La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XXXI

Libro primo
Capitolo XXXI

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Se io volessi descrivere precisamente quale e quante erano le molte opere, che a diverse sorte di uomini io faceva, troppo sarebbe lungo il mio dire. Non mi occorre per ora dire altro, se none che io attendevo con ogni sollecitudine e diligenzia a farmi pratico in quella diversità e differenzia di arte, che di sopra ho parlato. Cosí continuamente di tutte lavoravo: e perché non m’è venuto alla mente ancora occasione di descrivere qualche mia opera notabile, aspetterò di porle al suo luogo; che presto verranno. Il detto Michelagnolo sanese scultore in questo tempo faceva la sepoltura de il morto papa Adriano. Iulio Romano pittore ditto se ne andò a servire il marchese di Mantova. Gli altri compagni si ritirorno chi in qua e chi in là a sue faccende: in modo che la ditta virtuosa compagnia quasi tutta si disfece. In questo tempo mi capitò certi piccoli pugnaletti turcheschi, ed era di ferro il manico sí come la lama del pugnale: ancora la guaina era di ferro similmente. Queste ditte cose erano intagliate, per virtú di ferri, molti bellissimi fogliami alla turchesca, e pulitissimamente commessi d’oro: la qual cosa mi incitò grandemente a desiderio di provarmi ancora a affaticarmi in quella professione tanto diversa da l’altre: e veduto ch’ella benissimo mi riusciva, ne feci parecchi opere. Queste tali opere erano molto piú belle e molto piú istabile che le turchesche, per piú diverse cause. L’una si era che in e’ mia acciai io intagliavo molto profondamente a sotto squadro; che tal cosa non si usava per i lavori turcheschi. L’altra si era che li fogliami turcheschi non sono altro che foglie di gichero con alcuni fiorellini di clizia; se bene hanno qualche poco di grazia, la non continua di piacere, come fanno i nostri fogliami. Benché innell’Italia siamo diversi di modo di fare fogliami; perché i Lombardi fanno bellissimi fogliami ritraendo foglie de elera e di vitalba con bellissimi girari, le quali fanno molto piacevol vedere; li Toscani e i Romani in questo genere presono molto migliore elezione, perché contra fanno le foglie d’acanto, detta branca orsina, con i sua festuchi e fiori, girando in diversi modi; e in fra i detti fogliami viene benissimo accomodato alcuni uccelletti e diversi animali, qual si vede chi ha buon gusto. Parte ne truova naturalmente nei fiori salvatici, come è quelle che si chiamano bocche di lione, che cosí in alcuni fiori si discerne, accompagnate con altre belle inmaginazione di quelli valenti artefici: le qual cose son chiamate, da quelli che non sanno, grottesche. Queste grottesche hanno acquistato questo nome dai moderni, per essersi trovate in certe caverne della terra in Roma dagli studiosi, le quali caverne anticamente erano camere, stufe, studii, sale e altre cotai cose. Questi studiosi trovandole in questi luoghi cavernosi, per essere alzato dagli antichi in qua il terreno e restare quelle in basso, e perché il vocabolo chiama quei luoghi bassi in Roma, grotte; da questo si acquistorno il nome di grottesche. Il qual non è il suo nome; perché sí bene, come gli antichi si dilettavano di comporre de’ mostri usando con capre, con vacche e con cavalle, nascendo questi miscugli gli domandavono mostri; cosí quelli artefici facevano con i loro fogliami questa sorte di mostri: e mostri è ’l vero lor nome e non grottesche. Faccendo io di questa sorte fogliami commessi nel sopra ditto modo, erano molto piú belli da vedere che li turcheschi. Accadde in questo tempo che in certi vasi, i quali erano urnette antiche piene di cenere, fra essa cenere si trovò certe anella di ferro commessi d’oro insin dagli antichi, e in esse anella era legato un nicchiolino in ciascuno. Ricercando quei dotti, dissono che queste anella le portavono coloro che avevano caro di star saldi col pensiero in qualche stravagante accidente avvenuto loro cosí in bene come in male. A questo io mi mossi, a requisizione di certi signori molto amici miei e feci alcune di queste anellette; ma le facevo di acciaro ben purgato: di poi, bene intagliate e commesse d’oro, facevano bellissimo vedere; e fu talvolta che di uno di questi anelletti, solo delle mie fatture, ne ebbi piú di quaranta scudi. Se usava in questo tempo alcune medagliette d’oro, che ogni signore e gentiluomo li piaceva fare scolpire in esse un suo capriccio o impresa; e le portavano nella berretta. Di queste opere io ne feci assai, ed erano molto difficile a fare. E perché il gran valente uomo ch’io dissi, chiamato Caradosso, ne fece alcune, le quali come erano di piú di una figura non voleva manco che cento scudi d’oro de l’una; la qual cosa, non tanto per il premio quanto per la sua tardità, io fui posto innanzi a certi signori, ai quali infra l’altre feci una medaglia a gara di questo gran valent’uomo, innella qual medaglia era quattro figure, intorno alle quali io mi ero molto affaticato. Accadde che li detti gentiluomini e signori, ponendola accanto a quella del maraviglioso Caradosso, dissono che la mia era assai meglio fatta e piú bella, e che io domandassi quel che io volevo delle fatiche mie; perché, avendo io loro tanto ben satisfatti, che loro me voleano satisfare altanto. Ai quali io dissi, che il maggior premio alle fatiche mie e quello che io piú desiderava, si era lo aggiugnere appresso alle opere di un cosí gran valent’uomo, e che, se allor Signorie cosí paressi, io pagatissimo mi domandavo. Cosí partitomi subito, quelli mi mandorno appresso un tanto liberalissimo presente, che io fui contento, e mi crebbe tanto animo di far bene, che fu causa di quello che per lo avvenire si sentirà.