Lezioni accademiche di Prospero Balbo intorno alla storia della Università di Torino
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LEZIONE PRIMA E PRELIMINARE
detta
NELLA CLASSE DI LETTERE
IL XXX DI NOVEMBRE DEL MCCCCVIII
ed in adunanza pubblica il primo di luglio dell’anno seguente.
Prospetto di questa storia fino al secolo xviii.
1. Già sin dal principio dell’imperio Romano si dee credere che qualche sorta di pubblico insegnamento fosse in alcune delle nostre città subalpine; ma Novara e Vercelli le prime sono che di sì antico lustro possano vantarsi con probabile fondamento: poichè un orator Vercellese, Vibio Crispo, che in Roma fiorì ne’ tempi di Vespasiano, pare che vi fosse andato già bene instrutto nell’arte; il che fa supporre che avesse in patria e maestri e scuole ed esemplari, come a’ tempi di Augusto sembra che gli avesse avuti in Novara Cajo Albuzio Silo prima di recarsi in Roma.
2. Nella raccolta di lapidi, che per opera del marchese Scipione Maffei fu collocata sotto il portico dell’Università di Torino, si vede un’iscrizione di non dubbia autenticità, la quale dimostra che poco dopo Trajano questa nostra città aveva un numero di medici, ovvero di persone applicate all’esercizio delle diverse professioni medicali, fin d’allora separate e distinte, altrettanto e forse più che nol siano di presente. L’iscrizione non dice che formassero un collegio; ed ancorchè ciò si voglia supporre, ognun sa che tali collegii non aveano per oggetto l’insegnamento dell’arte professata da’ lor sodali.
3. Trascorsi appena que’ primi tempi del Romano imperio, la letteratura ecclesiastica è la sola che possa farci conoscere qual fosse lo stato delle lettere in queste nostre contrade.
Due vescovi, per molti titoli chiarissimi, Sant’Eusebio di Vercelli, e San Massimo di Torino, ci hanno lasciato egregii documenti di zelo pastorale per l’ammaestramento de’ fedeli alla lor cura commessi, e soprattutto degli Ecclesiastici. Il santo vescovo di Torino prese a combattere alcune usanze superstiziose degli abitanti di questa città, e mostrando la naturalezza degli eclissi lunari, dissipò i timori prodotti dall’ignoranza: il che prova che anche nelle scienze umane il clero formava la parte più dotta della nazione. In tempo assai più recente, cioè sul principio del secolo nono, un altro vescovo di Torino, ben diverso da San Massimo, pur anch’egli per quella età dottissimo, Claudio, di nascita Spagnuolo, cercò di propagare l’eresia degli Iconoclasti, fierissima nemica delle arti disegnatrici. Tuttavia per le contraddizioni ch’egli ebbe a soffrire, e che impedirono la riuscita de’ suoi pravi disegni, si vede chiaramente che la sana dottrina, professata da’ suoi predecessori, facea sempre la base del volgare insegnamento.
4. Ma nel clero, come in ogni altra classe di persone, si sarebbe affatto smarrita qualunque sorta di dottrina, se le istituzioni monastiche non avessero aperto un asilo alle lettere divine ed umane. Il più antico monastero dell’Italia occidentale, cioè quello di Bobbio, che fu fondato nel principio del secolo settimo, ci offre il prime sicuro esempio di uno stabile e regolare ammaestramento. San Colombano, Irlandese o Scozzese, fu il fondatore del monastero; ma un suo compagno Subalpino, Giona di Susa, fu l’autor principale dello studio. Un altro monaco Scozzese, Dungallo, diede al monastero parecchi libri, merce a que’ tempi preziosissima, e fra que’ libri ve n’eran pure di filosofia, d’aritmetica, di storia, d’erudizione, di poesia. Di lè venne il Sedulio, che ancor fa l’ornamento della biblioteca pubblica di Torino; ed il Lattanzio che anni sono passò in Parigi.
5. Verso il fine del secolo decimo il famosissimo Gerberto, che fu poi arcivescovo di Rheims, e quindi Papa col nome di Silvestro secondo, essendo prima abate di Bobbio, mise in tal credito quello studio, che venivano scolari da più rimoti paesi. E chiunque sa che a Gerberto noi siam debitori delle cifre di aritmetica decimale, ben può credere che nelle scuole da lui dirette non s’insegnava solamente la teologia ed il canto fermo, ma tutte quelle cognizioni che rimaste erano in qualche canto d’Europa; o quelle, che venute d’Africa o d’Asia, egli stesso avea di recente portate di Spagna.
