greco

Aristofane 422 a.C. 1545 Bartolomio Rositini/Pietro Rositini Indice:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu Teatro teatro Le Cereali Intestazione 5 giugno 2025 75% Teatro

Questo testo fa parte della raccolta Commedie (Aristofane)


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LE CEREALI D’ARI-

STOFANE. COMEDIA. X.

Persone de la Comedia.

Mnesiloco socero d’Euripide.
Euripide. Servidore.
Agathone. Coro.
Precone. Una donna.
Un’altra donna. Et un’altra donna.
Clistene. Mezzo coro di donne.
Echo. Scita.

mnesiloco.

OO
Giove, mò quando si vedrà mai la rondine? mi fa morir quest’huomo à farmi andar vagante da mattina: è possibile, avanti che io butti ben fuora la milza ò Euripide, che da te oda, ove mi meni?
Eu. Ma non bisogna che tu odi ogni cosa, perche presto lo vedrai presentialmente.

Mn. Come ditu? dì un’altra volta. non bisogna ch’io oda?
Eu. Non quelle cose, che tu hai à vedere.

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Mn. Ne ancho bisogna adunque che io le vega.

Eu. Non già quelle che bisognerà udire.
Mn. A che modo m’ammonisci tu? tu dici a’l meno destramente. non dici tu, che mi bisogna, ne udire, ne vedere. perche la natura de l’uno e l’altro è separata ne d’udire, ne di vedere.
Eu. Ben sai, che.
Mn. A che modo è separata?
Eu. Queste cose à questo modo furono distinte à l’hora: che l’etere in prima quando fu spartito (et in se stesso insieme generava animali moventisci) con il quale bisogna vedere, prima formò l’occhio simile à la ruota de’l sole, et lo udito de’l buco de gli orecchi forò.
Mn. Per il buco adunque, ne odo, ne vego. per Giove m’alegro ben di questo, che sopra habia imparato, di che sorte, e dove sono i savij conventiculi.
Eu. Tu impararessi bene molte tai cose da me.
Mn. A che modo dunque bene?
Eu. Apresso à questi beni trovarei à che modo fin’hora imparasti non esser zoppo de la gamba, và quà, et avertisci.
Mn. Ecco.
Eu. Veditu questa portella?
Mn. Per Hercole penso pur di vederla.
Eu. Hor taci.
Mn. Tacio la portella.
Eu. Odi.

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Mn. Udirò et tacerò la portella.

Eu. Quì Agathone glorioso habita, tragico poeta.
Mn. Come è fatto questo Agathone? qual Agathone? è forsi negro, gagliardo?
Eu. Non, ma è un’altro. non l’hai tu mai veduto?
Mn. Ha egli la barba?
Eu. Non l’hai tu mai veduto?
Mn. Non per Giove, non io già, che sapia.
Eu. Et tu forsi hai chiavato, ma per aventura no ’l sai. ma fugiamo fuor d’i piedi, che vien fuora un suo servidore, che ha de’l fuogo, et de le bachette di mirto: par che voglia sacrificare à la poesia.
Ser. A tutto il popolo sia buon’augurio. et chiudi la bocca, perche la festa de le muse e le istesse musiche comincian haver potenza ne le corti de’l patrone, et l’etere habia il siato tranquillo, et la verde aqua de’l mare non strassuoni.
Mn. Bombax.
Eu. Taci, che ditu?
Ser. Et le generationi de gli ucelli s’adormentino, et i piedi de le salvatiche siere che corrono per le selve non si sciolgano.
Mn. Bombalobombax.
Ser. Perche primo il nostro Agathone da le belle parole ha ad essere.
Mn. Che forsi, esser chiamato?
Eu. Chi ha parlato?
Mn. Il cheto ethere.

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Ser. A metter chiodi ne principij de la favola. torze nuovi scuti di parole, et altre cose fà a’l torno, et altre attacca insieme à pezzo à pezzo, et forma sententie, et usa antonomasie, et discola la cera, et la fà rotonda et la manda giu.

Mn. Et sbelletta.
Ser. Che villano è quello, che vien ne la corte?
Mn. Quello ch’è pronto à te, et a’l poeta che ha bella loquela di corte, che inrotonda, et contorze questa verga à infundere.
Ser. Sei tu mai stato ò vecchio sprezzatore de’l nuovo certame?
Eu. O huomo da bene lascia andar costui in buon’hora, et tu con ogni arte chiamami quà Agathone.
Ser. Non pregare, che esso tosto verrà fuora, perche commincia à modulare. et essendo d’inverno non è cosa facile à torzere le conversioni, se non andrà fuora a’l Sole.
Mn. Che farò io adunque?
Ser. Aspetta, che verra fuori.
Mn. O Giove che pensitu di farmi hoggi?
Eu. Per i dei io voglio udire che cosa è questa. che piangitu? di che hai tu noia? non bisognava che celasti quello ch’è mio socero.
Mn. Emmi parecchiato un certo gran male.
Eu. Di che sorte?
Mn. In questo dì d’oggi si giudicherà, ò se è vivo anchora, ò se è morto Euripide.

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Eu. Et à che modo? perche pur anchora ne i giudicj sono per giudicare, ne vi sarà sedia de’l senato, perche il terzo dì de le feste di Cerere è il giorno di mezzo.

Mn. Questa cosa medesima pur, et il morire aspetto. per ciò che le donne m’hanno aguatato, et ne i sacrifici de la dea Cerere sono per venire hoggi à predicar de la mia morte.
Eu. Et perche mò?
Mn. Perche io fo tragedie, et dico male di loro.
Eu. Per Nettuno tu patiressi anchor cose giuste, ma che machinatione et imaginatione hai tu da questo dì?
Mn. Che Agathon maestro di tragedie creda di venir à i sacrificij di Cerere.
Eu. A che far? dimi.
Mn. A predicare fra le donne, et se bisognerà, à dire per me.
Eu. Palesemente ò secretamente?
Mn. Secretamente, vestito con vesta di donna.
Eu. Cosa e galante et terribile secondo i tuoi costumi. per ciò che la fugazza è nostra per l’imaginare.
Eu. Taci.
Mn. Che cosa gli è mo?
Eu. Agathone vien fuora.
Mn. Et che è costui.
Eu. Quello disregolato.

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Mn. Ma certo io son pur cieco, che io non vegio huomo niuno, che sia quì, et vego Cirene.

Eu. Taci, ei parecchia di cantare.
Mn. O che canta qualche cosa de le vie de la formica.
Ag. Giovani vergini pigliate la sacra facella da portar à le inferne dee, à Cerere, et à Proserpina con la patria libera, ballate a’l suono.
Co. A qual de dei si fà hora la festa et il ballo? dimi. et fidelmente, cosa che appartiene à me, puoi adorare i dei.
Ag. Horsu musa hora arma Febo presidente de gli archi d’oro, che ha edificato i monti de’l paese de la terra Frigia.
Co. Alegrezza ò Febo da le belle canzoni, che preferisci il sacro dono ne i strassuonanti honori.
Ag. Et lodate quella vergine. che ne i monti selvosi habita, cantando Diana agreste.
Co. Seguite celebrando la riverenda, predicando la discendenza beata di Latona, Diana che non conosce il letto.
Ag. Et lodate Latona, et con il piede essercitate i balli de la terra d’Asia et fuor d’ordine, et ordinatamente, et i numerosi cenni, et rotationi de le belle gratie.

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Co. Riverisco et la regina Latona, et la Cithara madre de le lodi, con canto de maschij figuri, con il quale la luce s’è eccitata à gli occhi divini, et per la nostra subita voce, per le quali laudi ogn’uno riverisce il signor Febo. alegrezza beato figlio di Latona. tu giubili ò vecchio.

Mn. Che soave melodia ò riverende genetillidi, et feminile, et lasciva, et molle, che udendola io, sotto à questa sedia m’è venuta la tentatione. Hor ò giovane voglioti dimandare, che sei, secondo Eschilo da la Licurgia tragedia: donde sei mezz’huomo, che patria è la tua? che vestimenta? che confusion di vita? che parla il barbito co’l crocoto, et che cosa il bocal da l’oglio et il strosio? per che è cosa disconveniente, mò che compagnia di specchio et di spada? che sei poi tu ò giovane? sei forsi nodrigato come un’huomo? ove hai tu il membro virile? ove è la Chlena, ove le vesti Laconice? ma come donna certo sei nutrito. poi ove hai le poppe? che dici? che taci? ma veramente per melodia ti chiedo, poi che tu medesimo non lo vuoi dire.
Ag. O vecchio, vecchio, hò ben udito il vituperio per l’invidia, et non ti hò molestato. io porto la veste insieme con la sentenza. bisogna che un poeta habia i costumi circa à quelle favole che hà da fare. incontanente se alcun facesse favole donnesche, bisogna che’l corpo habia partecipatione de costumi.
Mn. Dunque sei menato su’l cavallo, et lo cacci, quando fai Fedria.

