Lettera sopra il canto de' pesci/Lettera
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Lettera sopra il canto de' pesci | Canzonetta | ► |
Voi, o valoroso e gentile Signor Conte, eravate venuto alla scommessa di dodici lucenti zecchini, se un verso solo più scrivevate in occasione di nozze; e intanto per le mani di un egregio fratello vostro filosofo e teologo veramente dotto, e amico mio candido e soave voi a leggere mi presentate un quattrocento, o cinquecento versi di un vostro bello e splendente Ditirambo, che ha per titolo l’Amor Conjugale, contenuto in un tomo di poesie fatto per nozze; e ne volete per cortesia di domanda il mio giudizio. Se mai aveste composti i versi, perchè le preclare famiglie, che voi celebrate vi fossero parute tanto degne di canto, che per potere cantarle convenisse ancora pagare danajo, io dirò, che avete ragione, e che siete un Cavaliere magnanimo, e un Poeta inimitabile. Nella congiunzione di certi sangui gloriosi, come cotesti due sono, sarebbe piucchè mai a desiderare, non la consuetudine delle Raccolte prevalesse così stemperatamente, onde tale uffizio allora dovuto apparisse notabile, e scelto. Mandovi io a buon conto per contraccambio in dono una Canzonetta composta da un Carpione per le faustissime e applauditissime nozze di una nobilissima Trota del Lago di Garda. Questa canzonetta è capriccio di un Poeta, che io amo; il quale, veggendo pullulare, e crescere con licenzioso rigoglio in ogni contrada tante Raccolte1, pensa esser vicino il tempo, in che si possano far Raccolte ancora quando si maritano i pesci, e gli uccelli, almeno i più cospicui, o i più cari. E poichè quel Poeta, ponendomi nelle mani la sua poesia, mi nominò gli uccelli, non sarebbe stato, soggiunsi, più conveniente immaginamento fingere una canzonetta di un cantante Rosignuolo per le nozze di una vezzosa Rosignuola, che non di un Carpione, che è un pesce muto, per le nozze di una Trota saporosa? In risposta alla mia interrogazione egli mi disse tante belle e nuove cose con tanta copia di erudizione, che l’accennarvene una parte sola sarà un diletto. In primo luogo mi assicurò, che i pesci non solamente hanno l’udito, come accordò dopo le sue dubitazioni il Ray Inglese, e provò infra molt’altri ultimamente nel 1743. all’Accademia di Parigi il Sig. Abbate Nolet, ma che hanno la voce, e il canto. Lasciamo stare i mostri marini, che fanno paura, come le Balene, le quali distendono la vociferazione e il rugghiamento a più miglia, conformemente al narrar del Wottono, del Zordragero, del Martensio: anzi pure lasciamo un incivil pesce ampio e corpacciuto, ch’era detto da’ Lacedemoni Ortragorisco, e grugnava come un porco, se si crede ad Appione. Scrive Mnaseo Patrense nel fiume Clitore aver albergato pesci di buona voce: Filostefano Cirenese familiar di Callimaco nell’Aorno fiume d’Arcadia asserisce certi pesci, detti dagli abitanti ποικιλίαι piciliæ, cioè macchiati, cantar come i nostri tordi. Veramente Pausania confessa d’aver passeggiato sul lido fino a tarda sera, mentre se ne faceva la pesca, e non averli uditi fare zitto. Ma tal silenzio non prova nulla contro di noi; perchè (e perdonimi Pausania) non era quello tempo da cantare in mezzo a tanta calamità, mentre erano presi, e uccisi. Venghiamo ai nostri Storici naturali moderni, che giurano di dire la verità. Il Neuttoff2 cita un pesce detto Hajul, che mette una sua piagnevol cantilena malinconicamente cantando. Il pesce Gallo-marino, scrive il Micradio,3 al minacciar fortuna fa quasi nell’onda quel verso, che fa nell’aja il nostro rustico Gallo. Il Sig. Klein4 narra, che certi pesci Ciprini, quando s’innamorano, cantucciano con certe loro zolfe giojosissime. Egli poi protesta d’avere inteso un non so quale zufolare delle anguille nel podere di Rabloff nella Scania, stando alla Corte del Sig. Skytte Governatore della Provincia. Pietro Martire5 tesse una relazione de’ pesci canori. Finalmente il Signor Brockes Senatore di Amburgo prendeva tanto diletto nel canto de’ pesci, quanto altri in quello de’ cardellini, e de’ canarj. Io, o Signor Conte, ascoltai volentieri queste novità; e tra me maravigliava, perchè non citasse giammai le rane, di cui l’autorità avrebbe avuto nell’animo mio peso sopra ogni altra maggiore. Ma forse non era dicevole al decoro della sua erudizione recare in esempio i vulgari ranocchj, che dalla fossa alzano il muso a gracidare. Io fui ben ardito di suggerirgli le Sirene, che sono pesci, e che cantano mirabilmente: ma mi rispose, che il canto delle Sirene lo lasciava ascoltare dalle orecchie