Gli studi de’ monachi destarono qualche lodevole emulazione nell’altro clero. Nel secolo stesso di Gerberto, ma prima di lui, Attone vescovo di Vercelli, autore di opere per li suoi tempi assai notabili, stabilì alcune scuole nella vasta sua diocesi, ed ordinò che nelle terre i fanciulli fossero gratuitamente ammaestrati da’ preti.
6. Assai più anticamente, ma non prima dell’anno dcccxxiii, l’Imperator Lottario avea fondato un sistema di pubblico insegnamento, che dopo quegli antichi d’oriente, e d’occidente, fu il primo in Europa fuori de’ monasteri e delle chiese, e nel quale si ravvisano le prime tracce di quegli studi generali conosciuti poi sotto il nome di Università. Nove città d’Italia ebbero le scuole stabilite dall’Imperatore. In Ivrea doveva insegnare il vescovo; a Torino doveano venire i giovani di Alba, di Albenga, di Vado; quelli d’Acqui, d’Asti, di Tortona, di Vercelli, di Novara doveano andare a studio sotto Dungallo in Pavia.
7. Le scuole adunque di Pavia, di Torino, e d’Ivrea, insieme con quelle del monastero di Bobbio, impedirono forse che ne’ secoli della maggiore ignoranza, quali furono il nono ed il decimo, si perdesse per intiero nella Italia occidentale ogni maniera di lettere. Certo è che nel secolo undecimo, e nell’angolo più rimoto del Piemonte e dell’Italia, qual è la valle d’Aosta, sorse un insigne teologo, Sant’Anselmo, le cui speculazioni metafisiche sono lodate dal gran Leibnizio. Nello stesso secolo, e nel seguente, San Brunone Astigiano, vescovo di Segni, mostrò in alcuni suoi trattati un capitale di dottrina;, ed una certa eloquenza, che non è niente comune negli scrittori di quella età. E nel secolo tredicesimo, Enrico di Susa, Cardinale Ostiense, fu il più famoso dei canonisti, di modo che conservò qualche nome anche dopo il rinascimento de’ buoni studi.
8. Ma già nel secolo dodicesimo aveano preso forma più stabile e regolare, col nome di Università, le scuole di Parigi e di Bologna, che salirono ben tosto ad altissima fama. Un secolo dopo, cioè l’anno mccxxviii, fu eretta l’Università di Vercelli; e quella di Padova vi fu ad un tratto quasi per intiero trasportata, composta com’era di Scolari Italiani, Francesi, Inglesi, Normanni, Provenzali, e Catalani. Ma già prima di quella erezione, il Cardinal Guala Bichieri, in Vercelli sua patria, avea fabbricato il monastero di Sant’Andrea, ed arricchitolo di libreria, e postovi per abate Tommaso canonico regolare di San Vittore, il qual facea traduzioni dal Greco in Latino, allorquando la lingua Greca era quasi sconosciuta in occidente; onde non è meraviglia, che per istudiare sotto la direzione di sì rinomato maestro, San Francesco inviasse a Vercelli Sant’Antonio da Padova ed un altro de’ suoi primi discepoli.
9. Nè solamente in teologia ed in buone lettere ottenne fama quell’antico studio, ma in giurisprudenza eziandio. Da Bobbio venuto vi era un lettore, per nome Uberto, il quale, solo o fra pochi d’Italia, fu consultato da Parigi allorquando trattossi della reggenza di Bianca da Castiglia, madre del santo re Lodovico. Ed il suo voto, a quella savia reina favorevole, tanto fu colà riputato, che ancor a’ dì nostri lo abbiamo inteso citare come di grande autorità, mentre ne’ consigli di quello stato si volea provvedere per l’avvenire a somiglianti occorrenze. Raro esempio, che in quella nazione, ed in questa età, l’una e l’altra di suo sapere sì paga, siasi voluto prender lume da un secolo tenuto per ignorante.