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Ag. Ma se alcuno farà favole da huomo, ne’l corpo gli è questo: et quello che non habiamo, la imitatione gia ciò ricerca.

Mn. Quando rappresenterai i Satiri, chiamami, che io t’aiuto di dietro à quel fatto dirito io in piè.
Ag. Poi egli è una cosa de ignorante che’l poeta vega un che sia villano peloso. ma considera che quello Ibico et Anacreonte Teio, et Alceo, che circa la musica et il cantar si sono versati, portavano mitrie da donna et ballavano à la Ionica, et Frinocoo, che l’hai ben’udito à dire, et esso era bello, et da bello si vestiva. et per ciò adunque anchora erano belle le sue poesie et favole, perciò che è forza che la natura facia cose simili.
Mn. Per ciò adunque Filocle ch’è dishonesto, fa dishonestamente, et Zenocle anchora che è malo, fa male, et Theognide anchora ch’è freddo, fa freddamente.
Ag. A tutti è forza far cosi. et perche questo io ho conosciuto, mè istesso hò guarito, et sanato.
Mn. A che modo domenedio?
Ag. Cessa di baiare, per ciò che et io anchora era cosi fatto, essendo cosi grande et grosso, quando cominciai ad essere poeta.
Mn. Non per Giove, non t’hò invidia de la dottrina.
Eu. Ma per che causa sono venuto, lasciamiti dire.
Ag. Dì.
Mn. Agathone è huomo savio, chiunque può in brevità ben comprendere molte parole. et io da la commune calamita percosso son venuto à pregarti.

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Ag. Dì che hai bisogno?

Mn. Le donne sono per ammazzarmi hogi ne le feste de la dea Cerere, perche dico male di loro.
Ag. Che aiuto puotemo noi darti?
Mn. Ogni aiuto: per ciò che sederò nascosamente frà le donne, tenuto che sia come donna, risponderai per mè et prudentemente mi salverai, perche tu solo dirai cose degne per mè.
Ag. Poi perche non gli rispondi tu personalmente à facia à facia?
Mn. Io te lo dirò. prima io son conosciuto, poi son canuto, et hò la barba, et tu sei bello bianco, raduto, hai la voce donnesca, sei molle, appariscente à veder.
Ag. Euripide.
Eu. Che cosa gli è?
Ag. Hai tu mai scritto poesie? T’alegri veder la luce, e il padre. non pensitu ch’egli s’alegri?
Eu. Io sì.
Ag. Hor non sperar, tuo mal grande, d’haverne noi sotto, per ciò che impazziressimo, ma tu quello che è tuo, portalo domesticamente: perche il dover vuole che si porti calamità non à i pianti, ma à le passioni.
Mn. Et pur tu anchora ò impudico hai largo il buco de’l sedere, non per parole, ma per passioni.
Eu. Che cosa è dunque che hai paura andar là?
Ag. Pegio morirei che tu.
Eu. A che modo?

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Mn. A ciò che paressi et fossi veduto à robar di notte le opere de le donne, rapir nascosamente una donna Ciprigna.

Eu. U robare, per Giove subagitarla adunque a’l meno.
Ag. Ma la simulation per Giove stà cosi.
Eu. Perche adunque farai questo?
Ag. Non pensar gia tu.
Eu. O me disgratiatissimo, come son’io Euripide morto.
Mn. O carissimo, ò messere, tu medesimo non ti tradire.
Eu. A che modo farò io mò?
Mn. Fa che costui pianga di lungo. et mè pigliami et adoperami à che modo vuoi.
Eu. Hor su quando ti offerisci à me, cavati questo mantello.
Mn. Et gia il getto in terra. ma che mi vuoi fare?
Fu. Raderti qua, et brusciarti di sotto.
Mn. Ma fallo, se cosi à te pare, ò che non doveva mai darmiti ne le mani.
Eu. Agathone portami un poco una volta il rasore, dami adunque il rasore.
Ag. Tu istesso piglialo quà ne la guagina de gli rasori.
Eu. Sei eccellente, et valent’huomo, sedi, sgonfia la mascella destra.
Mn. Oime.
Eu. Ch’hai gridato? te gli cacciarò un palo, se non taci.

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Mn. Attata, attate.

Eu. O tu ove corri?
Mn. Ne la chiesia de le reverende dee, non gia, nò nò per Cerere, non starò quì à farmi uccidere.
Eu. Non ti farai sbeffegiar da ogniuno se vai con una mascella raduta?
Mn. N’hò poco pensier io.
Eu. Non di gratia, non mi tradire. vien quà.
Mn. Disgratiato che son io.
Eu. Stà cheto, et guarda in su, dove ti voltitu?
Mn. My, my.
Eu. Che brontolitu? ogni cosa è stata fatta bene.
Mn. Oime sventurato, soldato legiero un’altra volta andarò à la guerra.
Eu. Non haver pensiere, che parerai molto appariscente. vuoi tu guardarti a’l specchio?
Mn. Se tu vuoi, portalo.
Eu. Ti veditu?
Mn. Non per Giove, ma Clistene.
Eu. Leva su. io ti brusciarò. conciati à guardar in su.
Mn. Oime infelice diventarò un porcellino, ò una rebeba di donna.
Eu. Portimi alcuno de là di dentro una candela ò una lume. inchinati et guarda giu, habi guarda hora de la alta coda.

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Mn. N’havrò ben io cura, se questo non mi dee essere à noia che sono abbrusciato. oime povereto, aqua, aqua, ò vicini, avanti che ’l culo appiglij la fiamma.

Eu. Stà saldo, non dubitare.
Mn. Che degio star saldo,abbrusciato da’l fuoco?
Eu. Ma non vi è piu cosa alcuna. tu hai ben sofferito il piu.
Mn. Oime per tal abbrusciamento m’ho fatto brusciar tutto ciò che e à torno a’l culo.
Eu. Non pigliar noia, che un’altro te lo sorbirà via con una spongia.
Mn. Piagnerete dunque se un’altro mi lavarà il culo.
Eu. Agathone quando tu non voglij darneti, imprestane a’l meno la veste à costui, e il pettorale: per ciò che non dirai queste cose che non sono.
Ag. Pigliatela, et adoperatela, non dico de nò.
Eu. Mo perche la toglio?
Ag. Perche? pigliala da vestir prima il Crocoto.
Eu. Per Venere il dolce membro virile sa ben di buono.
Ag. Sottocingiti tosto, leva via hora il pettorale.
Eu. Ecco.
Mn. Hor su acconciami, et mettimi le calze.
Eu. Gli bisogna un sacchello e una mitria.
Ag. Quella è quella che si mette in testa, che io porto di notte.
Eu. Si per Giove et stà molto bene.
Mr. Staralla forsi bene à mè?
Ag. Certamente, ella stà benissimo.
Eu. Portami la veste tonda.
Ag. Tuolla giu de’l letto.

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Eu. Egli vuole, anchor le scarpe.

Ag. Piglia queste mie.
Mn. Che mi staranno bene?
Ag. Tu non hai appiacere à portar le scarpe larghe? tu sapi che hai ciò che ti bisogna.
Mn. Tosto tosto alcuno mi involga dentro.
Eu. Huomo è gia costui à noi, et hor semina in tal forma, ma se parlarai, cerca che con la voce sapi far bene da donna et verisimelmente.
Mn. Mi approvarò.
Eu. Và adunque.
Mn. Non, per Apolline, nò, se ben non me lo giurasti.
Eu. Che cosa?
Mn. Che tu m’habi à salvare in ogni guisa, se mi averrà mal niuno.
Eu. Giuro adunque l’ethere, ove habita Giove. che piu che la cohabitatione d’Hippocrate? giuro adunque affatto tutti i dei.
Mn. Arricordati adunque di questo, che ’l cuore hà giurato, ma la lingua non hà mica giurato, ne anche
io t’ho fatto giurare. giubilano, fanno festa, gridano le donne, et la sacrata compagnia et pompa si parecchia.
Eu. Fa tosto, affrettati, che si sente il segno de la predica, che si hà à fare ne la chiesia di Cerere, et io me ne vado via.

