics d’Alfieri, laMandragola de Machiavelli, la Calandra de Bibiena, les Suppositi de l’Arioste et le Burbero magnifico (voleva dire benefico) de Goldoni, sont les seules drames italiens, venue à notre connaisance, que nous puissions considèrer comme des oeuvrages de premier ordre.»
Sentenza che se è ingiusta pel teatro italiano in genere, e pel Goldoni e pel Giraud in specie, è lusinghiera non soltanto, ma giusta ed esatta per ciò che spetta al Machiavelli.
Luigi Cuccetti, nella sua Storia del Teatro Italiano, inserita nella Biblioteca Drammatica Italiana, Milano, P. M. Visai, 1829, nel libro I, capitolo 9, § 3, esalta con la più sincera espansione le commedie del Machiavelli e in ispecie la Mandragola e pel dialogo e per i caratteri e per la condotta e acutamente osserva che l’argomento della commedia sembrerebbe quasi inverosimile se non fosse «condotto sì maestrevolmente, che punto non ci raffredda per l’apparente incoerenza; tanta ò la qualità e verità della debolezza e della colpa che compariscono nella commedia e preparano quell’eccesso.»
Luigi Carrer (Notizie su la Commedia italiana avanti Carlo Goldoni, Venezia, Tasso, 1824-25, parla a lungo e a più riprese intorno al Machiavelli autore comico, e nelle sue parole si potrebbero notare curiose disuguaglianze. Ora al «Machiavelli, meglio che a Ludovico Ariosto sembra convenirsi lode di sommo poeta comico, se badiamo» così il leggiadro poeta veneziano «alle scritture dei critici; ora ottime tra quelle del teatro antico egli stima si debban riputare le commedie del Machiavelli; ora trova inverosimile quello scioccone di Messer Micia e «non sa come tanto si ridesse a quei tempi di siffatte invenzioni;» ora poi non trova alcuno fra gli autori comici italiani «da poter paragonare ad Aristofane ed a Molière.» Egli poi scambia Gian Jacopo Rousseau con Gian Battista Rosseau, ritenendo, erroneamente, il primo e non il secondo per traduttore della Mandragola.
Nell’insieme però il Carrer concorda con tutti coloro, che considerano la Mandragola come la migliore fra le commedie italiane del cinquecento.
Frédéric Mercey (Le Théâtre en Italie, nella Revue des deux mondes del 1840) dando sulla voce al Voltaire, che egli chiama flatteur per le lodi sperticate tributate al Goldoni, da lui trovato «plein de verve mais grossier» ne conferma il giudizio per quanto riguarda la Mandragola e, con soverchia inesattezza e inqualificabile ingiustizia verso il Goldoni stesso, assevera che la «Mandragore de Machiavel est toujours la seule (!!!) comédie vraiment digne de ce nom qu’ait produit l’Italie...» quantunque soggiunga che essa è «une comédie peut-étre un peu triste.»
Il Mundt (Machiavelli und der Gang der europäischen Politik, von Theodor Mundt, Leipzig, Dyksche Buchhandlung, 1853) dopo aver chiamato celebre la Mandragola, afferma nel capitolo 13 che questa commedia «scritta contemporaneamente al Principe, forma in un certo modo un supplemento sociale al trattato politico del Principe,» e serve, secondo il dotto scrittore tedesco «a mostrarci compiutamente le condizioni in cui si trovava l’animo del Machiavelli a quel tempo.»
Pel Mundt il Fiorentino, primo fra i moderni commediografi, «ha raccolto in una commedia gli elementi della Tartuferia, rivelando risolutamente il marcio dello stato ecclesiastico.» Egli vede nel Machiavelli un continuatore del Boccaccio, il quale, nelle sue novelle, aveva, con piacevolezza d’umore, trattato lo stesso argomento, la corruzione della Chiesa. «Ma il Machiavelli - soggiunge il Mumdt - getta serie e grandi ombre sull’esistenza civile e sociale di quella età, mostrando gl’istrumenti e gli organi della Chiesa nella loro dissoluzione e nella più aperta contraddizione con le dottrine evangeliche nel Padre Timoteo, il quale, in questa commedia, riunisce le più basse furfanterie e le compie sotto il suggello dell’autorità chiesastica. Carte con cui viene presentato questo monaco è, anche sotto il rispetto drammatico, da maestro. Esso ci rappresenta, in un certo modo, una fisiologia della coscienza clericale, la quale non poteva essere dall’autore rilevata con maggiore mordacità.» Insomma nella Mandragola già si sentono le punture del pungiglione della riforma religiosa.