bugiarde de’ Poeti: indi soggiunse, sorridendo da critico difficile e duro, esser esse tali pesci, che non aveva giammai mangiato un pezzo di Sirena lessa, o arrostita, nè il Larry, che racconta essersene pescata una nel contado di Suffolk in Inghilterra, nè il Perival, che narra di un’altra imprigionata nei fanghi della Frisia Occidentale all’anno 1430, nè lo stesso P. Henriquez co’ suoi compagni Gesuiti, e col Sig. Dimas Bosquez medico del Vice-Re di Goa fortunati di aver veduto nel 1560. prese sette sirenette in un tratto solo di rete. In secondo luogo dedusse, che, se i pesci non sono muti, parlano; e che il loro linguaggio si prova con quegli argomenti, co’ quali prova il P. Bougeans il linguaggio generale delle bestie. E in verità, se la rondinella cinguetta, e il passero ciancia; perchè non potrà fare lo stesso la orata, e lo sgombro? In terzo luogo mi confidò, ch’egli possedeva la secreta scienza d’intendere appunto tal linguaggio, come quell’Enareto del Sannazaro, a cui essendo state leccate le orecchie da due Dragoni, mentre a notte fitta dormiva sdrajato fra le sue vacche, desto il mattino sull’alba intese perfettamente certa collocuzione, che tennero insieme la lodola pennacchiuta, il mansueto lucarino, il beccante frisone, e altri augelli: anzi pure come Appollonio Tianeo, e Melampo, e Tiresia, e Talete intendevano il linguaggio delle bestie a detta di Porfirio nel libro terzo. Ecco come andò la ventura sua. Passeggiava egli per sollazzo nella graziosa Sirmione Penisoletta del Benaco, la quale potè graziosamente, e delicatamente albergare le grazie stesse di Catullo. Quivi egli respirando quell’aere salubre, sottile, odoroso per cento furti fatti alle selvette degli aranci, e dei cedri, e sedendo sovra certa erbosa e morbida punta di terra, che verdissima entro alla limpida acqua del lago alquanto si distendeva, leggea sotto all’ombra di un foglioso ulivo Catullo quasi ancora per gratitudine, che Catullo avesse lodata Sirmione, che gli piaceva tanto. Mentre era alla lettura più inteso, pervenne un certo suono novello al suo orecchio, che si aguzzò subito; e avendo il guardo condotto intorno intorno a quelle piante, a quell’erbe, a quei sassi parve a lui, e ben parve, che tacessero tutti. Chinò gli occhi nell’acqua suggetta, e come egli sedente era sul margine estremo, e l’acqua del Lago sempre pura e trasparente giaceva allora tranquilla e piana, vide nel fondo pietroso del lago un congresso di pesci allegri: e sebben filosofo fosse men di Talete, fortunato fu al par di Enareto, e intese, che cantavan versi nuziali nel maritaggio di una Trota. In quarto luogo conchiuse, che la canzonetta, di che mi faceva un dono per amicizia, era solamente una traduzione, benchè forse più fedele di parecchie altre traduzioni di Autori greci, e latini. Cioè egli ha esposti in versi italiani i sensi presso poco raccolti dal Carpione. Ha giudicato, che una Canzonetta Anacreontica basti per un Carpione; perchè se si dovesse far parlare con dignità un gravissimo Burbero Mantovano, uopo sarebbe aver ricorso ai versi sciolti lunghi splendenti sonori, quali sono i versi dell’elegante vostro Concittadino il Padre Bettinelli; e se uno Storione s’introducesse, o un Tonno di trecento e cinquanta libbre, tutta richiederebbesi la maestà del poema Virgiliano. E giacchè si è nominato il bravissimo P. Bettinelli, io, come io, non posso non fare di passaggio una considerazione, che recherà a lui gran rossore e dispiacere. La considerazione è questa: che, mentre egli scrive versi felicissimi contro ai versi delle Raccolte, i pesci stessi (chi l’avrebbe pensato mai!) somministrano materia alle Raccolte: e che i pesci hanno aspettato a farsi udire almeno tanto solennemente, ch’egli venga in Italia, essendo vissuti moderati e quieti, finchè egli o viaggiò la Germania, o abitò Parigi: e che sono i pesci appunto del lago di Garda, i quali menano tanta superbia, mentre egli soggiorna in Verona, che dal lago di Garda si vuol riverire; lo che è come un volerlo senza modestia insultare sul volto. A lui non resta che la disperazione, e la vendetta. E la vendetta potrebbe esser comandar, che si acchiappino quanti più si possono di quei pesci primarj, e dirò così, patrizj del Lago; e in tutta questa quaresima che incomincia dimani, non voler mangiare altro; perdonandola intanto agl'innocenti merluzzi del Canadà; perchè non credo, che lungo la Costa di Neufondland, nè all’Isola di Sable vi sia costume di stampare Raccolte in occasione di nozze, onde neppure verrà simile talento ai Baccalà di que’mari.