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Mn. Vien mò quà ò fante di Tracia. seguimi ò fante. guarda, quanta copia d’ardenti facelle ascende per la fuligine. mà ò bellissime cereali ricevetemi con la buona ventura, et quà venite anchora per ritornar à casa, ò fante pon giu la cista, tirala giu, et poi cava fuori la fugazza, che la pigliarò, et la sacrificherò à le dee. signora osservandissima, Cerere cara, et Proserpina, concedimi assai cose, che io spesso ti possa sacrificare, se nò, almeno hora che stia ascoso. et à la mia figlia giovane dà per marito un’huomo ricco et altresi pazzo et grossolano. et che io habia l’animo et la mente à le cose Veneree. ove, ove sederò io in un bel luogo per udir quelli che vogliono predicare? ma tu và via ò fante de quì per mezzo, perche non è lecito che i servi odano parole buone.

Pr. Benedetto sia, benedetto sia. pregate le sante portalege Cerere et la figlia, et Pluto, et la bella Nobeltà, et la Terra nutrice de fanciulli, et Mercurio et le Gratie: che questa predica et questa congregatione presente facciano essere bellissime et buonissime, in grand’utilità de la cità degli Atheniesi, et felici à noi medesimi. et pregate che di queste donne quella che fa et dice cose ottime a’l popolo Atheniese, possa superar tutte le altre. pregate, cosa ch’è anchor à voi buona. iè Peòn, iè Peòn, iè Peòn, alegriamosi.

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Co. Preghiamo anchora la generatione de gli dei, et sopplichiamogli con queste preghiere, facendosi vedere alegre. Giove di gran nome, et tu che adoperi la lira d’oro, che stai in Delo sacro, et tu omnipotente giovane Minerva, ch’hai gli occhi gialli, et ch’adoperi l’aurea lancia, che habiti ne la famosissima cità, de la quale ogniuno combatte, vien à noi. ò de molti nomi, ò Mazzapithone, figlio e germine di Latona ch’hà gli occhi d’oro. et tu marino bonorando Nettuno, Rè del mare, lasciando ’l golfo pescoso, tempestuoso, et ò figlie di Nereo marino, et voi nimfe montivaghe · la lira d’oro faccia ’l suo dovere ne le nostre orationi, et perfettamente predicaremo le gentil donne de gli Atheniesi.
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Pr. Fate oratione à i celesti dei et dee, et à quelli et à quelle di Pithio, et à quelli et à quelle di Delo, et à gli altri dei. se alcuno per aguati ordina qualche male a’l popolo, quello de le donne, ò fa tregua, ò amicitia con Euripide et Medi per qualche danno di femine, ò pensa d’occupare lo imperio, ò condurgli un’altro signore, ò s’alcuna hà discoperto quella che mette fuora il fanciullino, ò la serva di alcuno ruffiana ha diffamato il suo patrone, ò qualche messagiera porta le false nuove, ò un adoltero se inganna dicendo ’l falso, et non harà dato quello che una volta hà promesso, ò qualche donna vecchia darà doni à lo adoltero, ò vero anchora la traditora meretrice un’ amico riceve, et se qualche hosto, ò hosta guasta la misura, ò la usanza et costume de le hemine. pregate che malamente muoia costui et la sua casa, et per tutti voi altri pregate che i dei vi diano molti beni.

Co. Di compagnia preghiamo, che queste orationi et preghiere siano fatte compitamente et à la cità, et a’l popolo. son buonissime à che elle convengono, à quelli che si consultano di vincere, et à che ingannano, et sono violatrici d’i patti et giuramenti constabiliti et fermi per le legi, in danno, per guadagno. ò che cercano cangiare et mutare i decreti, et la lege: et dicono le cose secrete à i nostri nimici, ò menano i Medi ne’l nostro paese, per ciò che con suo danno mal si diportano, et fanno ingiuria à la cità. ma ò Giove onnipotente conferma queste cose, à ciò che i dei ne stiano apresso, et siano propicij, anchor che gli siano le donne.
Pr. Oda ogn’un, questo è paruto cosi a’l senato de le donne, à cui Timocle era preside, Lisilla faceva il scrivano: e disse Sostrata, stà mattina de le feste di Cerere, di far la congregatione de le donne à mezzo dì, ne la quale havevamo assai tempo et di trattare prima d’Euripide, che cosa bisogna ch’egli patisca, per ciò che pare ingiuriarne tutte noi. chi vuol predicare?
Una d. Io.

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Pr. Hor mettiti prima intorno questo, avanti che dichi. taci, citto, metti mente, hor già ella sputa, quello che fanno i predicatori. ella pare voler parlare lungamente.
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Una d. Con niuna ambitione ò superbia, non per le dee Cerere, et Proserpina sonmi levata à dire ò donne. ma duolmi bene meschina mè, già gran tempo fa vedendovi svillanegiate, et sprezzate da Euripide figliuolo d’un’hortolanuccia. ho io udito molti et diversi mali che dice di noi. et che villanie non ne sputa adosso costui? et ove non ne ha egli vituperate? ove in breve sono spettatori et tragedi et cori. adultere et meretrici chiamondone, ebriache, traditore, zancitrici, niuna cosa di sano ò di buono, gran male à gli huomini. onde subitamente entrano gli huomini da i solari de’l teatro, et con occhio storto ne guardano, et incontanente cercano se adultero alcuno è dentro nascoso. et à noi niente piu è lecito à fare, di quello che facevamo per inanzi. costui ha insegnato à i nostri buomini si satti mali, che se qualche donna pieghi una corona ò ghirlanda, ella paia essere inamorata, e se gettarà via qualche vasetto per casa, il marito le domanda à chi ha ella rotto il bussolo. non bisogna dir à che modo giovane alcuna, a’l forastier Corinthio, non habia qualche difetto. subito il fratel dice, questo color di giovane non mi piace, glielo concedo, qualche donna vuole essere ben cavagnata, che non ha figliuoli, ne anche questo è da tener secreto, per ciò che gli huomini già stanno apresso à i vecchi, che avanti loro toglievano per moglie le giovani. gli ha fatto villania di modo che niun vecchio, per questo verso, che è signora una donna maritata à un vecchio sposo. per questo attaccavano signacoli à le camare de le donne, et già havendo avertimento à i chiudimenti de la porta, guardavan noi. et oltre à ciò notriscono cani mastini, immascaramenti et cose da paventare, à gli adolteri cani. et conoscete questo che noi avanti havevamo. noi havevamo à ricevere elegendo di guardare et haver cura de la dispensa, farina, oglio, vino, ne questo piu n’è lecito, che già gli huomini istessi portano le chiavi secrete, malitiosissime di Laconia, che hanno tre chiodelli. ma prima ben era lecito aprir le porte à quelle che fanno anella per buon mercato. hora questo figliuol di massara Euripide gli ha insegnato cose minute, che hanno appiccato i sigelli rossicati da le tarme. hor dunque à me par questo, di parecchiar qualche rovina à che si voglia modo, ò con beveragi, ò con una sola arte, per farlo morire. questo io dico manifestamente. le altre cose poi scriverò insieme co’l scrivano.
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Co. Non ho mai udito donna piu astuta di questa, nè chi dica piu saviamente. tutte le cose dice giuste, et ha essaminato tutte le forme di eloquenza, et ogni cosa ha portato ne la mente, et abondantemente et saviamente ha trovato varij ragionamenti ben cercati, come se dicesse à suo paragone Senocle di Carcino. parrebe desso non dire, come io stimo, à tutte voi niente per modo alcuno.

Un’al. d.   Per dir poche parole io son venuta. per ciò che de le altre cose questa donna ha ben ripreso. ma quello che ho patito, ciò voglio dire, che à me è ben morto il marito in Cipro, che mi ha lasciato cinque figliuolini, che io à pena facendo de le corone ò ghirlande, gli faceva le spese fra i mirti. à l’hora adunque, ma ancho malamente mi spesiava. et mò costui ne le tragedie ha fatto che gli huomini credono che non vi sono i dei. onde piu non vendiamo ne anche la metà de le corone. hor dunque tutte vi aviso, et dico di punire quest’huomo per molte cause. perche ei ne fà ò donne di male villanie, come se fosse allevato ne le berbe salvatiche. ma vomene in piazza, perche bisogna far vinti corone sacrificatorie.
Co. Un’altra donna anchora un poco piu ornata di questa audacia, che la prima, hora è apparuta. come ha ella detto saviamente, non cose fuora di proposito. et ha ben buon cervello, et un sentimento di molte doppie. ne cose imprudenti, ma tutte probabili. et bisogna che questo huomo ne paghi la pena manifestamente di questa ingiuria.

