La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XI

Libro primo
Capitolo XI

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Capitò questa lettera alle mane di quel mio maestro Ulivieri e di nascosto da me la lesse; di poi mi si scoperse averla letta, e mi disse queste parole: - Già, Benvenuto mio, non mi ingannò il tuo buono aspetto, quanto mi afferma una lettera, che m’è venuta alle mane, di tuo padre, quale è forza che lui sia molto uomo buono e da bene; cosí fa conto d’essere nella casa tua e come con tuo padre -. Standomi in Pisa andai a vedere il Campo Santo, e quivi trovai molte belle anticaglie: ciò è cassoni di marmo, e in molti altri luoghi di Pisa viddi molte altre cose antiche, intorno alle quali tutti e’ giorni che mi avanzavano del mio lavoro della bottega assiduamente mi affaticavo; e perché il mio maestro con grande amore veniva a vedermi alla mia cameruccia, che lui mi aveva dato, veduto che io spendevo tutte l’ore mie virtuosamente, mi aveva posto uno amore come se padre mi fusse. Feci un gran frutto in uno anno che io vi stetti, e lavorai d’oro e di argento cose importante e belle, le quali mi detton grandissimo animo a ’ndar piú inanzi. Mio padre in questo mezzo mi scriveva molto pietosamente che io dovessi tornare a lui, e per ogni lettera mi ricordava che io non dovessi perdere quel sonare, che lui con tanta fatica mi aveva insegnato. A questo, subito mi usciva la voglia di non mai tornare dove lui, tanto aveva in odio questo maledetto sonare; e mi parve veramente istare in paradiso un anno intero che io stetti in Pisa, dove io non sonai mai. Alla fine de l’anno Ulivieri mio maestro gli venne occasione di venire a Firenze a vendere certe spazzature d’oro e argento che lui aveva: e perché in quella pessima aria m’era saltato a dosso un poco di febbre, con essa e col maestro mi ritornai a Firenze; dove mio padre fece grandissime carezze a quel mio maestro, amorevolmente pregandolo, di nascosto da me, che fussi contento non mi rimenare a Pisa. Restatomi ammalato, istetti circa dua mesi, e mio padre con grande amorevolezza mi fece medicare e guarire, continuamente dicendomi che gli pareva mill’anni che io fossi guarito, per sentirmi un poco sonare; e in mentre ch’egli mi ragionava di questo sonare, tenendomi le dita al polso, perché aveva qualche cognizione della medicina e delle lettere latine, sentiva in esso polso, subito ch’egli moveva a ragionar del sonare, tanta grande alterazione, che molte volte isbigottito e con lacrime si partiva da me. In modo che, avedutomi di questo suo gran dispiacere, dissi a una di quelle mia sorelle che mi portassero un flauto; che se bene io continuo avevo la febbre, per esser lo strumento di pochissima fatica, non mi dava alterazione il sonare; con tanta bella disposizione di mano e di lingua, che giugnendomi mio padre all’improvisto, mi benedisse mille volte dicendomi, che in quel tempo che io ero stato fuor di lui, gli pareva che io avessi fatto un grande acquistare; e mi pregò che io tirassi inanzi e non dovessi perdere una cosí bella virtú.