Il Tortoli, nel discorso che precede le Commedie e satire di Ludovico Ariosto, (Firenze, Barbèra) loda molto il Machiavelli, specialmente per i due caratteri di Fra Timoteo e di Frate Alberigo, quantunque poscia dica che in nessuna commedia di quel tempo si trova «un quadro compiuto della società, per formare il quale bisogna andar raccozzando i materiali sparsi qua e là,» mostrando così di non avere apprezzato al suo giusto valore tutta l’ampiezza di linee e la perfezione di disegno e di colorito di quel gran quadro che è la Mandragola.
Il Polidori (Opere minori di N. Machiavelli, rivedute sulle migliori edizioni con note filologiche e critiche di F. L. Polidori, Firenze, Le Monnier, 1852) nella prefazione qualifica di celebre e di stupenda la Mandragola, e ammira le attitudini comiche dell’immortale Segretario fiorentino.
Il Cereseto (Storia della Poesia Italiana di G. B. Cereseto, Milano, G Silvestri, 1857) nel volume II, lezione 35ª, dice del Machiavelli commediografo che «... se non avesse trattato la commedia come semplice ricreazione di più alti studi, non sarebbe riuscito secondo ad alcuno, tale è il suo ingegno comico, la maniera franca e disinvolta del suo pennello e la profonda conoscenza del cuore umano. Ma come è sovrano nel magisterio della lingua e dell’arte, specialmente nella Mandragola, altrettanto è lurido nelle dipinture.»
L’amico mio Ferdinando Martini, in un suo scritto giovanile (Dello stato passato e presente della Letteratura Drammatica in Italia, pubblicato nella Rivista contemporanea, anno IX, vol. XXVII dell’ottobre 1861), il quale sembra frutto di un senno maturo, tanto è pieno di profonde e acute osservazioni, così scriveva: «Chi vorrà, per esempio, tacciare di mera servilità la più grande, la più inventiva commedia del cinquecento, la Mandragola del Machiavelli? Qui e azione e caratteri e forma e sostanza tutto è del tempo e tanto poco del tempo che sentì dal dialogo quasi scappar fuori il sogghigno della riforma religiosa. In una parola in tale comico componimento il Machiavelli non è meno acuto, nè meno profondo filosofo che nelle sue scritture storiche e politiche.»
L’Agresti (Studi sulla Commedia italiana del secolo XVI, Napoli, Stamperia della R. Università, 1871) imprese a sostenere, con corredo di amorose e pazienti ricerche, l’originalità della commedia italiana del cinquecento, dando alle stampe questo studio diretto ad un fine completamente opposto a quello propostosi dal De Amicis, il quale volle dimostrare invece l’imitazione della commedia classica negli autori del cinquecento.
Non entrerò io a sentenziare fra i due valorosi campioni: dirò che li credo ambedue, per soverchio desiderio di chiarir vera la respettiva tesi, sospinti da giudizi troppo preconcetti e quindi ambedue in parte lontani, in parte vicini al vero. L’uno e l’altro si sforzano di contorcere e di piegare gli autori comici del cinquecento alla dimostrazione del proprio assunto, spesso dando prova più di sottigliezza d’ingegno che di imparziale indagine della verità.
Ad ogni modo l’Agresti, per quanto citi qua e là, con una certa lode, il Machiavelli, non ha con lui buon sangue.... e, se bene ho capito, gl’intendimenti del critico napoletano, a causa del carattere di Fra Timoteo: non già perchè egli lo trovi brutto artisticamente, ma perchè moralmente lo trova brutto. L’Agresti si affanna a farci sapere che contemporaneo di Fra Timoteo fu Francesco di Paola.... e sembrerebbe, cosi, a occhio e croce, dalle sue parole che egli pretendesse quasi dal Machiavelli la creazione di un Fra Cristoforo anziché quella che al grande Fiorentino piacque di darci nel Fra Timoteo.
Di che sdegnato l’Agresti imprende a «infermare alquanto il giudizio fermato da dotti critici antichi e moderni sulla Mandragola» la quale egli vuol dimostrare non essere la «somma fra le commedie del cinquecento perchè non è la sola commedia i cui caratteri sian copiati dal vero, e non è la sola che sia libera e che «ponga a nudo l’impostura religiosa.»
