La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo LXXX

Libro primo
Capitolo LXXX

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Scavalcato che io fui, subito andai a trovare il duca Lessandro e molto lo ringraziai del presente de’ cinquanta scudi, dicendo a Sua Eccellenzia che io ero paratissimo a tutto quello che io fussi buono a servire Sua Eccellenzia. Il quale subito m’impose che io facessi le stampe delle sue monete: e la prima che io feci si fu una moneta di quaranta soldi, con la testa di Sua Eccellenzia da una banda e dall’altra un San Cosimo e un San Damiano. Queste furono monete d’argento, e piacquono tanto, che il Duca ardiva di dire che quelle erano le piú belle monete di Cristianità. Cosí diceva tutto Firenze, e ogniuno che le vedeva. Per la qual cosa chiesi a Sua Eccellenzia che mi fermassi una provvisione, e che mi facessi consegnare le stanze della zecca; il quale mi disse che io attendessi a servirlo, e che lui mi darebbe molto piú di quello che io gli domandavo; e intanto mi disse che aveva dato commessione al maestro della zecca, il quale era un certo Carlo Acciaiuoli, e allui andassi per tutti li dinari che io volevo: e cosí trovai esser vero: ma io levavo tanto assegnatamente li danari, che sempre restavo a’ vere qualche cosa, sicondo il mio conto. Di nuovo feci le stampe per il giulio, quale era un San Giovanni in profilo assedere con un libro in mano, che a me non parve mai aver fatto opera cosí bella; e dall’altra banda era l’arme del ditto duca Lessandro. A presso a questa io feci la stampa per i mezzi giuli, innella quale io vi feci una testa in faccia di un San Giovannino. Questa fu la prima moneta con la testa in faccia in tanta sottigliezza di argento, che mai si facessi; e questa tale dificultà non apparisce, se none agli occhi di quelli che sono eccellenti in cotal professione. Appresso a questa io feci le stampe per li scudi d’oro; innella quale era una croce da una banda con certi piccoli cherubini, e dall’altra banda si era l’arme di Sua Eccellenzia. Fatto che io ebbi queste quattro sorte di monete, io pregai Sua Eccellenzia che terminassi la mia provisione, e mi consegnassi le sopraditte stanze, se a quella piaceva il mio servizio: alle qual parole Sua Eccellenzia mi disse benignamente che era molto contenta, e che darebbe cotai ordini. Mentre che io gli parlavo, Sua Eccellenzia era innella sua guardaroba e considerava un mirabile scoppietto, che gli era stato mandato della Alamagna: il quale bello strumento, vedutomi che io con grande attenzione lo guardavo, me lo porse in mano, dicendomi che sapeva benissimo quanto io di tal cosa mi dilettavo, e che per arra di quello che lui mi aveva promesso, io mi pigliassi della sua guardaroba uno archibuso a mio modo, da quello in fuora, che ben sapeva che ivi n’era molti de’ piú belli e cosí buoni. Alle qual parole io accettai e ringraziai; e vedutomi dare alla cerca con gli occhi, commise al suo guardaroba, che era un certo Pretino da Lucca, che mi lasciassi pigliare tutto quello che io volevo. E partitosi con piacevolissime parole, io mi restai, e scelsi il piú bello e il migliore archibuso che io vedessi mai, e che io avessi mai, e questo me lo portai a casa. Dua giorni di poi io gli portai certi disegnetti che Sua Eccellenzia mi aveva domandato per fare alcune opere d’oro, le quali voleva mandare a donare alla sua moglie, che per ancora era in Napoli. Di nuovo io gli domandai la medesima mia faccenda, che e’ me la spedissi. Allora Sua Eccellenzia mi disse, che voleva in prima che io gli facessi le stampe di un suo bel ritratto, come io aveva fatto a papa Clemente. Cominciai il ditto ritratto di cera; per la qual cosa Sua Eccellenzia commisse, che attutte l’ore che io andavo per ritrarlo, sempre fossi messo drento. Io che vedevo che questa mia faccenda andava in lungo, chiamai un certo Pietro Pagolo da Monte Ritondo, di quel di Roma, il quale era stato meco da piccol fanciulletto in Roma; e trovatolo che gli stava con un certo Bernardonaccio orafo, il quale non lo trattava molto bene, per la qual cosa io lo levai dallui, e benissimo gl’insegnai mettere quei ferri per le monete; e intanto io ritraevo il Duca: e molte volte lo trovavo a dormicchiare doppo desinare con quel suo Lorenzino che poi l’ammazzò, e non altri; e io molto mi maravigliavo che un Duca di quella sorte cosí si fidassi.