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Socero d’Euripide stravestito da donna.   Quello che ò donne si forte havuto à noia d’Euripide udendo si fatte villanie, non è maraviglia, ne che vi boglia la colerà. et io istessa cosi aiutata sia da i figliuoli, se non odio et voglio male a quello huomo, m’impazzisco. nodimeno tra noi bisogna che faciamo conto. perche noi siamo desse, et niuna di noi fuora ne parlerà. perche havendo noi questo, accusiamo quello, et havemo à dispiacere, se ha detto doi ò tre mali di noi, conoscendone, et havendo fatto piu di mille favole? per ciò che io medesima, à ciò che non dica d’un’altra, so che ho molti vitij. ma quello è ben manco da sopportare, quando che fui stata sposa di tre dì, et mio marito apresso di me dormiva, mi venne à trovar un mio inamorato, che sette anni fà, che ond m’haveva tolta la virginità. costui per amor mio essendo venuto, batteva pian piano à la porta, incontanente lo conobi, poi vago giu da innascosto. et il marito mi domanda, dove vai tu? ove? io ho una gran doglia et tormento di corpo ò marito, et per ciò vò a’l cacatoio, và dunque. et poi costui siminuzzava cedri, aneto, sfaco. et io, sparsa de l’aqua su’l cardine de la porta, andaimi fuora à l’adultero, poi m’appogiai dietro la via forte attacandomi à un lauro. Di questo mai s’accorse Euripide, ne anche non dice che noi si faciamo chiavare da i serui, et da mulatieri, se non habiamo altro. ne che, quando s’habiamo fatto chiavar molto ben da qualch’uno la notte, la mattina poi mangiamo de l’aglio, à ciò che nasando et odorando l’huomo il muro de la casa, non habia sospitione di male alcuno che faciamo. questo, vedi, non ha mai detto. et se egli dice mal di Fedra, che ne fà à noi questo? ne quello ha gia mai detto, che la moglie habia mostrato la veste circolare à la luce del sole, quale ella è et come fatta, et ch’ha mandato fuora l’ascoso adultero. non l’ha mai detto. Un’altra ho conosciuta che diceva haver dolori di parto per diece dì, per fin ch’hebe compro un fanciullino, et il marito cercava per la cità di comprar cose che la facessero partorir tosto, et una vecchia gli portò in un’olla un fanciuletto, c’havea stoppa la bocca à ciò che non gridasse. poi come la vecchia che lo portava, le fece cenno, la donna subito le dice forte, và via, và via: à man’à mano ò marito à me pare homai di partorir, per ciò che’l fanciulletto m’ha tratto d’i calzi ne la panza: et costui alegratosi tutto, corse: et costei distoppò la bocca de’l fanciullo, et questo grido. poi la scelerata vecchia che portava il fanciullo corre ridendo a’l marito, et dice, t’e nasciuto un lion’un lione, è propria la tua forma, et in tutte l’altre cose, et la becchina tutta simile à la tua: et torta, come la pelle de la capella. Noi se faciamo questi mali, per Diana contra d’Euripide si accorrociamo niente havendo patito, et niente sendone intravenuto piu di quello che havemo fatto.

Co. Questo è pur maraviglia, d’onde sia trovata questa cosa, et che paese habia allevato costei cosi arrogante. che non haverei mai stimato che questa scelerata e rea femina fosse stata per dire queste cose sì manifestamente senza rispetto ò vergogna alcuna, ne che mai fosse stata per haver ardimento. ma ogni cosa può ben già essere. et laudo quest’antico proverbio, che sotto ogni pietra da per tutto bisogna guardare che ’l dicitor non ti morda. pur tuttavia che le donne siano per natura imprudenti, niuna cosa è pegiore fra tutte le cose, eccetto che le femine.
Don. Non per la cacciatrice Diana ò donne, non ben la intendete. ma ò che sete state incantate, ò che vi è intravenuto qualche altro magior male, che noi tutte lasciamo che costei de’l diavolo ne facia si fatte villanie, se pur v’è alcuna? se nò, noi medesime, et le fanticelle togliamo de la cenere in qualche luogo, et andiamole à pelar la natura, à ciò che à questa femina essendo femina, sia insegnato à non dir mal da quì inani de le donne.
Soc. Nò, nò, la natura ò donne. che se gli è la libertà de’l dire, ciò sia lecito à noi medesime tutte, che quì siamo. poi dissi quello che seppi cose giuste in favor d’Euripide. per questo bisogna che io sia pelata et pagarvi la pena?

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Don. Non bisogna già che tu patisci la pena, che tu sola hai havuto ardire in favor d’un’huomo contradire, che ne ha fatto tanti mali. à bella posta hai pensate le parole. ove una femina rea et trista è stata Menalippe facendo Fedre, et Penelope, mai non ha fatto, che femina sia paruta da bene.

Soc. Io so bene la causa, che non diresti già una essere Penelope di queste femine di questo tempo, et Fedre le potresti dire tutte universalmente.
Don. Udite ò donne che ha detto questa ribalda et trista anchora à noi tutte.
Soc. Et in fè di dio non ho anchora detto ciò che so. volete un poco che ne dica di piu?
Don. Ma piu non potresti, perche ciò che tu sapevi l’hai butato fuora.
Soc. Non per Giove, ne anche di mille parti una di quelle cose che faciamo. poi non ho gia detto (veditu?) che togliamo qualche ghiozza d’oglio, poi pigliamo il mangiare per una canna.
Don. Postu crepare.
Soc. Et che diamo la carne à le ruffiane ne le feste Apaturie, et poi diciamo che gli è stato il gatto.
Don. Trista me, tu dici de le baie.
Soc. Ne anche non ho detto, che una moglie percosse il marito con la segure: ne che un’altra volta con un beveragio fece impazzire il marito, ne che altre volte una gli fece una busa sotto a’l bagno.
Don. Fusti morta.

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Soc. Acharnice suo padre.

Don. Queste cose sono mò da tolerarle?
So. Ne anchora che tu, la fante partorendo un fanciullino, te l’hai posto sotto à te medesima, et la tua fanciullina hai posta sotto à quella.
Don. Non per le dee, non la fugirai tu, dicendo questo, ma ti pelarò giu i peli.
So. Per Giove tu non mi toccherai ne anche.
Don. Et pur ecco, et pur ecco, piglia sta vesta ò Filista.
So. Fatti in quà un poco, et io tè, per Diana.
Don. Che farai?
So. La fugazza sesamina che hai mangiata, tè la farò cacare.
Co. Cessate di gridare, che una femina à noi corre con fretta. Hora adunque che noi siamo insieme, tacete, à ciò che possiamo udire saviamente, che cosa ella dirà.
Cli. Care le mie donne, parenti de i mei costumi, che io vi sia amico, le ree femine lo sanno bene. per ciò che impazzisco come fanno le donne, et sempre son vostro interprete, et hora udita una gran cosa di vuoi poco piu avanti detta per tutta la piazza, vengo per dirla, et farlavi sapere, à ciò che vegiate et osservate, et che non n’intervenga sendo di sproviste et non fornite una cosa terribile e grande.

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Co. Che cosa gli è ò putto? è convenevole chiamarti putto, sino à tanto che non hai pelo in barba.

Cli. Dice che Euripide hoggi quà hà mandato un’huomo vecchio, suo socero.
Co. A che fare, ò per cui consiglio?
Cl. A ciò che di ciò che vi consigliate et sete per fare, egli fosse spione et de i consiglij et de le parole.
Co. Et à che modo è stato nascoso trà le donne egli ch’è huomo?
Cli. Euripide gli hà dato il fuoco, et eglile hà stirpato i peli, et de’l resto come una donna l’ha adornato vestito.
So. Credete voi à costui queste cose? qual huomo sì pazzo, chi sofferisse che gli fossero cavati i peli? non credo miga io che la sia cosi. ò dee honorande.
Cli. Tu cianci. io non sarei gia venuto à farlo sapere, se non havesse udito questo da quelli che’l sanno certo.
Co. Questa cosa si annuntia grave, ma ò donne non bisogna dimorare, ma spionare et cercar l’huomo lì ove egli s’è ascoso, à noi sedendo. et tu anchora trovalo à ciò che habi ò compagno questa et quella gratia.
Cl. Lasciami un poco vedere, che sei tu per la prima?
So. Ove si voltarà alcuna?
Cl. Perche sete ad esser cercate.
So. Disgratiata me.
Don. Mi domandi tu che sono? son moglie di Cleonimo.

[p. 266v modifica]
Cl. Conoscete voi per ventura, che donna è questa?