Non è qui il luogo, nè questo il momento di ribattere quelle disgraziate pagine del libro dell’Agresti. Le argomentazioni sue sono cosi sofistiche, fiacche e slombate che davvero non vi sarebbe merito, neppure in un giovinetto appena licenziato dal Ginnasio, a buttarle giù di un soffio.
Una cosa sola dirò ed è questa che nessuno ha mai pensato di negare che altri parassiti, altri frati impostori, e altri mariti sciocchi sian stati immaginati da altri autori comici del cinquecento, ma i più hanno pensato e pensano che la differenza fra quella turba di parassiti, di impostori e di sciocchi e il Ligurio, il Timoteo e il Nicia, stia tutta nel modo diverso con cui gli uni e gli altri furono creati e svolti. Tutta la questione è di maestria e di abilità diversa nell’immaginare, delineare e tratteggiare quelle figure: onde le tre dipinte dal Machiavelli, come quelle che, in giusta misura, rispondono a tutti i concetti direttivi dell’arte, sono riuscite creazioni sinteticamente perfette e mirabili, e hanno eccelso sulle file del volgo e sono state elevate a tipo, mentre tutte le altre son rimaste, perchè mancanti di quella perfezione artistica, a formare precisamente il volgo servile e pecorile delle figure incolori, sbiadite, comuni c similissime fra se stesse.
E sembra fino impossibile che uno scrittore della dottrina e dell’acutezza dell’Agresti siasi lasciato sfuggire dalla penna una così meschina obiezione. Anche di pittori di madonne ve ne sono a migliaia nel cinquecento. K con questo?... Potremmo perciò togliere, seguendo il sistema dell’Agresti, l’originalità, l’eccellenza e lo splendore alle Madonne dipinte dal divino Urbinate? Vorremo gridar la croce addosso a tutti i critici d’arte che, dimenticando le Vergini dipinte dal volgo degli imbratta-tele, ammirarono, come tipi di perfezione artistica, quelle di Raffaello?...
Jules Zeller (Italie et Renaissance, Paris, Didier e C., 1883) nota come, anche nel suo riso cinico ed amaro, Machiavelli la vinca su tutti gli scrittori del cinquecento e, dopo avere brevemente esaminati i diversi scritti letterari e poetici del grande storico, aggiunge: «Enfin, inspirèe d’Aristophane, la Mandragore, recette «pratique pour susciter une postérité aux menages mal assortis, atteint le modèle pour la licence hardie et nous donne une idèe des mceurs et du langage de la société du temps.
«Sons tous ces déguisements, Machiavel est encore lui. On lui reprocherait à tort de ravaler son genie à ces balivernes. Il reparait souvent, au milieu de ses gaietès en apparence les plus risquèes, par des éclairs tonnants qui dcchirent les voiles et relevent cette société déclinante à elle-méme.»
Il Klein (Geschichte des italianischen Drama’s, Leipzig, T.O. Weigel, 18GG), consacra (pag. 414 e seg.) un lungo ed amoroso studio alla Mandragola del Machiavelli. Egli giudica la commedia del grande Fiorentino «tanto poco uno scherzo, frutto di ore d’ozio, che la mette a paro coi principali scritti politici dell’autore.»
Il Klein, dopo avere manifestata la sua entusiastica ammirazione pel Machiavelli segretario di Stato, al paragone del quale i segretari di Stato del presente «gli sembrano orecchiuti scrivani, degni appena di servire da sedili giranti al Machiavelli quando egli scriveva le sue opere immortali,» aggiunge: «Lo spirito, il sale attico, la forza comica della Mandragola potrebbero bastare a dodici uomini di Stato moderni, quando questi non preferissero addirittura di figurare sotto le maschere dei personaggi della commedia, non potendo assorgere all’altezza del genio che li ha evocati.»
E, passato all’esame dell’intreccio della Mandragola osserva, circa all’amore di Callimaco per Lucrezia che il «prodigio di un amore suscitato dalle sole lodi con le quali si esalta una donna lontana, rivela un amore molto più nobile e profondo di quello che fino a quel tempo avesse manifestato la commedia italiana» e aggiunge che «l’avere espresso comicamente un amore per sua natura fatale e tragico.... puro ed ingenuo costituisce forse il solo punto scandaloso di questo lavoro, così altamente e profondamente pensato.»
