La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XCIV

Libro primo
Capitolo XCIV

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Essendomi risoluto, come io dissi poco fa, di andarmene alla volta di Francia, sí per aver veduto che il Papa non mi aveva in quel concetto di prima, ché per via delle male lingue m’era stato intorbidato la mia gran servitú, e per paura che quelli che potevano non mi facessin peggio; però mi ero disposto di cercare altro paese, per veder se io trovavo miglior fortuna, e volentieri mi andavo con Dio, solo. Essendomi risoluto una sera per partirmi la mattina, dissi a quel fidel Felice, che si godessi tutte le cose mia insino al mio ritorno; e se avveniva che io non ritornassi, volevo che ogni cosa fossi suo. E perché io avevo un garzone perugino, il quale mi aveva aiutato finir quelle opere del Papa, a questo detti licenzia, avendolo pagato delle sue fatiche. Il quale mi disse, che mi pregava che io lo lasciassi venir meco, e che lui verrebbe a sue spese; che s’egli accadessi che io mi fermassi a lavorare con il Re di Francia, gli era pure il meglio che io avessi meco de li mia Italiani, e maggiormente di quelle persone che io cognoscevo che mi arebbon saputo aiutare. Costui seppe tanto pregarmi, che io fui contento di menarlo meco innel modo che lui aveva detto. Ascanio, trovandosi ancora lui alla presenza di questo ragionamento, disse mezzo piangendo: - Dipoi che voi mi ripigliasti, i’ dissi di voler star con voi a vita, e cosí ho in animo di fare -. Io dissi al ditto che io non lo volevo per modo nessuno. Il povero giovanetto si metteva in ordine per venirmi drieto a piede. Veduto fatto una tal resoluzione, presi un cavallo ancora per lui, e messogli una mia valigetta in groppa, mi caricai di molti piú ornamenti che fatto io non arei; e partitomi di Roma ne venni a Firenze, e da Firenze a Bologna, e da Bologna a Vinezia, e da Vinezia me ne andai a Padova: dove io fui levato d’in su l’osteria da quel mio caro amico, che si domandava Albertaccio del Bene. L’altro giorno a presso andai a baciar le mane a messer Pietro Bembo, il quale non era ancor cardinale. Il detto messer Pietro mi fece le piú sterminate carezze che mai si possa fare a uomo del mondo; di poi si volse ad Albertaccio e disse: - Io voglio che Benvenuto resti qui con tutte le sue persone, se lui ne avessi ben cento; sí che risolvetevi, volendo anche voi Benvenuto, a restar qui meco, altrimenti io non ve lo voglio rendere - e cosí mi restai a godere con questo virtuosissimo Signore. Mi aveva messo in ordine una camera, che sarebbe troppo onorevole a un cardinale, e continuamente volse che io mangiassi accanto a Sua Signoria. Dipoi entrò con modestissimi ragionamenti, mostrandomi che arebbe aùto desiderio che io lo ritraessi; e io, che non desideravo altro al mondo, fattomi certi stucchi candidissimi dentro in uno scatolino, lo cominciai; e la prima giornata io lavorai dua ore continue, e bozzai quella virtuosa testa di tanta buona grazia, che Sua Signoria ne restò istupefatta; e come quello che era grandissimo innelle sue lettere e innella poesia in superlativo grado, ma di questa mia professione Sua Signoria non entendeva nulla al mondo: il perché si è che allui parve che io l’avessi finita a quel tempo, che io non l’avevo a pena cominciata: di modo che io non potevo dargli ad intendere che la voleva molto tempo a farsi bene. All’utimo io mi risolsi a farla il meglio che io sapevo col tempo che la meritava: e perché egli portava la barba corta alla veniziana, mi dette di gran fatiche a fare una testa che mi sadisfacessi. Pure la fini’ e mi parve fare la piú bella opera che io facessi mai, per quanto si aparteneva a l’arte mia. Per la qual cosa io lo viddi sbigottito, perché e’ pensava che avendola io fatta di cera in dua ore io la dovessi fare in dieci d’acciaro. Veduto poi che io non l’avevo potuta fare in dugento ore di cera, e dimandavo licenzia per andarmene alla volta di Francia, il perché lui si sturbava molto, e mi richiese che io gli facessi un rovescio a quella sua medaglia, almanco; e questo fu un caval Pegaseo in mezzo a una ghirlanda di mirto. Questo io lo feci in circa a tre ore di tempo, dandogli bonissima grazia; e essendo assai sadisfatto, disse: - Questo cavallo mi par pure maggior cosa l’un dieci, che non è il fare una testolina, dove voi avete penato tanto: io non son capace di questa difficultà -. Pure mi diceva e mi pregava, che io gnene dovessi fare in acciaro, dicendomi: - Di grazia fatemela, perché voi me la farete ben presto, se voi vorrete -. Io gli promessi che quivi io non la volevo fare; ma dove io mi fermassi a lavorare gliene farei senza manco nessuno. In mentre che noi tenevamo questo proposito, io ero andato a mercatare tre cavalli per andarmene alla volta di Francia; e lui faceva tener conto di me segretamente, perché aveva grandissima autorità in Padova; di modo che volendo pagare i cavalli, li quali avevo mercatati cinquanta ducati, il padrone di essi cavalli mi disse: - Virtuoso uomo, io vi fo un presente delli tre cavalli -. Al quale io risposi: - Tu non sei tu che me gli presenti; e da quello che me gli presenta io non gli voglio, perché io non gli ho potuto dar nulla delle fatiche mie -. Il buono uomo mi disse che, non pigliando quei cavagli, io non caverei altri cavagli di Padova e sarei necessitato a ’ndarmene a piede. A questo io me ne andai al magnifico messer Pietro, il quale faceva vista di non saper nulla, e pur mi carezzava, dicendomi che io soprastessi in Padova. Io che non ne volevo far nulla ed ero disposto a ’ndarmene a ogni modo, mi fu forza accettare li tre cavalli; e con essi me ne andai.