10. Della Università Vercellese poche altre notizie si son potute rintracciare. Egli è probabile che in quella Università, o nel monastero di Sant’Andrea, abbia studiato le lettere umane e divine quel monaco Ghersen nativo de’ contorni di Vercelli che fu l’autor vero dell’aureo libro de imitatione Christi, falsamente attribuito ad altri, e con sì magnifico elogio commentato dal Fontenelle. Pare che la Università durasse ancora verso il fine del secolo decimo quarto, e fors’anche al principio del decimoquinto, di modo che sia venuta a cessare ad un dipresso allorquando ebbe principio quella di Torino.
11. Nel mccccv, a richiesta del Principe di Acaja, Lodovico di Savoja sovrano del Piemonte, fu eretta l’Università di Torino dall’antipapa Benedetto xiii, che nelle nostre contrade era in quel’tempo riguardato come legittimo Pontefice. Dice la bolla, che le lunghe guerre aveano fatto dicadere gli studi in Lombardia, e che alcuni teologi professori di Pavia e di Piacenza aveano offerto al Principe d’Acaja di venir a leggere ne’ suoi stati.
Nel mccccxii la novella Università ottenne dall’Imperadore Sigismondo i soliti privilegi: essa dovea comprendere la teologia, il dritto canonico e civile, la filosofia naturale e morale, la medicina, e le lettere.
12. Amedeo l’ottavo, primo duca di Savoja, sopranominato il Salomone del suo secolo; quello stesso che i Padri di Basilea vollero contrapporre a Papa Eugenio iv, e che colla sua rinunzia finì l’ultimo scisma, e diede a Santa Chiesa la pace non più turbata dappoi; egli fu il primo legislatore della Università di Torino: nel mccccxxiv ei ne affidò il governo ad un consiglio composto del capitano del Piemonte (che or diremmo governator generale), e di tre riformatori. Nel suo decreto questo principe dà il nome di figlia all’Università, come fecero i Re di Francia per quella di Parigi; e ancor due secoli e mezzo dopo quel tempo i nostri sovrani chiamarono l’Università di Torino figlia d’un principe grande, che tal era veramente per ogni rispetto Amedeo viii.
In que’ principii l’Università traeva le entrate dalla gabella del sale: Amedeo ne stabilì la tassa, e le regole della esazione; e di più vi aggiunse una rendita dovuta dalla città di Torino.
13. L’Università fu trasferita a Chieri dove restò alcuni anni non senza splendore: e vi fu soprattutto illustrata dal famoso medico Antonio Guainerio. Non fu, come mal si è creduto, in Moncalieri. Bensì nel mccccxxxv era in Savigliano, ma l’anno dopo tornò in Torino. Lodovico di Savoja, luogotenente generale di Amedeo suo padre, fra i privilegi che le concesse in tale occasione, stabilì, che si dovessero condurre lettori celebri con onorarii bastanti a torli dal bisogno di applicarsi alla pratica delle lor professioni. La cattedra di decretali, quella di codice, e le diverse cattedre di digesti aveano due professori caduna. In quello stesso diploma, ed in altri dello stesso secolo, è stabilito che dovesse l’Università restar sempre inseparabile dal consiglio supremo del Piemonte.
14. Noi non parleremo de’ privilegi conceduti, secondo l’uso dei tempi, alla Università di Torino da’ Papi, dagl’Imperatori, e dai Principi di Savoia: il vero lustro di siffatte istituzioni, ed il reale loro vantaggio, non da somiglianti concessioni dipende, ma sibbene dal merito de’ professori; e noi però, non potendo in così breve lezione darne adeguata notizia, vogliamo almeno a questo luogo additare i più celebri del secolo decimoquinto e della prima metà del decimosesto.
Appartengono a que’ tempi Giacobino di Sangiorgio, Claudio di Seyssel, Pietro Cara, Gianfrancesco Balbo, e Niccolò suo fratello, Gianfrancesco Porporati, Giovanni Nevizzano, Girolamo Cagnoli, tutti legali; e Pietro Bairo, medico, per tacer di molti altri che anch’essi ebbero fama. Fu sì grande quella del Cara, latinista, e giureconsulto, ch’egli avea scolari non pure d’ogni provincia Italiana, ma di Francia, di Spagna, d’Inghilterra, di Lamagna, di Danimarca, e perfin di Moscovia, paese allora si barbaro. Anche nella facoltà teologica si conferivano gradi a stranieri di lontani paesi, come accadde ad un famosissimo Olandese, cioè ad Erasmo, che nel mdvi vi fu laureato.