Proseguendo nel suo acuto esame critico, il dotto tedesco osserva che la Mandragola sarebbe irremissibilmente condannata per immorale «se lo scandalo scenico non si presentasse in pari tempo come scandalo chiesastico,» quindi egli continua: «Il primo non è che il riflesso del secondo; ed è un riflesso necessario, spontaneo della corruzione dei tempi e della Chiesa; lo scandalo non è lo sfogo personale del prudore impuro del poeta, ma è un veleno che schizza fuori naturalmente dagli avvenimenti; questa congiunzione di fenomeni nel ciclo storico eleva la commedia del Machiavelli ad alto significato provvidenziale e ne fa una commedia antesignana della Riforma.»
Quindi, istituito un parallelo fra l’alto scopo morale che domina nella Mandragola e nel Tartufo, e dopo aver riscontrato nella seconda di queste commedie il complemento della prima, giudica che l’opera dell’italiano superi, per comicità e per attrattiva drammatica, quella del francese.
In Fra Timoteo - pel Klein, alla stessa guisa che per parecchi dei eritici che lo precedettero nell’esame di questa commedia, come di sopra si è accennato - si personificano tutte le nequizie e le frodi e le ipocrisie dei consigli confessionali e delle suggestioni e sottigliezze di coscienze» di tutta la Chiesa cattolica a quei dì. Per il Klein in Fra Timoteo si identifica Leone X, che assiste, ridendo sgangheratamente, alla vista di quel tipo che è il suo stesso ritratto a proporzioni ridotte. Onde il Machiavelli, così implacabile flagellatore delle turpitudini morali ecclesiastiche e sociali, sforza il Klein ad esclamare: «Qual Savonarola in questo poeta comico!»
La scena dell’atto III fra Sostrata, Lucrezia e Fra Timoteo eccita all’entusiasmo il critico alemanno, che grida essere essa dovuta «ad un genio a farci ammirare il quale, a prescindere anche dal resto, basterebbe l’aver saputo mettere insieme questa stupenda scena.»
Poi, difendendo la buona fede dei consigli che Sostrata dà alla figlia, e dimenticando, in gran parte, tutto ciò che disse antecedentemente, a proposito dell’ipocrisia di Timoteo e di Tartufo, nel frate del Machiavelli vede egli pure una certa relativa buona fede.
Quindi afferma che il Machiavelli c il Lessing sono affratellati pel carattere del Principe Gonzaga nella Emilia Gallotti del drammaturgo tedesco. E, a proposito di questo capo-lavoro del Lessing, il Klein esclama: «All’infuori delle commedie dello Shakspeare noi non conosciamo altro dramma che sia basato e compenetrato di più profonda filosofia storico-umanitaria: e non conosciamo neppure alcuna commedia che, come la Mandragola, illumini così profondamente e apertamente un problema morale sociale, rappresentando la frivolezza della generale corruzione.
La scena 2ª dell’atto V, veramente mirabilissima, trae il Klein a gridare: «Impiccati Boccaccio! Davanti ad una tale scena deve abbassare le armi qualunque più sbrigliata erotica fantasia.»
E, a conclusione del suo studio, il tedesco scrive che la Mandragola «può essere da altre commedie superata in finitezza artistica, ma da nessuna in significato storico-morale e nella festività dell’ambiente e dei caratteri e da nessuna, per l’alta intonazione comica, può essere sorpassata.»
Il Dantier (Alphonse Dantier, L’Italie, Etudes historigues, XVII) parlando del Machiavelli, verso il quale non si mostra molto benevolo, scrive: «La diversité prodigieuse de ses facultés, ses connaissances aussi variées qu’étendues, la profondeur de ses vues en philosophie et en histoire, la verve incomparable qui anime ses poèmes, ses contes et ses comidies, l’éclat d’un grand style colorante portout la pensée de l’écrivain, tantôt originale et incisive, tantôt grave et magistrale, voilà qui suffirait, et au delà, à faire du secrétaire florentin un homme tout à fait hors ligne, si d’ailleurs l’école politique donc on l’a constitué le chef ne lai avait, par les doctrines immorales qu’elle a répandues, imposé la célébrité la plus déplorable.»
Perfino il Dandolo (Roma e i Papi, studi storici, filosofici, letterari e artistici, Milano, tipografia Guglielmini, 1857) nel vol. III, cap. 51, scrive: «Anche Machiavelli nella Mandragola, che per foga licenziosa rivaleggia colla Calandra, artificiò un intrigo con incontri nuovi, ridevoli, con dialogo schietto, caldo, spedito, con caratteri veri e ben si vede da qual punto sì gran maestro sogguardava e giudicava gli uomini e il disprezzo in cui li teneva.»
