La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo LXX

Libro primo
Capitolo LXX

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Partendomi di Napoli a notte con li dinari addosso, per non essere appostato né assassinato, come è il costume di Napoli, trovatomi alla Selciata, con grande astuzia e valore di corpo mi difesi da piú cavagli, che mi erano venuti per assassinare. Di poi gli altri giorni appresso, avendo lasciato il Solosmeo alle sue faccende di Monte Casini, giunto una mattina per desinare all’osteria di Adagnani; essendo presso all’osteria, tirai a certi uccelli col mio archibuso, e quelli ammazzai; e un ferretto, che era nella serratura del mio stioppo, mi aveva stracciato la man ritta. Se bene non era il male d’inportanza, appariva assai, per molta quantità di sangue che versava la mia mano. Entrato ne l’osteria, messo il mio cavallo al suo luogo, salito in sun un palcaccio, trovai molti gentiluomini napoletani, che stavano per entrare a tavola; e con loro era una gentil donna giovane, la piú bella che io vedessi mai. Giunto che io fui, appresso a me montava un bravissimo giovane mio servitore con un gran partigianone in mano: in modo che noi, l’arm’e il sangue, messe tanto terrore a quei poveri gentili uomini, massimamente per esser quel luogo un nidio di assassini; rizzatisi da tavola, pregorno Idio, con grande spavento, che gli aiutassi. Ai quali io dissi ridendo, che Idio gli aveva aiutati, e che io ero uomo per difendergli da chi gli volesse offendere; e chiedendo a loro qualche poco di aiuto per fasciar la mia mana, quella bellissima gentil donna prese un suo fazzoletto riccamente lavorato d’oro, volendomi con esso fasciare: io non volsi: subito lei lo stracciò pel mezzo, e con grandissima gentilezza di sua mano mi fasciò. Cosí assicuratisi alquanto, desinammo assai lietamente. Di poi il desinare montammo a cavallo, e di compagnia ce ne andavamo. Non era ancora assicurata la paura; ché quelli gentili uomini astutamente mi facevano trattenere a quella gentildonna, restando alquanto indietro: e io a pari con essa me ne andavo in sun un mio bel cavalletto, accennato al mio servitore che stessi un poco discosto da me; in modo che noi ragionavamo di quelle cose che non vende lo speziale. Cosí mi condussi a Roma col maggior piacere che io avessi mai.

Arrivato che io fui a Roma, me ne andai a scavalcare al palazzo del cardinale de’ Medici; e trovatovi Sua Signoria reverendissima, gli feci motto, e lo ringraziai de l’avermi fatto tornare. Di poi pregai Sua Signoria reverendissima, che mi facessi sicuro dal carcere, e se gli era possibile ancora della pena pecuniaria. Il ditto Signore mi vidde molto volentieri; mi disse che io non dubitassi di nulla; di poi si volse a un suo gentiluomo, il quale si domandava misser Pierantonio Pecci, sanese, dicendogli che per sua parte dicessi al bargello che non ardissi toccarmi. Appresso lo domandò come stava quello a chi io avevo dato del sasso in sul capo. Il ditto messer Pierantonio disse che lui stava male, e che gli starebbe ancor peggio; il perché si era saputo che io tornavo a Roma, diceva volersi morire per farmi dispetto. Alle qual parole con gran risa il Cardinale disse: - Costui non poteva fare altro modo che questo, a volerci fare cognoscere che gli era nato di sanesi -. Di poi voltosi a me, mi disse: - Per onestà nostra e tua, abbi pazienzia quattro o cinque giorni, che tu non pratichi in Banchi; da questi in là va’ poi dove tu vuoi, e i pazzi muoiano a lor posta -. Io me ne andai a casa mia, mettendomi a finire la medaglia, che di già avevo cominciata, della testa di papa Clemente, la quale io facevo con un rovescio figurato una Pace. Questa si era una femminetta vestita con panni sottilissimi, soccinta, con una faccellina in mano, che ardeva un monte di arme legate insieme a guisa di un trofeo; e ivi era figurato una parete di un tempio, innel quale era figurato il Furore con molte catene legato, e all’intorno si era un motto di lettere, il quale diceva “Clauduntur belli portae”. In mentre ch’io finivo la ditta medaglia, quello che io avevo percosso era guarito, e ’l Papa non cessava di domandar di me: e perché io fuggivo di andare intorno al cardinale de’ Medici, avvenga che tutte le volte che io gli capitavo inanzi, Sua Signoria mi dava da fare qualche opera d’importanza, per la qual cosa m’inpediva assai alla fine della mia medaglia, avvenne che misser Pier Carnesecchi, favoritissimo del Papa, prese la cura di tener conto di me: cosí in un destro modo mi disse quanto il Papa desiderava che io lo servissi. Al quale io dissi che in brevi giorni io mostrerrei a Sua Santità, che mai io non m’ero scostato dal servizio di quella.