La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XXIV

Libro primo
Capitolo XXIV

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E’ mi pareva, veduto di aver sadisfatto alla onesta voglia del mio buon padre, che ogni cosa mi dovessi succedere a onorata e gloriosa fine. Cosí mi messi con grandissima sollecitudine a finire il vaso che cominciato avevo per il Salamanca. Questo vescovo era molto mirabile uomo, ricchissimo, ma difficile a contentare: mandava ogni giorno a vedere quel che io facevo; e quella volta che il suo mandato non mi trovava, il detto Salamanca veniva in grandissimo furore, dicendo che mi voleva far tôrre la ditta opera, e darla ad altri a finire. Questo ne era causa il servire a quel maladetto sonare. Pure con grandissima sollecitudine mi ero messo giorno e notte, tanto che conduttola a termine di poterla mostrare al ditto vescovo, lo feci vedere: a il quali crebbe tanto desiderio di vederlo finito, che io mi penti’ d’arvegnene mostro. In termine di tre mesi ebbi finita la detta opera con tanti belli animaletti, fogliami e maschere, quante immaginar si possa. Subito la mandai per quel mio Paulino fattore a mostrare a quel valente uomo di Lucagnolo detto di sopra; il qual Paulino, con quella sua infinita grazia e bellezza, disse cosí: - Misser Lucagnolo, dice Benvenuto che vi manda a monstrare le sue promesse e vostre coglionerie, aspettando da voi vedere le sue bordellerie -. Ditto le parole, Lucagniolo prese in mano il vaso, e guardollo assai; di poi disse a Paulino: - O bello zittiello, di’ al tuo padrone, che egli è un gran valente uomo, e che io lo priego che mi voglia per amico, e non s’entri in altro -. Lietissimamente mi fece la imbasciata quello onesto e mirabil giovanetto. Portossi il ditto vaso al Salamanca, il quali volse che si facessi stimare. Innella detta istima si intervenne questo Lucagnolo, il quali tanto onoratamente me lo stimò e lodò da gran lunga, di quello che io mi pensava. Preso il ditto vaso, il Salamanca spagnolescamente disse: - Io giuro a Dio, che tanto voglio stare a pagarlo, quanto lui ha penato a farlo -. Inteso questo, io malissimo contento mi restai, maladicendo tutta la Spagna e chi li voleva bene. Era infra gli altri belli ornamenti un manico tutto di un pezzo a questo vaso, sottilissimamente lavorato, che per virtú di una certa molla stava diritto sopra la bocca del vaso. Monstrando un giorno per boria monsignor ditto a certi sua gentiluomini spagnuoli questo mio vaso, avenne che un di questi gentiluomini, partito che fu il ditto monsignore, troppo indiscretamente maneggiando il bel manico del vaso, non potendo resistere quella gentil molla alla sua villana forza, in mano al ditto si roppe; e parendoli di aver molto mal fatto, pregò quel credenzier che n’aveva cura, che presto lo portasse al maestro che lo aveva fatto, il quali subito lo racconciassi e li prommettessi tutto il premio che lui domandava, pur che presto fusse acconcio. Cosí capitandomi alle mani il vaso, promessi acconciarlo prestissimo, e cosí feci. Il ditto vaso mi fu portato innanzi mangiare: a ventidua ore venne quel che me lo aveva portato, il quale era tutto in sudore, ché per tutta la strada aveva corso, avvengaché monsignore ancora di nuovo lo aveva domandato per mostrarlo a certi altri signori. Però questo credenziere non mi lasciava parlar parola, dicendo: - Presto, presto, porta il vaso -. Onde io, volontoroso di fare adagio e non gnene dare, dissi che io non volevo fare presto. Venne il servitore ditto in tanta furia, che, accennando di mettere mano alla spada con una mana, e con la altra fece dimostrazione e forza di entrare in bottega; la qual cosa io subito glie ne ’nterdissi con l’arme, accompagnate con molte