E sembra, così, che il Dandolo smentisca quasi ciò che, poco prima, aveva asserito, allorché, notando i pregi delle commedie dell’Ariosto, aveva dichiarato doversi queste collocare in cima a quante altre ne furono scritte in quel secolo.»
Il Nourrisson, nello studio Machiavel et son temps, inserito nelle Séances et Travaux de l’Accadèmie des Sciences morales et politiques del 1873, 32° année, cinquième série, vol. XXIX de la collection, loda assai la Mandragola «cette pièce d’une originalité si vive et d’une si mordante ironie, premier fruit de la veine comique, d’où devaient sortir il Frate, la Clizia, l’Entremetteuse maladroit.»
Il Fornaciari, (Disegno storico della Letteratura italiana, Lezioni di Raffaello Fornaciari Firenze, G. C. Sansoni, editore, 1877) afferma che la Mandragola, «come vince quasi tutte le commedie di quel tempo per immoralità, così forse tutte le supera, per arguta e vivace espressione de’ caratteri.»
Hermile Reynald, in un suo bellissimo studio sul Machiavelli, inserito nella Revue Nationale et Étrangère del 1867 (Tom. XXVIII), altamente plaude all’opera del nostro Fiorentino quale autore drammatico e novelliere. «Machiavel a retrouvé la comédie de caractère» dice lo scrittore francese. «La Calandra avec un intrigue des plus compliquées, ne nous offre guère que des coquins pleins de ruse et des idiote trop faciles a duper. Dans la Mandragore, au contraire, nous avons non plus des caricatures, mais des portraits fortement dessinés, et d’une vérite frappante.» E continua ad espandere, con parole altamente laudative, la sua ammirazione pei vari personaggi creati dal Machiavelli e, più specialmente, per Ligurio, per Sostrata, per Messer Nicia e per Fra Timoteo.
Il dottissimo Bertolini, in un suo elaborato studio, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, pubblicato nella Nuova Antologia, 2ª serie, vol. 36, del 1882, passando in rassegna il volume 3° della lodata opera del Villari, si mostra persuaso che li Machiavelli «fu il primo a dare la vera forma alla commedia italiana» e che «superò tutti con la sua Mandragola.»
Paolo Tedeschi in un suo scritto, contenuto nella Rivista Europea del 1874, anno V, vol. 4°, e intitolato: Machiavelli e la critica moderna, pure arrabattandosi, con un furore veramente morboso, controle infamie e le sporcizie onde egli trova piena la Mandragola e contro i critici che pretendono giustificare l’onestà degli intenti della commedia machiavelliana, non può non riconoscerne le singolari bellezze e l’originalità, quantunque affermi — asserendo senza provare — che il dialogo di questo comico componimento sia «meno vivo, meno spigliato, meno fiorentino» di quello usato nella Clizia, cosa della quale, a dire il vero, io non mi sono accorto mai.
Il Derome, nel suo stupendo studio, intitolato: Machiavel, ses doctrines et sa memoire, inserito nel Correspondunt (Tom. CXXVII de la collection, LXXXXI de la nouvelle. sèrie) riconosce che la «Mandragore est un chef d’œuvre.»
Il Rotondi, nel suo articolo bibliografico sul libro: Machiavelli e le sue opere, di Carlo Gioda, pubblicato nell’Archivio storico italiano, quantunque respinga la sentenza pronunciata dal Voltaire sulla Mandragola, sembra che sia egli pure ammiratore della commedia machiavelliana.
Il compianto Atto Vannucci, nel suo Discorso pel quarto centenario di Niccolò Machiavelli, inserito negli Annali Universali di Statistica del 1860, vol. XXXX serie 4‘, loda le commedie «eleganti, allegre, originali» del Fiorentino, nelle quali questi «ritrasse le imposture dei Frati e i rotti costumi della città.»
Marc Monnier, nel suo dotto e brillante studio: Le Thèàtre italien au XVI siècle, inserito nella Bibliothèque Universelle et Revue suisse del 1882, LXXXXIIe année, Troisième Période, Tom. XVI, combatte, con assennata acutezza di critica, i giudizi, soverchiamente severi, del De Gubernatis a proposito della Mandragola che il Monnier trova la «plus belle du siexle, et la plus forte, a son sens, de tout le Thèàtre italien.» E, dimostrato, vittoriosamente, che la immoralità rimproverata al Machiavelli, è comune a tutti gli scrittori del cinquecento, il Monnier rileva giustamente che il nostro autore, a differenza di tutti i comici del suo secolo, non prende il soggetto della sua commedia nè in Plauto, nè in Terenzio, ma lo trae dal vero; e l’interesse drammatico egli non lo ricerca «dans les artifices, les stratagemes, les ficelles,» ma «là où l’auraient cherché les maitres souverains, Shalcspeare et Molière, dans la vèrité humaine.»