15. Se avesse avuto effetto l’intenzione di Sisto IV, che forse volendosi far Torinese per innestarsi all’illustre casato de’ Larovere, fondava in Torino un collegio per ventiquattro scolari di teologia e di legge, fin d’allora la nostra Università ne avrebbe tratto per avventura que’ vantaggi ch’ebbe poi nel secolo diciottesimo per la istituzione del collegio detto delle provincie, al quale fu riunito il collegio Ghislieri fondato da San Pio quinto.
16. Tuttavia senza questo ajuto per gli studenti poveri, fiorì a quel tempo l’Università, anche pel concorso de’ giovani delle primarie famiglie; poichè i nobili Piemontesi, come quelli delle altre parti d’Italia, intraprendevano e seguivano gli studi al pari dell’armi, e si videro signori di case illustri recarsi a grande onore di aver seggio nelle facoltà, e di leggere sulle cattedre, donde passavano sovente alle dignità principali dello stato.
17. Ma per le lunghe fierissime guerre di Carlo quinto, e di Francesco primo, venne finalmente a languire l’Università di Torino, che tuttavia non si spense affatto. Emanuele Filiberto, anche prima di tornare in Piemonte, per diploma spedito da Brusselles nel mdlix, concesse alla città di Nizza il privilegio di avere una Università, la quale per altro sembra che dovesse restar limitata alla facoltà legale. Le favorevoli intenzioni di quel gran principe per la sua prediletta città dov’egli avea passalo molti anni di adolescenza, non furono senza effetto, poichè ancora nel secolo seguente, in Nizza si faceano laureazioni. Ma rientrato il duca ne’ suoi stati, giudicò per avventura che fosse più conveniente al suo disegno una città men limitrofa, e nel mdlx, non essendogli restituita la capitate, cresse l’Università in Mondovi. Ma la città di Torino, tornata poi sotto la dominazione del duca, mosse lite a Mondovi per impedirgli la continuazione dell’ottenuto privilegio. Dopo formal giudizio, la sentenza, pronunziata nel mdlxvi, mantenne le due Università; ma i nuovi professori vennero da Mondovì a Torino, onde l’Università di Mondovì cominciò a dicadere pochi anni dopo la sua istituzione, conservando tuttavia, sino al principio 18. I professori erano distinti in tre classi. I primi doveano essere uomini di chiaro grido che avessero già letto almeno per dieci anni in qualche celebre Università.
I secondi doveano aver insegnato almeno per quattro anni nella classe inferiore.
I lettori di quest’ultima classe, cioè gli straordinarii, quelli d’istituta e di logica, con alcuni altri, poteano esser eletti fra giovani, che avessero date prove d’ingegno e di dottrina.
I professori erano condotti per quattro anni; ad ogni nuova condotta cresceva il loro onorario per modo che i due primi professori di legge aveano, l’uno ottocento scudi d’oro, l’altro seicento. Aimone Cravetta, famoso professore di leggi, ebbe fino a mille dugento scudi di assegnamento. La qual somma, quand’anche non fosse stata di scudi d’oro, ma solo di scudi d’argento, corrisponde, per lo meno, in valore intrinseco a tredici mila franchi d’oggidì, ed in valor di derrate a diciotto mila.
19. Nel mdlxxi avea l’Università due professori di teologia, due di canoni, quattro di jus civile, due d’istituta, due di jus criminale, uno di jus feudale, uno delle autentiche, uno de’ tre ultimi libri del codice, uno di arte notariale, e quattro straordinarii di legge; in medicina, due di teorica, due di pratica, uno per le opere di Almansor, uno di notomia, uno di botanica; nelle arti, due di filosofia, due di logica, uno di metafisica; uno di matematica, due di lettere latine, e due di greco; di modo che il numero totale dei professori era di trentasette, de’ quali due di teologia, diciotto di legge, sette di medicina, e dieci di scienze e lettere.
20. Una parte dell’insegnamento legale faceasi ne’ giorni di festa e di vacanza da scolari, che aveano quattro anni di studio: alcuni di questi scolari portavano il titolo di lettori straordinarii, e godevano di un tenue onorario, la qual usanza è durata fino al dì d’oggi nella Università di Pisa.
