La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XLIII

Libro primo
Capitolo XLIII

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Subito che io giunsi in Roma, ritrovato parte delli mia amici, dalli quali io fui molto ben veduto e carezzato, e subito mi messi a lavorare opere tutte da guadagnare e non di nome da descrivere. Era un certo vecchione orefice, il quale si domandava Raffaello del Moro. Questo era uomo di molta riputazione ne l’arte, e nel resto era molto uomo da bene. Mi pregò che io fussi contento andare a lavorare nella bottega sua, perché aveva da fare alcune opere d’importanza, le quali erano di bonissimo guadagno: cosí andai volentieri. Era passato piú di dieci giorni, che io non m’ero fatto vedere a quel detto maestro Iacopino della Barca; il quale, vedutomi a caso, mi fece grandissima accoglienza, e domandatomi quant’egli era che io ero giunto, gli dissi che gli era circa quindici giorni. Questo uomo l’ebbe molto per male, e mi disse che io tenevo molto poco conto d’un papa, il quale con grande istanzia di già gli aveva fatto scrivere tre volte per me: e io, che l’avevo aùto molto piú per male di lui, nulla gli risposi mai, anzi mi ingozzavo la stizza. Questo uomo, ch’era abundantissimo di parole, entrò in sun una pesta e ne disse tante, che pur poi, quando io lo viddi stracco, non gli dissi altro, se non che mi menassi dal Papa a sua posta; il qual rispose, che sempre era tempo; onde io gli dissi: - E io ancora son sempre parato -. Cominciatosi a ’vviare verso il palazzo, e io seco (questo fu il Giovedí santo), giunti alle camere del Papa lui che era conosciuto e io aspettato, subito fummo messi drento. Era il Papa innel letto un poco indisposto e seco era misser Iacopo Salviati e l’arcivescovo di Capua. Veduto che m’ebbe il Papa, molto strasordinariamente si rallegrò; e io, baciatogli e’ piedi, con quanta modestia io potevo me li accostavo appresso, mostrando volergli dire alcune cose d’importanza. Subito fatto cenno con la mana, il ditto missere Iacopo e l’arcivescovo si ritirorno molto discosto da noi. Subito cominciai, dicendo: - Beatissimo Padre, da poi che fu il Sacco in qua, io non mi son potuto né confessare né comunicare, perché non mi vogliono assolvere. Il caso è questo, che quando io fonde’ l’oro e feci quelle fatiche a scior quelle gioie, Vostra Santità dette commessione al Cavalierino che donasse un certo poco premio delle mie fatiche, il quale io non ebbi nulla, anzi mi disse piú presto villania. Andatomene su, dove io avevo fonduto il detto oro, levato le ceneri trovai in circa una libra e mezzo d’oro in tante granellette come panico; e perché io non avevo tanti danari da potermi condurre onorevolmente a casa mia, pensai servirmi di quelli, e rendergli da poi quando mi fusse venuto la comodità. Ora io son qui a’ piedi di Vostra Santità, la quali è ’l vero confessoro: quella mi faccia tanto di grazia di darmi licenzia acciò che io mi possa confessare e comunicare, e mediante la grazia di Vostra Santità, io riabbia la grazia del mio signor Idio -. Allora il Papa con un poco di modesto sospiro, forse ricordandosi de’ sua affanni, disse queste parole: - Benvenuto, io sono certissimo quel che tu di’ il quale, ti posso assolvere d’ogni inconveniente che tu avessi fatto, e di piú voglio, sí che liberissimamente e con buono animo di’ su ogni cosa, ché, se tu avessi aùto il valore di un di quei regni interi, io son dispostissimo a perdonarti -. Allora io dissi: - Altro non ebbi, beatissimo Padre, che quanto io ho detto; e questo non arrivò al valore di cento quaranta ducati, che tanto ne ebbi dalla zecca di Perugia, e con essi n’andai a confortare il mio povero vecchio padre -. Disse il Papa: - Tuo padre è stato cosí virtuoso, buono e dabbene uomo, quanto nascessi mai, e tu punto non traligni: molto m’incresce che i danari furno pochi; però questi, che tu di’ che sono, io te ne fo un presente, e tutto ti perdono; fa di questo fede al confessoro, se altro non c’è che attenga a me; di poi, confessato e comunicato che tu sia, lascerai’ ti rivedere, e buon per te -. Spiccato che io mi fui dal Papa, accostatosi il ditto misser Iacopo e l’arcivescovo, il Papa disse tanto ben di me, quanto d’altro uomo che si possa dire al mondo; e disse che mi aveva confessato e assoluto; di poi aggiunse, dicendo a l’arcivescovo di Capua, che mandassi per me e che mi domandassi se sopra a quel caso bisognava altro, che di tutto mi assolvessi, che gnene dava intera autorità, e di piú mi facessi quante carezze quanto e’ poteva. Mentre che io me ne andavo con quel maestro Iacopino, curiosissimamente mi domandava che serrati e lunghi ragionamenti erano stati quelli che io avevo aúti col Papa: la qualcosa come e’ m’ebbe dimandato piú di dua volte, gli dissi che non gnene volevo dire, perché non eran cose che s’attenessino allui; però non me ne dimandassi piú. Andai a fare tutto quello che ero rimasto col Papa; di poi, passato le due feste, lo andai a visitare: il quale, fattomi piú carezze che prima, mi disse: - Se tu venivi un poco prima a Roma, io ti facevo rifare quella mia dua regni, che noi guastammo in Castello; ma perché e’ le son cose, dalle gioie di fuora, di poca virtú, io ti adopererò a una opera di grandissima importanza, dove tu potrai mostrare quel che tu sai fare. E questo si è il bottone del peviale (il quale si fa tondo a foggia di un tagliere, e grande quanto un taglieretto, di un terzo di braccio): in questo io voglio che si faccia un Dio Padre di mezzo rilievo, e in mezzo al detto voglio accomodare questa bella punta del diamante grande con molte altre gioie di grandissima importanza. Già ne cominciò uno Caradosso, e non lo finí mai; questo io voglio che si finisca presto, perché me lo voglio ancora io godere qualche poco; sí che va’, e fa’ un bel modellino -. E mi fece mostrare tutte le gioie; onde io affusolato subito andai.