Riconosciuto, quindi, nel Machiavelli un genio di prim’ordiue, il critico osserva che il Fiorentino «créa ces deux figures, le bonhomme Nicias et le Frère Timothee, qui sont les plus vivantes, les plus distinctes et les plus profondément fouillès qui aient jamais pani sur le Th atre italien.» E, all’obiezione del De Gubernatis, che Messer Nicia non è nuovo, che egli si chiameva già Calandro in una precedente commedia, il Monnier risponde: «Oui, mon ami, vouz parleriez d’or, si le bonhomme Nicias n’était qu’un mari imbécile. Mais ce qui fait de Machiavel un maitre, c’est que ce mari imbécile n’est pas un masque, c’est une phisonomie, n’est pas un type, c’est une personne aussi vrai que George Dandin qui ne lui rassemble pas.»
E, dichiarandosi concorde col Macaulay, il Monnier continua ad esaminare e ad ammirare il carattere di Nicia, e levando a cielo quello di Fra Timoteo vero, umano, capace del male.... come del bene, scioglie un inno alla finezza artistica, con cui sono tratteggiati gli altri personaggi del capolavoro machiavelliano.
Del rimanente la Mandragola era conosciutissima in Francia nel gran secolo di Luigi XIV, era stata tradotta da J. B. Rousseau e servì allo squisitissimo La Fontaine a tema di una delle sue inimitabili novelle, intitolata, appunto, La Mandragore. (La Fontaine, Contes et Nouvelles, Paris, Firmili Didot, vol. III, 2°). Anzi, tutto lo stupendo racconto di messer Nicia, nella scena 2a dell’atto V, quando egli narra come si passassero le cose fra sua moglie e il garzonaccio suonator di liuto, parve tanto e così efficacemente comico al celebre favolista francese che fu da lui tradotto, parola per parola, nell’ultima parte della sua novella.
Il fatto dunque che l’immortale Molière può aver letto la commedia del Machiavelli nella traduzione di J. B. Rousseau, la certezza che egli aveva letto e gustato la novella del suo amico La Fontaine e la probabilità che da questo potesse egli aver avuto contezza della commedia del Fiorentino, mi confermano nell’opinione, già espressa, come sopra ho notato, dal Quinet, dal Sismondi, dal De Sanctis, dal Salfi e in parte anche dal Ginguené, dal Loise e dal Klein che nel Fra Timoteo del Machiavelli debba ricercarsi la genesi del Tartufo del Molière. - ↑ Ariosto, Sat. VII.
- ↑ Intorno alle condizioni morali, politiche e religiose del cinquecento veggasi, e per l’elevatezza dei concetti e per lo splendore meraviglioso dello stile e per la limpidezza insuperabile della parola, il discorso quinto di Giosuè Carducci nello stadio: Dello svolgimento della letteratura nazionale (nel volume Studi Letterari, Livorno, F. Vigo, 1880.
- ↑ A proposito della maggiore o minore moralità risultante dalla Mandragola, il Graf, nello scritto più volte citato, con assennato e sottile ragionamento e con acuti confronti, pone in rilievo la differenza che intercede fra la immoralità della commedia del Machiavelli e quella che emerge dalla Calandra del Cardinal Dovizi da Bibbiena e mostra come il degno porporato ci sguazzasse, senza necessità e con compiacimento, fra le oscenità e il turpiloquio, mentre il Segretario fiorentino di oscenità non ne pone in scena che quelle che naturalmente e necessariamente sono insite nell’argomento della sua commedia e che rigorosamente scaturiscono dallo svolgimento dell’azione.
- ↑ Il Burckardt (La Civiltà del secolo del Rinascimento in Italia, saggio di Jacopo Burckardt, tradotto da D. Valbusa, Firenze, Sansoni, 1876), a proposito di questo prologo, nota (parte II, capitolo 4°): «Machiavelli nell’importantissimo prologo della sua Mandragola, ascrive, a ragione o a torto, la visibile depravazione morale alla maldicenza universale, ma avverte al tempo stesso i suoi avversaci che anche a lui sta bene la lingua in bocca.»
- ↑ Scriti editi e inediti di G. Mazzini, Filosofia della musica. (Milano, G. Daelli, vol. IV, pag. 89).