Sinora vi ho detto le ragioni, perchè quel Poeta mio amico ha voluto comporre una canzonetta in persona del Carpione: resta ora che vi dica le ragioni; perchè la mando a voi tal Canzonetta, ornatissimo Signor Conte. La ragione è propriamente la osservata uniformità di pensare tra voi Autore del Ditriambo, e il Carpione autore della Canzonetta; perchè la poesia dell’uno e dell’altro è finalmente un bel tratto di filosofia morale. Voi non usate moltissimi versi a rintracciare tutte le glorie vetuste delle due Case, alto vostro argomento, di per se note e illustrissime; nè il Carpione s’intertiene a esaltare la chiara nobiltà della Trota stirpe italiana antichissima a giudizio de’migliori critici. Dico a giudizio de’migliori critici; perchè si crede, che la famiglia della nostra Trota sia originaria del lago di Garda; e non sia venuta alle nostre contrade, quando gl’Imperatori golosi da un mare all’altro, e da uno a altro fiume, o lago comandavano lo trasportamento delle colonie de’ pesci. Sanno essi i critici, che i latini vecchi non fanno menzione della Trota sotto a questo vocabolo; dacchè fu Sant’Ambrogio il primo a nominarla fra i latini, siccome Eliano fra i Greci; ma pensano probabilmente giusta il pensar dello Scaligero approvato infra gli altri dal De Sallengre nel tomo primo delle antichità Romane, che sotto al nome di Forione si voglia intendere la Trota. Voi non perdete l’opera del vostro inchiostro a descrivere le saette, le fiaccole, e le ali di amore; e neppure il Carpione ricorda simili favole. É vero, che amore qualora va sott’acqua deporrà la face e le penne, perchè la face s’estinguerebbe, e si bagnerebbero le penne con grave impedimento al nuotare: nulladimeno amore ancor nel regno dell’acque prenderà qualche bizzarra abitudine della persona, che il Carpione non giudica di descrivere geloso di non discendere a bagattelle. É un piacere il gustare ne’ vostri elettissimi versi la dolcezza, onde condire la severità della giusta e santa morale, e il vagheggiare la benavveduta grazia, onde leggiadramente riprendete le Dame novelle de’ nostri tempi, e lodate le vecchie de’ buoni tempi andati, quando il filare non era vergogna, e il ricamare era gloria. Voi determinate con verità l’epoca della vita mollemente pigra, che si usa oggidì; essendo venuta in Italia la effeminatezza fra l’asprezza delle spade, e l’ozio fra il furor de’ cannoni cogli Eserciti forestieri; perchè, come voi acconciamente dite, videsi allora Marte ne’ sollazzevoli inverni, deposto l’elmo e lo scudo, andar a fianco di Venere in un carrozzino dorato per le italiche Città. Voi celebrate la marital fede, e la cura della prole, il governamento delle famiglie, e voi date cento precetti tutti pieni di saviezza. Il Carpione non può abbracciare tanta dottrina nella sua Canzonetta, che è breve, e si restrigne a trattare della costumata educazione de’ figlj, che è poi la cura precipua del Matrimonio. Eccovi, o egregio Cavaliere, alcuni tratti di rassomiglianza: ed io non so non congratularmene con esso voi infinitamente. Prestantissimo pesce è il Carpione: nè io credo, che al mondo vi sia mai stato, o vi sia altro uomo che Paolo Giovio nel suo libro de piscibus Romanis, il quale mostri desiderio di potere non lodare il Carpione. Ma quel Monsignore, non so, se o per rivalità de’ laghi, essendo egli nato su quello di Como, o per altra cattiva affezione di animo sempre dimentica il lago di Garda, quando il dovrebbe più ricordare. Egli se ha a citar tinche non vulgari, come le ordinarie, di cui scrive Ausonio:
Virides vulgi solatia tincas,
cita quelle del lago di Santa Prassede, e neppure accenna i rinomati tinconi del Benaco: e se ha a citar buoni lucci, cita solamente quei del Trasimeno, e disperato di ritrovarli belli, e perfetti in Italia passa i monti, e naviga i mari celebratore de’ lucci Franzesi, e de’ lucci grassi grassi d’Inghilterra. Non curiamo il Giovio: e basti dire, che il Fracastoro esercitò il suo ingegno per lodare il Carpione, il quale, a udir lui, mangia oro. Il Carpione dunque, secondo il Fracastoro, si può appellare bocca d’oro, e però può esser preso almeno per figura a rappresentare uno Scrittore aureo, come voi siete. Ecco la Canzonetta.