La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XLVI

Libro primo
Capitolo XLVI

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Ancora lavoravo in bottega di quel Raffaello del Moro sopraditto. Questo uomo da bene aveva una sua bella figlioletta, per la quale lui mi aveva fatto disegno adosso; e io, essendomene in parte avveduto, tal cosa desideravo, ma in mentre che io avevo questo desiderio, io non lo dimostravo niente al mondo; anzi istavo tanto costumato, che i’ gli facevo maravigliare. Accadde, che a questa povera fanciulletta gli venne una infermità innella mana ritta, la quale gli aveva infradiciato quelle dua ossicina che seguitano il dito mignolo e l’altro accanto al mignolo. E perché la povera figliuola era medicata per la inavvertenza del padre da un medicaccio ignorante, il quale disse che questa povera figliuola resterebbe storpiata di tutto quel braccio ritto, non gli avvenendo peggio; veduto io il povero padre tanto sbigottito, gli dissi che non credessi tutto quel che diceva quel medico ignorante. Per la qual cosa lui mi disse non avere amicizia di medici nissuno cerusici, e che mi pregava, che se io ne conoscevo qualcuno, gnene avviassi. Subito feci venire un certo maestro Iacomo perugino uomo molto eccellente nella cerusia; e veduto che egli ebbe questa povera figlioletta, la quale era sbigottita perché doveva avere presentito quello che aveva detto quel medico ignorante, dove questo intelligente disse che ella non arebbe mal nessuno e che benissimo si servirebbe della sua man ritta, se bene quelle dua dita ultime fussino state un po’ piú debolette de l’altre, per questo non gli darebbe una noia al mondo. E messo mano a medicarla, in ispazio di pochi giorni volendo mangiare un poco di quel fradicio di quelli ossicini, il padre mi chiamò, che io andassi anch’io a vedere un poco quel male, che a questa figliuola si aveva a fare. Per la qual cosa preso il ditto maestro Iacopo certi ferri grossi, e veduto che con quelli lui faceva poca opera e grandissimo male alla ditta figliuola, dissi al maestro che si fermassi e che mi aspettassi uno ottavo d’ora. Corso in bottega feci un ferrolino d’acciaio finissimo e torto; e radeva. Giunto al maestro, cominciò con tanta gentilezza a lavorare, che lei non sentiva punto di dolore, e in breve di spazio ebbe finito. A questo, oltra l’altre cose, questo uomo da bene mi pose tanto amore, piú che non aveva a dua figliuoli mastii, e cosí attese a guarire la bella figlioletta. Avendo grandissima amicizia con un certo misser Giovanni Gaddi, il quale era cherico di camera; questo misser Giovanni si dilettava grandemente delle virtú, con tutto che in lui nessuna non ne fussi. Istava seco un certo misser Giovanni, greco, grandissimo litterato; un misser Lodovico da Fano simile a quello, litterato; messer Antonio Allegretti; allora misser Annibal Caro giovane. Di fuora eramo misser Bastiano veniziano, eccellentissimo pittore, e io; e quasi ogni giorno una volta ci rivedevamo col ditto misser Giovanni: dove che per questa amicizia quell’uomo da bene di Raffaello orefice disse al ditto misser Giovanni: - Misser Giovanni mio, voi mi cognoscete, e perché io vorrei dare quella mia figlioletta a Benvenuto, non trovando miglior mezzo che Vostra Signoria, vi prego che me ne aiutate, e voi medesimo delle mie facultà gli facciate quella dota che allei piace -. Questo uomo cervellino non lasciò a pena finir di dire quel povero uomo da bene, che sanza un proposito al mondo gli disse: - Non parlate piú, Raffaello, di questo perché voi ne siete piú discosto che il gennaio dalle more -. Il povero uomo, molto isbattuto, presto cercò di maritarla; e meco istavano la madre d’essa e tutti ingrognati, e io non sapevo la causa: e parendomi che mi pagassin di cattiva moneta di piú cortesie, che io avevo usato loro, cercai di aprire una bottega vicino a loro. Il ditto misser Giovanni non disse nulla in sin che la ditta figliuola non fu maritata, la qual cosa fu in ispazio di parecchi mesi. Attendevo con gran sollecitudine a finire l’opera mia e servire la zecca, ché di nuovo mi commisse il Papa una moneta di valore di dua carlini, innella quale era il ritratto della testa di Sua Santità, e da rovescio un Cristo in sul mare, il quale porgeva la mana a San Pietro, con lettere intorno che dicevano: “Quare dubitasti?”. Piacque questa moneta tanto oltramodo, che un certo segretario del Papa, uomo di grandissima virtú, domandato il Sanga, disse: - Vostra Santità si può gloriare d’avere una sorta di monete, la quale non si vede negli antichi, con tutte le lor pompe -. A questo il Papa rispose: - Ancora Benvenuto si può gloriare di servire uno imperatore par mio, che lo cognosca -. Seguitando la grande opera d’oro, mostrandola spesso al Papa, la qual cosa lui mi sollecitava di vederla, e ogni giorno piú si maravigliava.