31. Eranvi tre collegii di dottori; teologi, legali, medici: le arti, cioè a dire la filosofia razionale, le scienze fisiche e matematiche, e le belle lettere, erano unite alla facoltà di medicina; Davanti questi collegii si faceano gli esami pubblici per la collazione dei gradi, e si conferivano questi gradi non solo nelle tre primarie facoltà, ma eziandio in chirurgia, in matematica, e perfino in musica, il che era comune all’Università di Mondovì. È da notarsi che a que’ tempi, in altri paesi, i chirurghi erano perseguitati dai medici, e messi del pari co’ barbieri: ma la facoltà di medicina fu più onorata in Piemonte di quel che fosse in molti altri luoghi, a segno che dal secolo sedicesimo sino al diciottesimo ebbe a godere di una perfetta eguaglianza colla facoltà legale.
22. Molti celebri professori illustrarono nella Università di Torino il regno di Emanuele Filiberto, e principalmente in leggi Antonio Goveano, Gian Giacomo Menochio, Aimone Cravetta, Giovanni Vaudo, Giovanni Manuzio, Guido Pancirolo, e Cujacio; in medicina Francesco Vimercati, Giovanni Argentieri, ed altri; in belle lettere Giraldi, in matematica Francesco dell’Ottonajo, e Giambattista Benedetti, che fu in qualche aspetto riguardato come precursore dell’immortal Galileo.
23. II successore di Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele primo, dotto principe e protettore dei dotti, non pare tuttavia, che abbia potuto mantenere l’Università di Torino nello stesso grado di splendore cui l’aveva inalzata il padre, ma vi ebbe ancora alcuni celebri professori, e fra gli altri Anastasio Germonio e Gaspare Antonio Tesauro.
24. Sul principio del secolo diciasettesimo incominciò Piemonte ad alterarsi il buon gusto; ed in ogni maniera di lettere e di scienze, la falsa pompa d’ingegno, e l’indigesta erudizione, poco sicura e mal collocata, usurpo l’onore dovuto alla schietta eleganza ed alla soda dottrina: tutti gli studi ne soffrirono assai, e per natural conseguenza la disciplina scolastica anch’essa venne a dicadere.
25. Dopo la metà di quel secolo, i principi nostri tentarono di ristabilire l’insegnamento dell’Università sulle sue prime basi. Nel mdclxxiv Carlo Emanuele II fece varii ordinamenti per gli esami, e ne affidò l’eseguimento al capo della riforma, ed a’ riformatori, ch’erano, dic’egli, i suoi principali ministri. La scolaresca era divisa in nazioni che aveano i loro sindaci: le liti degli scolari erano giudicate da un magistrato speciale già da gran tempo istituito che portava il titolo di conservatore; godevano pure gli scolari parecchi privilegi, e riscuotevano dazi dagli Ebrei, da’ droghieri, e da altri.
26. Nel mdclxvii Madama Reale Giovanna Battista, reggente dello stato, fece ordinamenti savissimi, che ancor di presente possono meritare d’esser veduti ed imitati. Il gran cancelliere era capo della riforma: i professori doveano essere eletti per concorso fuorchè quando si fosse trattato d’uomini celebri per opere stampate o per letture sostenute in altre Università: i loro onorarii crescevano ad ogni triennio, e potevano salire fine ad ottocento scudi d’oro.
27. Ma la sapienza delle leggi o la generosità de’ principi non pote impedire il dicadimento della Università, e si vide allora, anzi si toccò con mano, che senza i buoni studi di lettere non solamente mancano oratori e poeti, di cui crede taluno che si possa di leggieri sopportar la mancanza, ma vengono alla fin fine a mancare e savi teologi, ed eruditi giureconsulti, e dotti medici, e periti ingegneri.
28. Nel mdclxxvii avea l’Università in teologia un professore ordinario, uno straordinario, ed uno di sagre carte; in canoni due ordinarii e due straordinarii; in jus civile due; in istituta due ordinarii ed uno straordinario; uno per li tre ultimi libri del codice Giustinianeo; uno de actionibus che sembra essere stato surrogato a quello d’arte notariale; uno di jus feudale, ed uno di jus criminale: in medicina, due di teorica e due di pratica, due per le opere di Almansor, uno di botanica, uno di chirurgia, e due di notomia; nelle arti, un ordinario ed uno straordinario di metafisica, due di filosofia, uno di matematica, ed uno di logica. I professori erano dunque trentadue, cioè tre di teologia, tredici di leggi, dieci di medicina, e sei dell’arti, fra le quali non era più insegnata la bella letteratura.