Co. La conosciamo sì, hor guarda le altre.
Cl. Et questa ch’ella, che ha ’l fanciullino?
Don. Questa ella è la mia balia.
So. Me ne muoio.
Cl. O tu dove vai? stà quì, che mal è questo?
So. Lasciami andare à pissare, senza vergogna che tu sè.
Cl. Tu fa ciò, che dici, che io l’aspetto quì.
Co. Aspettala pur, et cerca ben se è quella: perche ò ’l mio huomo quella sola non conosciamo.
Cl. Tu pissi pur ben’ assai.
So. Sì veramente ò povero, che hò male ne la vesica. hieri mangiai d’i cardami.
Cl. Che? cardami? non verrai tu quà à mè?
So. Perche mi tiri tu, che sono ammalata?
Cl. Dimi, chi è tuo marito?
So. Tu domandi ch’è mio marito? conoscitu cotal, quello da Cothocidi?
Cl. Cotale. quale? è egli quel tale che è stato altre volte?
So. Cotale figliuol di cotale.
Cl. Tu mi pari dir de le zancie. sei tu mai piu venuta quà de le altre volte?
So. Sì per Giove.
Cl. Quanti anni sono? et qual è la tua compagna?
So. N’hò ben io una.
Cl. Oime meschino, niente dici.

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Don. Và via che la tormentarò ben io, et gli domandaro d’i sacrificij de l’anno passato. va un poco via tu, che non senti perche sei huomo. Tu dimi un poco qual era il primo sacrificio, che noi mostravamo. lasciami vedere qual era ’l primo.

So. Bevevamo.
Don. Qual era ’l secondo doppo questo?
So. Avanti bevevamo.
Don. Questo certo l’hai udito da qualch’uno, qual era il terzo?
So. Un vasselino mi domandò una donna fuorastiera. non era mica una mastella da l’orina.
Don. Niente dici. quà, vien quà ò Clistene, questo è quell’huomo che dici.
Cl. Che farò io poi?
Don. Spoglialo, per ciò che non dice niuna cosa di vero, ne di stabile.
So. Et poi spogliarete una madre di nuove figliuoli.
Don. Slargati presto il pettorale ò senza vergogna. come pare ella robusta et gaiarda. et per Giove non hà gia le poppe si come habiamo noi.
So. Ma sono sterile, et non ho mai havuto ’l ventre.
Don. Hor dunque sei madre di nuove figliuoli? leva su diritto, dove cacciatu sotto la verga? questo gia l’hà abbassato et è ben grossa, et ben colorita.
Cl. Et ove è?
Don. Un’altra volta và à la parte dinanzi.

[p. 267v modifica]
Cl. Non è gia quì.

Don. Mà qui viene un’altra volta.
Cl. Tu tiri fuora il membro piu grosso d’i Corinthij.
Don. Questo ribaldone adunque di queste cose n’accusava per Euripide.
So. Tristo che son io, in che travaglij m’hò io involto?
Don. Horsu che facciamo? guardate ben costui, che ei non fuga et vaga via. et io trà cotanto ’l farò sapere à quelli di consiglio.
Co. Noi dunque doppo questa nouella, bisogna che habiamo le torze accese sotto cinte molto bene et da huomo. et cercate tutte ignude, se per sorte gli fusse entrato alcun’altro huomo, et à torno correte à tutta la corte, et cercate le sceme et i passagi.

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Mezzoco.   Hor su principalmente bisogna movere il piede legiero et considerar con silentio, et solamente bisogna in ogni luoco non far dimora, perche tempo è di non piu indugiare, ma à la bella prima bisogna correre viè piu che velocemente gia in torno. horsu cerca et stracerca tosto ogni cosa, se ne i luoghi è ascoso alcun’altro anchora à sedersi, da per tutto dirizza l’occhio anche queste cose da questa banda, et hor considera et cerca ogni cosa bene. per ciò che se non ne sarà celato costui che fa cose de’l diauolo, ei patirà le pene, et apresso di questo à tutti gli altri sarà essempio de la ’ngiuria et de le ingiuste opere et degli scommunicati costumi. et dirà poi manifestamente che gli sono i dei, et mostrerà poi à tutti gli huomini che si dee riverire i dei, et giustamente amministrare, et consultar le cose sante et legitime, et far quello che stà bene. et se non faranno questo, saranno cotali supplicij loro. quando uno di quelli sarà trovato far cose nefande et empie, et infiammato di furia, pazzo et infuriato di rabia, se cosa veruna facesse manifesto à vedere sarà à le femine et à gli huomini. perche Giove si vindica de le cose illegitime et crudeli, et subitamente fa la vendetta.

Co. Ma pare à noi che ogni cosa quasi sia stata ispianata bene. però non vego niuno altro chi sega.
Don. Lascia e dove fugitu? tu, tu non starai? meschiana che son io, meschina, et se mi toglie ’l fanciullino da la tetta, legiero che mi è.
Mn. Grida, tu non allattarai mai questo fanciullo, se non mi lasciate andare: ma quì ne le gambe ferito con questa spada sanguinarà l’altare con le rossegiante vene.
Don. O trista me, donne non mi aiutarete? non dirizzarete lo stendardo per lo gridore grande. e mi sprezzarete lasciandomi privar de’l figlio unico?

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Co. Lascia lascia. ò riverende Parche, che vego io anchora un nuovo miracolo? come egli le hà tutte, opere di grand’ardire et disfacciatezza, che cosa di nuovo ha egli fatto, di che sorte questo care sorelle.

Mn. Come vi cominciarò io à dire la sua troppa insolentia?
Co. Queste cose (dimi un poco) et questi oltragi sono da tolerare?
Don. Non da sopportar nò, che hà un mio fanciullino che mi ha rapito.
Co. Che direbe mò un’altro circa questo, che costui non si vergogni à far tai cose?
Mn. Et non hò io anchora finito.
Don. Ma tu sei pur venuto, onde vieni et facilmente fugi no ’l dirai, come bai fatto et fugito la sceleragine? tu patirai ben le pene.
Mn. Pur à ciò che questo non si faccia, non mi tiro in dietro.
Co. Chi è stato adunque, chi è stato tuo coagiutore de gli dij immortali à venir con inique opere?
Mn. In darno parlate, et io non lasciarò questa giovane.

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Don. Mà per le dee forsi non t’alegrarai, forsi non farai festa. et se dirai parole scelerate, de scelerati fatti ti rimuneraremo, come e ’l dover per queste cose. et forsi qualche mutata sorte contenerà un mal diverso, ma ti bisogna ben pigliar queste cose, et portar fuora de le legne, et abbrusciare ’l malfattore et arrostirlo incotanente. andiamo à tuor de le fascine ò Mania, et io ti mostraro hoggi ’l stizzone.

Mn. Impizza sotto et abbruscia tu, et spogliati presto questo Cretico vestimento, et tu de la morte
ò fanciulla incolpa tua madre sola de le donne. che cosa è questa? un’utre pien di vino è diventata la putta, et con questo ha le scarpe à la Persiana. ò donne mie caldissime ò bibacissime, et che con ogni arte vi sforzate et pensate da bevere, ò gran guadagno à gli hosti, et à voi danno anchora, à i vasetti, et a’l sottocoprimento de le vesti.
Don. Fà venir de le fascine assai ò Mania, et cacciale sotto.
Mn. Ma tu rispondimi di questo, ditu che questa fanciulla hai partorito?
Don. Diece mesi io l’ho portata.
Mn. Tu l’hai portata?
Don. Sì per Diana.
Mn. Che tien tre hemine? ò à che modo? dillomi.
Don. Che m’hai fatto? hai spogliato la mia fanciullina ò sfaciatazzo?
Mn. Si fatta, si grande?
Don. Piciola per Giove.
Mn. Quanti anni ha ch’è nata? tre stari, ò quatro?
Don. Quasi tanto quanto è da le feste di Bacco. ma rendilami.
Mn. Non per Apolline questa fanciullina.
Don. Abbrusciaremo dunque te.

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Mn. Abbrusciatemi pur, et questa creatura sarà scannata ò strangolata incontanente.

Don. Ah di gratia non fare, ma condannami in ciò che vuoi per questa.
Mn. Naturalmente sei amatrice de figliuolini. ma nulla di meno questa sarà strangolata.
Don. O figliuolina mia: dammi un vase ò Mannia da tuore il sangue dentro, à ciò che a’l meno possa pigliar il sangue de la mia figliuolina.
Mn. Metti sotto quel vase, che gli voglio var questo apiacere.
Don. Postu morir malamente come sei tu invidioso, et inimico.
Mn. Questa è la pelle de’l sacerdote.
Don. Perche è ella de’l sacerdote?
Mn. Piglia questa.
Un’al. d.   O ben sventurata Mica, chi t’ha tolto la figliuolina? chi t’ha portato via la cara figlioletta?
Don. Questo boia. ma poi che sei quì, falle la guarda, à ciò che io me ne vaga con Clistene, et dica à i consuli ciò che ha fatto questo ribaldo.