ardite parole, dicendogli: - Io non te lo voglio dare; e va, di’ a monsignore tuo padrone, che io voglio li dinari delle mie fatiche, prima che egli esca di questa bottega -. Veduto questo di non aver potuto ottenere per la via delle braverie, si messe a pregarmi, come si priega la Croce, dicendomi, che se io gnene davo, farebbe per me tanto, che io sarei pagato. Queste parole niente mi mossono del mio proposito, sempre dicendogli il medesimo. Alla fine disperatosi della impresa, giurò di venire con tanti spagnuoli, che mi arieno tagliati a pezzi; e partitosi correndo, in questo mezzo io, che ne credevo qualche parte di questi assassinamenti loro, mi promessi animosamente difendermi; e messo in ordine un mio mirabile scoppietto, il quale mi serviva per andare a caccia, da me dicendo: - Chi mi toglie la roba mia con le fatiche insieme, ancora se gli può concedere la vita? - in questo contrasto, che da me medesimo faceva, comparse molti spagnuoli insieme con il loro maestro di casa, il quale a il lor temerario modo disse a quei tanti, che entrassin drento, e che togliessino il vaso, e me bastonassino. Alle qual parole io monstrai loro la bocca dello scoppietto in ordine col suo fuoco, e ad alta voce gridavo: - Marrani, traditori, assassinas’egli a questo modo le case e le botteghe in una Roma? Tanti quanti di voi, ladri, s’appresseranno a questo isportello, tanti con questo mio istioppo ne farò cader morti -. E volto la bocca d’esso istioppo al loro maestro di casa, accennando di trarre, dissi: - E tu ladrone, che gli ammetti, voglio che sia il primo a morire -. Subito dette di piede a un giannetto, in su che lui era, e a tutta briglia si misse a fuggire. A questo gran romore era uscito fuora tutti li vicini; e di piú passando alcuni gentiluomini romani, dissono: -Ammazzali pur questi marrani, perché sarai aiutato da noi -. Queste parole furno di tanta forza, che molto ispaventati da me si partirno; in modo che, necessitati dal caso, furno forzati annarrare tutto il caso a monsignor, il quale era superbissimo, e tutti quei servitori e ministri isgridò, sí perché loro eran venuti a fare un tale eccesso, e perché, da poi cominciato, loro non l’avevano finito. Abbattessi in questo quel pittore che s’era intervenuto in tal cosa, a il quale monsignore disse che mi venissi a dire da sua parte, che se io non gli portavo il vaso subito, che di me il maggior pezzo sarien gli orecchi; e se io lo portavo, che subito mi darebbe il pagamento di esso. Questa cosa non mi messe punto di paura, e gli feci intendere che io lo andrei a dire al Papa subito. Intanto, a lui passato la stizza e a me la paura, sotto la fede di certi gran gentiluomini romani che il detto non mi offenderebbe, e con buona sicurtà del pagamento delle mie fatiche, messomi in ordine con un gra’ pugnale e il mio buon giaco, giunsi in casa del detto monsignore, il quale aveva fatto mettere in ordine tutta la sua famiglia. Entrato, avevo il mio Paulino appresso con il vaso d’argento. Era né piú né manco come passare per mezzo il Zodiaco, ché chi contrafaceva il leone, quale lo scorpio, altri il cancro: tanto che pur giugnemmo alla presenza di questo pretaccio, il quale sparpagliò le piú pretesche spagnolissime parole che inmaginar si possa. Onde io mai alzai la testa a guardarlo, né mai gli risposi parola. A il quale mostrava di crescere piú la stizza; e fattomi porgere da scrivere, mi disse che io scrivessi di mia mano, dicendo d’essere ben contento e pagato da lui. A questo io alzai la testa e li dissi che molto volentieri lo farei se prima io avessi li mia dinari. Crebbe còllora al vescovo; e le bravate e le dispute furno grande. Al fine prima ebbi li dinari, da poi scrissi, e lieto e contento me ne andai.