29. Di questa erano maestri a quel tempo i Gesuiti, alcuni dei quali, con alcuni de’ loro allievi, e sopra tutti Emanuele Tesauro, acquistarono grande celebrità in Piemonte, senza uguagliare quegli uomini sommi che aveva altrove la compagnia, ne quelli ch’ebbe negli ultimi tempi.
30. Nella Università due professori legali, Panealbo, e Mirbello, son forse i soli di quella età che abbiano meritato qualche fama, che pur non ebbe durata. Ma è cosa notabile che in quella facoltà continuava da più d’un secolo qualche insegnamento di economia politica ossia d’amministrazione pubblica, che tale doveva esser quello de’ tre ultimi libri del codice Giustinianeo; tralasciato poi con infinito danno, e che l’Arcasio far volea risorgere a’ tempi suoi, poichè avea pensiero di comprenderlo ne’ suoi trattati, allorquando li diede alle stampe.
31. Intorno al fine del secolo xvii, cioè nel mdcxc, troviamo che le lezioni duravano un’ora e mezza: che alcuni professori doveano in casa ripetere le lezioni nelle ore in cui non era aperta l’Università: che gli straordinarii ne’ giorni di festa e di vacanza insegnavano all’Università od in casa, e quando facea d’uopo supplivano agli ordinarii; che i professori assistevano alcune volte alle lezioni dei loro colleghi e argomentavano nelle loro scuole; che i primarii magistrati faceano lo stesso nelle scuole legali; che i professori di legge, e di medicina proponevano ogni mese alcune tesi ovvero alcuni dubbi sulle materie del loro insegnamento, e faceasi sui proposti argomenti un pubblico esercizio, al quale erano invitati gli altri professori; ordini ed usi degnissimi di tempi migliori.
32. Se i buoni ordinamenti, e le buone usanze bastassero ad assicurare il buon successo delle istituzioni letterarie, fiorentissima doveva essere a quel tempo l’Università di Torino; eppure fu appunto quello il tempo del suo maggior dicadimento. Ma oltrecchè a quella età, come in altre più rimote, le guerre la disturbarono assai, la scelta poco buona de’ professori fu quella che più d’ogni altra cagione la condusse ad uno stato infelice.
Vero è che di questa scelta doveasi per avventura accagionare la legge de’ concorsi sebbene alquanto modificata, legge che a primo aspetto pare ordinata a favorir l’eccellenza, e forse il più delle volte favorisco la mediocrità.
Ma egli è certissimo che il dicadimento degli studi di lingua e di letteratura trasse seco la rovina di tutte le altre discipline. La profonda ed erudita giurisprudenza, la dotta e sagace medicina vennero quasi a smarrirsi affatto, perchè male si studiava il latino, nè punto si studiava il greco. Nè risorse la medicina finchè un uomo sommo, buon latinista, cioè il Fantoni, richiamò l’insegnamento di quell’arte a tutta l’eleganza della quale è capace. Lo stesso accadde, come vedremo poi, alla giurisprudenza, alla fisica, e perfino alla matematica: tutti i ristoratori di queste scienze posero cura alle arti del metodo e dello siile senza le quali ninna sorta d’insegnamento può preservare dalla corruttela ed antivenir la barbarie.
33. Come siasi operata questa felice ristorazione nel secolo diciottesimo, noi lo diremo in altra lezione, chiudendo la presente coll’osservare che i legislatori dell’Università di Torino e i suoi più chiari protettori furono i quattro principi più grandi che abbia avuto il Piemonte sotto il lungo dominio della casa di Savoja, vale a dire Amedeo viii, Emauele Filiberto, Vittorio Amedeo ii, e Carlo Emanuele iii.
ANNOTAZIONE.
Le citazioni e le note, che qui si dovrebbero inserire, sarebber tante che riuscirebbero di soverchio ingombro; tutte troveranno più largo ed acconcio luogo nelle lezioni seguenti.
A questa mi piace notare che alcuni anni dopo la lettura fu aggiunto quel paragrafo dove si parla di Uberto da Bobbio.