La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XXXV

Libro primo
Capitolo XXXV

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Seguitando di esercitar le mie artiglierie continuamente, per mezzo di esse in un mese intero che noi stemmo nel Castello assediati, mi occorse molti grandissimi accidenti degni di raccontargli tutti; ma per non voler essere tanto lungo, né volermi dimostrare troppo fuor della mia professione, ne lascierò la maggior parte, dicendone solo quelli che mi sforzano, li quali saranno i manco e i piú notabili. E questo è il primo: che avendomi fatto quel ditto misser Antonio Santa Croce discender giú de l’Agnolo, perché io tirassi a certe case vicino al Castello, dove si erano veduti entrare certi dell’inimici di fuora, in mentre che io tiravo, a me venne un colpo di artiglieria, il qual dette in un canton di un merlo, e presene tanto, che fu causa di non mi far male: perché quella maggior quantità tutta insieme mi percosse il petto; e, fermatomi l’anelito, istavo in terra prostrato come morto, e sentivo tutto quello che i circustanti dicevano; in fra i quali si doleva molto quel misser Antonio Santa Croce, dicendo: - Oimè, che noi abiàn perso il migliore aiuto che noi ci avessimo -. Sopragiunto a questo rumore un certo mio compagno, che si domandava Gianfrancesco, piffero, questo uomo era piú inclinato alla medicina che al piffero, e subito piangendo corse per una caraffina di bonissimo vin greco: avendo fatto rovente una tegola, in su la quale e’ messe su una buona menata di assenzio, di poi vi spruzzò su di quel buon vin greco; essendo inbeuto bene il ditto assenzio, subito me lo messe in sul petto, dove evidente si vedeva la percossa. Fu tanto la virtú di quello assenzio, che resemi subito quelle ismarrite virtú. Volendo cominciare a parlare, non potevo, perché certi sciocchi soldatelli mi avevano pieno la bocca di terra, parendo loro con quella di avermi dato la comunione, con la quale loro piú presto mi avevano scomunicato, perché non mi potevo riavere, dandomi questa terra piú noia assai che la percossa. Pur di questa scampato, tornai a que’ furori delle artiglierie, seguitandoli con tutta quella virtú e sollecitudine migliore che inmaginar potevo. E perché papa Clemente aveva mandato a chiedere soccorso al duca di Urbino, il quale era con lo esercito de’ Veniziani, dicendo all’imbasciadore, che dicessi a Sua Eccellenzia, che tanto quanto il detto Castello durava a fare ogni sera tre fuochi in cima di detto Castello, accompagnati con tre colpi di artiglieria rinterzati, che insino che durava questo segno, dimostrava che il Castello non saria areso; io ebbi questa carica di far questi fuochi e tirare queste artiglierie: avvenga che sempre di giorno io le dirizzava in quei luoghi dove le potevan fare qualche gran male; la qual cosa il Papa me ne voleva di meglio assai, perché vedeva che io facevo l’arte con quella avvertenza che a tal cose si promette. Il soccorso de il detto duca mai non venne; per la qual cosa io, che non son qui per questo, altro non descrivo.