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Mn. Horsu che rimedio mi farà di salute? che isperienza, che consideratione, per ciò che il reo anchor me ha involto in tali trauaglij. non appare anchora. horsu qual messo adunque gli potrei mandare? so ben io anchora la via. io scriverò et mandarò à quello i remi per Palamede, non vi sono poi i remi. onde, di che cosa mi farò io far i remi? che poi che se gli mandasi statue per remi, scrivendogli? molto meglio sarebbe. legno erano pur queste cose, et quelle erano legno. ò le mie mani bisogna mettersi ad una cosa ispedita. horsu ò pagine de le tavolette pionate, togliete i tiramenti de’l cortello di calciolari, ambasciadori de le mie fatiche. oime, questa lettera di r, è una mala lettera, và, và per una qualche via ò sentiero, andate, correte, affrettatevi per tutti i luoghi ove si puo andare. che di quà, et di là bisogna tosto.
[p. 270v modifica] [p. 271r modifica]
Co. Noi dunque noi medesime bene diremo, poi che siamo andate piu inanzi. et anchor che ogniuno addice de gran mali de la generation de le donne, che ogni male noi siamo à gli huomini, et da noi viene ogni cosa, le controversie, le contentioni, le seditioni, il noioso cordoglio, la guerra. Horsu mò, se siamo il male, perche ne tolete per moglij? se pur veramente siamo il male, et vietate et comandate che non si venga fuora, ne che ben colte à guardiamo suor de la finestra. ma volete adunque con tanto studio haver cura et custodia del male? et se sarà uscita fuori in qualche luogo una feminuccia, che poi la troviate fuora, impazzite di pazzia et furia. Hor bisogna sacrificare et alegrarsi, se pur è vero. da la parte piu di dentro havete trovato il tristo male, et non l’havete attrovato dentro. et se dormiamo in casa d’alcune altre donne giocando et faticandosi, ogniuno cerca questo male, andando à torno à i letti. e se guarderemo fuor de la finestra, cerca di guardare il male: e se con rossore si partirà, molto più ogn’uno brama di vedere un’altra volta il male che muove la testa. cosi noi manifestamente siamo migliori che non sete voi, et la isperienza si può vedere. diamo la isperienza, quali sono pegiori, noi stimiamo voi e voi stimiate noi. consideriamo un poco e contendiamo, e paragoniamo l’un’e l’altra cosa, comparando e de la femina, e de l’huomo ciaschedun nome. à Nausimaca le stà sotto Carminio, si sà ben quel che fà l’un e l’altro. e Cleofone pur è pegiore veramente che la Salabacca meretrice. contra d’Aristomaca di molto tempo, contro à quella che ha combattuto in Marathone, e contra Stratoni ce niuno di voi ha ardire di combattere, ò guerregiare: ma c’è il meglior di Eubula che fù Senatrice de l’anno passato. che dà consiglio à un’altro? ne questo ancho dirai. cosi noi s’avantiamo d’esser molto migliori de gli huomini. ne anchor se una donna haverà robato fino a’l precio di cinquanta talenti, è accusata. e ne la cità verrà con publichi danari. ma se haverà robato magior cose, che habia tolto un staro di formento de’l marito, in quel dì medesimo quella istessa che ha robato glielo rende. ma noi mostraremo di questi pur assai che fanno questo, et oltre à ciò noi siamo per vedervi et sgolazzoni assai bene e ladri, e buffoni, et assassini. et in verità sono anchor pegiori à guardare et conservar i beni paterni. noi havemo bene anchora salva e buona la zucca, la regola, i cavagnuoli, il capello. et à questi nostri huomini è andato in rovina il manego de’l scudo e fuor di casa con la sua lancia. à molti altri poi il scudo è stato gettato giu da le spalle, mentre ch’erano à la guerra.
[p. 271v modifica]
Di molte cose noi donne meritamente et giustamente potressimo accusare gli huomini, et fuor di modo d’una cosa piu grande. per ciò che à noi bisogna, se una di noi havrà partorito qualche huomo da bene, colonello ò capitano de l’essercito, pigliarne qualche honore: et che le sia data la prima sedia et il luoco piu honorato, ne le Tenie, e ne le Scire, e ne l’altre feste, che noi sogliamo fare e celebrare. ma se una donna haverà allevato un’huomo timido e tristo e reo, che sia ò taxairco ribaldo, ò governator cattivo, ch’ella di dietro seda ne’l scasio tosata. quella che haverà partorito il gaiardo? mò con che ragione convien ò cità che la madre d’Hiperbolo stia à sedere, vestita ne vestimente bianche, e scapigliata apresso la madre di Lamaco? et à usura dar danari? à cui bisognava, se desse à usura ad alcuno, et ricevesse se l’usura, che niun de gli huomini le desse l’usura, ma portarla via per forza, dicendo questo, cio è che sei degna d’usura, havendo partorito tal parto.
Mn. Sono divenuto sguerzo, aspettando Euripide. et questo non viene anchora. che ’l potrebe mò impedire? non è possibile che non habia vergogna e rossore di Palamede freddo. e con che baia mi lasciarei ridur? io so una nuova novella imitarò Helena. ogni modo ho il vestimento di donna.

Don. Che parecchi tu anchora, ò che t’imagini tosto vedrai l’amara Helena, se non stai savio, fino à
tanto che alcuno de supremi magistrati apparirà.
Mn. Queste sono pure e belle correnti vergini del Nilo, che in luogo de la piova celeste adaqua la
terra bianca d’Egitto, e bagna il popol negro.
Don. Sei trincato et tristo per Hecate lucifera.
Mn. Et io ho per patria una terra di non poca nominanza che è Sparta, e mio padre è Tindaro.
Don. Et tu ò morbo hai quello per padre, anzi hai Frinonda?
Mn. Et io sono chiamata Helena.
Don. Un’altra volta diventi femina, avanti che facij la penitentia de l’altra simulation di donna?
Mn. E molte anime per me ne l’onde de’l Scamandro sono morte.
Don. Piacesse à i dei che tu anchora.

[p. 272r modifica]
Mn. Et io pur son quì et il mio sventurato marito Menelao non è anchora venuto, che degio piu stare a’l mondo che non mi facio mangiare à i corvi? ma quasi m’accarezza una cosa a’l mio animo, che non ti vaga fallito ò Giove de la speranza che ha ad essere.

Euripide in forma di Menelao.   Chi è patrone di queste case sarate et chiuse? chi allogiarebe quelli che hanno patito naufragio e fortuna ne’l mare?
Mn. Questi sono i palazzi di Proteo.
Eu. Di qual Proteo.
Don. O sventuratissimo, ei se ne mente, sì per le dee. che diece anni fà che è morta quella femina.
Eu. Et in che paese siamo noi venuti con la barca?
Mn. In Egitto.
Eu. O infelice me dove habiamo navigato?
Don. Creditu niente à questo mal aviato che dice baie? questa è la chiesa di Cerere.
Eu. Et esso Proteo è dentro ò di fuora.
Don. Non vi e. à che modo ò forastiero non ti vien nausea, come che hai udito che è morta Protea? poi
domandi se è dentro ò di fuora?
Eu. Oh, oh che è morta, e dove è stata sotterata?
Mn. Questo è il suo sepolcro, ove stiamo à sedere.
Don. Ti venga la morte e moriresti bene, che tu osi di chiamare questo altare un sepolcro.
Eu. Et perche tu ò forastiera coperta di velo, stai à sedere su queste sedie de sepolcri?
Mn. Sono costretta immescolare il letto con le nozze a’l figliuol di Proteo.

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Don. Perche ò sventurato ingannitu questo forastiero? quest’huomo diportandosi da cattivo e malitioso, è venuto quà su ò forastiero à queste donne, per robarle danari.

