La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo LXV

Libro primo
Capitolo LXV

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Rivedendoci poi alla giornata, il negromante mi strigneva che io dovessi attendere a quella impresa; per la qual cosa io lo domandai che tempo vi si metterebbe a far tal cosa, e dove noi avessimo a ’ndare. A questo mi rispose che in manco d’un mese noi usciremmo di quella impresa, e che il luogo piú a proposito si era nelle montagne di Norcia; benché un suo maestro aveva consacrato quivi vicino al luogo detto alla Badia di Farfa; ma che vi aveva aùto qualche difficultà, le quali non si arebbono nelle montagne di Norcia; e che quelli villani norcini son persone di fede, e hanno qualche pratica di questa cosa, a tale che possan dare a un bisogno maravigliosi aiuti. Questo prete negromante certissimamente mi aveva persuaso tanto, che io volentieri mi ero disposto a far tal cosa, ma dicevo che volevo prima finire quelle medaglie che io facevo per il Papa, e con il detto m’ero conferito e non con altri, pregandolo che lui me le tenessi segrete. Pure continuamente lo domandavo se lui credeva che a quel tempo io mi dovessi trovare con la mia Angelica siciliana, e veduto che s’appressava molto al tempo, mi pareva molta gran cosa che di lei io non sentissi nulla. Il negromante mi diceva che certissimo io mi troverrei dove lei, perché loro non mancan mai, quando e’ promettono in quel modo come ferno allora; ma che io stessi con gli occhi aperti, e mi guardassi da qualche scandolo, che per quel caso mi potrebbe intervenire; e che io mi sforzassi di sopportare qualche cosa contra la mia natura, perché vi conosceva drento un grandissimo pericolo; e che buon per me se io andavo seco a consacrare il libro, che per quella via quel mio gran pericolo si passerebbe, e sarei causa di far me e lui felicissimi. Io, che ne cominciavo avere piú voglia di lui, gli dissi che per essere venuto in Roma un certo maestro Giovanni da Castel Bolognese, molto valentuomo per far medaglie di quella sorte che io facevo, in acciaio, e che non desideravo altro al mondo che di fare a gara con questo valentomo, e uscire al mondo adosso con una tale impresa, per la quale io speravo con tal virtú, e non con la spada, ammazzare quelli parecchi mia nimici. Questo uomo pure mi continuava dicendomi: - Di grazia, Benvenuto mio, vien meco e fuggi un gran pericolo che in te io scorgo -. Essendomi io disposto in tutto e per tutto di voler prima finir la mia medaglia, di già eramo vicini al fine del mese; al quale, per essere invaghito tanto innella medaglia, io non mi ricordavo piú né di Angelica né di null’altra cotal cosa, ma tutto ero intento a quella mia opera.