Mn. Baia e feriscimi il corpo di vituperio.
Eu. Forastiera, che vecchia è questa che ti vitupera?
Mn. Costei è Theonoe, figlia di Proteo.
Don. Non per le dee, son io Critilla per la dea da Gargetto. et tu sei mal’huomo e ribaldone.
Mn. Dì pur ciò che vuoi non mi maritarò mica io mai à tuo fratello, tradendo mio marito Menelao chi è à Troia.
Eu. Donna che hai detto? volta mò in quà le punte de gli occhi.
Mn. Mi arrossisco per te, havendo havuto male à le guancie.
Eu. Che cosa è questa? io ho che non posso ragionare. ò dei mò che facia vegio? che donna sei tu?
Mn. E tu che sei? dirò ben’anchora io come dici tu.
Eu. Sei tu una qualche donna di Grecia, ò da quei luoghi?
Mn. Di Grecia, ma voglio sapere anche io che sei tu e d’onde.
Eu. Parmi ò donna che molto somiglij ad Helena.
Mn. Et tu à Menelao, in quanto mi dimostrano i ceglij.
Eu. Hai dunque conosciuto veramente un’huomo sventuratissimo.

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Mn. O tardo, che sei venuto ne la man di tua moglie. pigliami, pigliami ò marito con le tue mani. vien ch’io ti basciarò, menami via, menami, menami via, pigliami pur tosto.

Don. Piagnerà, per le dee, chiunque ti menerà via, battuto con la facella.
Eu. Tu mi vieti che io meni mia moglie figliuola di Tindaro, in Sparta?
Don. Oime, come pari tu d’esser cattivo e malitioso, et un qualche compagno de gli consiglij di costui. non senza consideratione poco sa dicevate molte cose d’Egitto. ma costui farà ben la penitentia, che quì viene il soprastante, et arciero, ò sbirro, ò zaffo.
Eu. Questa è una mala cosa, ma nascosamente bisogna partirsi.
Mn. Et io meschina che farò io?
Eu. Stà cheta, che io non t’abandonarò mai, se haverò vita, se non mi lasciaranno le infinite machinationi.
Don. Questa corda da piscatore non hà gia tirato à se niente.
Soprastante.   Questo è ’l sciagurato, che diceva à noi Clistene. ò tu che fugitu? ò zaffo menalo dentro e ligalo. in su quell’ascia, e poi quì fallo stare et habine guardia, et non gli lasciare andar niuno. ma tien la scoriata et batti color che gli vogliono andare.

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Don. Per Giove tu sai molto bene, poi che hora l’huomo astuto quasi me l’hà tirato via.

Mn. O soprastante per la man destra concava che sei solito à sporgermi, se alcuno mi darà danari, fammi questa gratia e concedimi una poca cosa, ben che habia à morire.
Pri. Che gratia degio farti?
Mn. Comanda che quel zaffo che mi spoglia, mi lighi su una tavola, à ciò che io vecchio huomo non dia riso à i crocoti et à le mitrie, dando da mangiar à i corvi.
Pri. A’l senato è paruto di legarti sendo cosi fatto, à ciò che sij essempij à gli altri che sono circostanti.
Mn. Iappapeax ò Crocoto che cosa hai fatto? e non vi è piu speranza alcuna di salute à noi.

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Co. Horsu noi balliamo (cosa ch’è licita qui à noi donne) quando havemo celebrato le Orgie honorande de le dee ne’i tempi sacri et santi. le quali anchor Pausone reverisce et digiuna, spesso pregandole no di tempo in tempo, che tali feste egli sovente habia in cura. incitati, corri, vien innanzi, vien pianamente con li piedi ne’l cerchio, giungiti una man cò l’altra. ciascuna aggiunga al suono il ballo, và cò i piedi legiermente. ma bisogna cercare in ogni parte volgendo l’occhio, la costitutione et ordine de’l ballo. et canti anchora la generation de gli dij celesti, et riverisca ogni una con voce et con usanza ballaresca. et se alcuno aspetta che una donna cioè io, habia à dire male de gli huomini in questa chiesa, et non la ’ntende bene. ma bisogna come se fosse una opera nuova, che ’l ballo sia ben rotondo, e conzisi un andamento ben’accommodato. metti i piedi inanzi, et canta ’l dio Apolline ch’adopera l’aurea lira, et la dea Diana da le frizze signora casta. Ben venga ad Apolline che tira luntano, dammi vittoria, e cantiamo la dea Giunone perfetta. come è ’l dovere, che con tutti i cori giuoca, e conserva le chiavi de le nozze. e prego anchor il pastoral Mercurio et il dio Pane, e le care nimfe che con alegro animo prontamente arridano à i nostri balli. ma inalza prontamente il ballo con amendue le mani, balliamo ò donne, secondo la nostra costuma, e digiuniamo piu presto. horsu ad altre sorti de balli. voltati co’l piede accommodato, intorna e conza tutta la canzona. et tu sij il capo, tu, tu, ò signor Bacco, et io ti celebrarò ne le collationi ballaresche Evion ò Bacco, Dioniso, Bromio, et figliuol di Semele, che d’i coriti diletti per i monti de le nimfe ne le dilettose laudi, Evion, Evion, Eve che balli, et circa à te la riprensione Citheronia fa crepito, et i selvosi monti, et ombrosi, et i monticelli sassosi fanno strepito, et in circondo la frondosa edera de’l capriolo fiorisce à torno à te.

Zaffo. Quì piangerai hora à l’aere.
Mn. O zaffo ti prego.
Z. Non mi pregar tu.

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Mn. Rislarga il botone.

Z. Ma che farò io questo?
Mn. Aime meschino, tu glie’l cacciarai anchor piu.
Z. Anchor piu se vuoi.
Mn. Attatè, attatè fosti isquartato.
Z. Taci disgratiato vecchio. horsu ti porto una stuora per custodirti.
Mn. Queste cose sì buone hò acquistato per causa d’Euripide ah ah ò dei ò Giove salvatore, egli è la speranza. un’huomo pare non volermi lasciar perire, ma Perseo celatamente di lungo correndo mi dimostra un segno, che mi bisogna diventar Andromeda, et hò ogni modo i legami. chiaro è dunque che ei venirà à liberarmi, per ciò che di quì oltra non sarebe volato.
Euripide in fogia di Echo.   Care giovani, care, à che modo mi partirò io e pigliarò la Scita. odi ò che guardi le nimfe ne le spelonche fammi cenno, lasciami venire à trovar mia moglie.

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Mn. Disleale che m’hà ligato la piu travagliata donna de’l mondo. à pena ch’ho fugito una vecchia puzzolente pur m’ho rovinata, che questo Scita m’ha in custodia gia gran tempo, meschina, abbandonata da tutti hà appiccato à i corvi la cena, veditu? non sto con la cista de le balotte ne i balli con le altre giovani de la mia età, ma alligata ne le gravi catene. Sono bona da gettar ne’l mare a farmi mangiar à la balena, non gia con verso da nozze, ma da ligato. piangetemi donne che hò pur patito cose gravi et triste, trista me, trista, ò trista che son io. e da’i parenti anchora passioni tormenti da non dire pregando con le lagrime su gli occhi un’huomo, fugendo il pianto de lo inferno. hè hè hè hè, chi m’hà tosata in prima, chi m’bà vestita di giallo. oltre à ciò, m’hà mandato à questa chiesa, ove sono le donne, oime, fortuna aspra de la mia ruina. ò scelerata che non vede la mia doglia grande ne la presenza d’i mali piacesse à i dei che una affocata stella de’l cielo mi soffocasse barbara che sono, che piu non mi gradisce veder fiamma immortale. poi che sono appiccata à i dolori che mi tagliono via la golla, trà i morti à la negra via de demonij.

Euripide come echo.   Ben ti venga ò cara figlia, et il padre tuo Cefeo, che quì t’ha posto, i dei ammazzino.
Mn. Et tu che sei mai, che hai compassione de la mia calamità?
E. Echo ribattitrice de le parole, risibillatrice, che pur anchor l’anno passato in questo medesimo luogo io istessa difesi Euripide. ma ò figlia bisogna che tu facci tante cose, e piagnere miserabilmente.
Mn. Et che ne’l pianto poi tu mi rispondi.
E. Mi curarò ben io di questo, ma comincia à dire.

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Mn. O notte sacra che lungo cavalcamento spingitu? per spalle stellate che le corri de’l sacro ethere, per il venerabilissimo Olimpo.

E. Per l’olimpo?
Mn. Che cosa mò io Andromeda, che parte de gli altri mali m’è toccata?
E. Parte m’è toccata.
Mn. Meschina per la morte.
E. Meschina per la morte.
Mn. Tu mi rovini ò vecchia cianciando.
E. Cianciando.
Mn. In fe di Dio tu sei fastidiosa, tu se venuta à ’mpiecarti bene.
E. Bene.
Mn. O da bene lasciami cantar sola, et à me sarà molto à grato. cessa.
E. Cessa.
Mn. Va à le forche.
E. Va à le forche.
Mn. Che disgratia è questa?
E. che disgratia è questa?
Mn. Baie.
E. Baie.
Mn. Piangi.
E. Piangi.
Mn. Gemisci.
E. Gemisci.
Sc. O tu che cianci?
E. O tu che cianci?

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Sc. Chiamarò i signori de la cità.

E. Chiamarò i signori de la cità.
Sc. Che disgratia?
E. Che disgratia?
Sc. Che voce è questa?
E. Che voce è questa?
Sc. Che cianci?
E. Che cianci?
Sc. Piangerai.
E. Piangerai.
Sc. Ti lamentarai.
E. Ti lamenterai.
Sc. Non per Giove, ma questa donna è quì apresso.
E. Quì apresso.
Sc. Qu’è la scelerata?
Mn. Et pur fuge.
Sc. Ove fugi? ove? non sarai pigliata? tu brontoli pur anchora.
E. Tu brontoli pur anchora.
Sc. Piglia la trista.
E. Piglia la trista.
Sc. Femina loquace et scelerata.
Euripide in forma di Perseo.   O dei di qual terra de Barbari siamo arrivati, co’l veloce talare? per ciò che per mezzo l’ethere toglio la via, hò ben il piede alato io Perseo navigando ad Argo, et porto la testa di Gorgone.

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Sc. Che dici tu di Gorgone? L’horribil testa di Gorgone tu?

Eu. Sì dico io.
Sc. E dico anchor io la Gorgone. lascia, che dosso vegio, che vergine à le dee simile, à guisa di nave à la riva aggiunta?
Socero in fogia d’Andromeda.   O forastiero habia compassione di mè mal’aventurata, disligami da queste catene.
Sc. Non cianciar tu. ribalda hai tu ardimento? tu cianci, che sei per morire?
Eu. O giovane di te hò compassione vedendoti appiccata.
Sc. Non è una giovane, ma è un vecchio scelerato e ladro e malfattore.
Eu. Tu cianci ò Scita. perche costei è Andromeda figlia di Cefeo.
Sc. Guardale ’l tanferlone, ti pare forsi picciolo?
Eu. Hor qua, dà quà la mano, che io toccarò una putta, dà quà Scita. perciò che si come ogni huomo è pigliato da qualche difetto, cosi l’amor di questa giovane me hà preso.
Sc. Non te n’hò invidia punto. ma se non le havesti havuto invidia de’l culo ch’hà voltato in quà, gliè lo inficcaresti menandolo via.
Eu. Mò che non mi la lascitu disligare ò Scita, et che mi venga su’l letto, et ne la camera sposalitia?
Sc. Se n’hai sì gran voglia, chiava costei ch’è un vecchio. tu farai un buco ne la tavola, e glie lo puntarai suso.

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Eu. Non per Giove, ma le disligarò il corpo.

Sc. Ti darò de le busse.
Eu. Ma pur farò questo.
Sc. Questa spada adunque ti taglierà via la testa.
Eu. Ah ah, che farò io? à che consiglij mi volgerò? ma non pigliarebe la natura barbara. perche apportando ad ignoranti nuovi consigli, indarno spenderesti il tempo e la fattica. ma un’altro buon consiglio è da dare à costui, conveniente.
Sc. La malitiosa volpe com’ella fà ben la simia.
Mn. Arricordati Perseo ch’abbandoni me cattivella.
Sc. Anchor tu disideri pur de le botte.
Co. Io ho per lege di chiamar quà à me la dea Pallade ne’l coro de le vergini, giovane non maritata che habita ne la nostra cità et ha sola il manifesto imperio, e si chiama difensatrice. fatti vedere ò tu che in grand’odio hai i tiranni, come è ’l devere, il popolo de le donne t’invoca, ma vien à me, et habi teco la pace amica de le feste. venite alegre, propitie, riverende ne’l vostro bosco, ne’l qual à gli huomini non è lecito guardare i sacrificij venerabili de le dee, à ciò che faciate luce immortale con le facelle, fatevi inanzi, venite, vi preghiamo ò Cerere e Proserpina molto honorande: se ancho in prima sete mai venute propitie e favoreuoli, venite adesso di gratia qui à noi.

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Eu. Donne se volete nel resto de’l tempo far patti con essomeco, hora è lecito in questo, che mai niun mal da me udiate da quì inanzi. facio questi patti.

Co. A che bisogno poi ne portitu questo consiglio?
Eu. Questo mio socero è qui alligato ad una tavola. Se dunque io pigliarò questo, non sentirete mai da me male parole. ma se non farete secondo il mio volere, di quello che à casa fate nascosamente, ne accusarò à i vostri mariti ritornati da la guerra, et che vi sono apresso.
Co. Questo, quanto sia per noi, sapi che ti sia persuaso, ma questo barbaro persuadi, et fà ch’ei facia à tuo modo.
Eu. E ben cosa che importa à me e à te ò Elafione, à far ricordar di quello che ti diceva su la via. primieramente adunque vieni et balla con la veste tirata su. e tu ò Teredone sgonfiati à la Persiana.
Sc. Che romor è questo? che m’invita, che m’incita à questa festa?
Eu. La giovane ha da far bei giuochi ò zaffo. ch’ella viene à ballar in presenza di questi huomini.
Sc. Balli, et giuochi, non le vietarò io. come è ella agevole, à guisa d’un pulice sopra d’una coltra pelosa.
Euripide vestito da vecchia.   Portami su quella veste ò figlia, e sedi giu su i ginocchi de’l Scita. aslonga in fuora i piedi, che ti discalzarò.

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Sc. Sì, sì, sì, sedi, sedi, sì, sì, sì, figliuola. oime che dure e sode poppe come un sasso.

Eu. Suona tu presto. anchora hai tema de lo Scita?
Sc. Che buon culo.
Eu. Piangerai tu se non stai dentro. egli il tira fuora e dentro nudo e dritto.
Sc. Stà bene, ell’hà la bella forma à torno à la moglie de’l capello.
Eu. La cosa và bene, piglia la vestazzuola. già è hora che noi andiamo.
Sc. Che non mi lasciarai tu in prima?
Eu. Sì sì, bascialo.
Sc. Papapa pe che lingua dolce come il mele Ateniese? che non dormitu apresso di me?
Eu. Stà con dio ò zaffo che non si potrebe mica far questo.
Sc. Sì la mia vecchietta cosa che à grado mi fia.
Eu. Mi darai tu adunque la drachma?
Sc. Sì, sì, che te la darò.
Eu. Porta adunque i danari.
Sc. Ma non ho niente.
Eu. Ma piglia da chiavare. poi li porterai.
Sc. Seguimi figlio. ma tu habi discretion à costei per amor de la vecchiarella. e come hai tu nome?
Eu. Artemisia.
Sc. Aricordati dunque de’l nome d’Artomussia.

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Eu. Mercurio malitioso, queste cose fin’hora fai bene. tu prestamente adunque piglia questa giovane e fugi via. et io disligarò costui. tu poi sforzati, come sarai sciolto, da valent’huomo, di fugir tosto tosto, et te ne vaghi da tua moglie, e da tuoi figliuoli à casa.

So. Io haverò ben cura di questa, se una volta sarò liberato.
Eu. Sij disligato cosa che è per te, fugi avanti che ’l zaffo venga à pigliarti.
So. Et io facio cosi.
Sc. O vecchietta, che bella figliuola tu hai, e non dispiacevole, ma mansueta. ove è la vecchia ch’era
quì? oime oime son io rovinato. ove è il vecchio ch’era quì? o vecchietta, ò vecchia, non mi piace ò vecchietta. Artamussia m’ha ingannato. corri tu quanto tu puoi. e tu chiavi ben, che m’hai ingannato. oime che farò io? ove è andata la vecchietta, Artamussia.
Co. Tu cerchi la vecchia, che ha portato i suoni?
Sc. Sì, sì l’hai veduta?
Co. E andata via di quà, ella medesima, et un vecchio le andava dietro.
Sc. La vecchia haveva per ventura la crocota?
Co. Sì dico io. anchor tu l’arrivaresli se le andasti dietro.
Sc. O trista vecchia. è corsa per questa via l’Artamussia?
Co. Và in su di lungo, corrile dietro. dove corri? non vai un’altra volta per di quà? per contrario corri.

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Sc. Sventurato che son io, ma si è fugita l’Artamussia.

Co. Corri mò à le forche con il vento à seconda. Ma bastevolmente da noi s’è udito. onde è hora che ciascuno vaga à casa sua. e le dee legifere ne ritribuiscano per questo buona gratia.

Fine de le Cereali d’Aristofane.


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