La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo LXIV

Libro primo
Capitolo LXIV

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Mi accadde per certe diverse stravaganze, che io presi amicizia di un certo prete siciliano, il quale era di elevatissimo ingegno e aveva assai buone lettere latine e grece. Venuto una volta in un proposito d’un ragionamento, in el quale s’intervenne a parlare dell’arte della negromanzia; alla qual cosa io dissi: - Grandissimo desiderio ho avuto tutto il tempo della vita mia di vedere o sentire qualche cosa di quest’arte -. Alle qual parole il prete aggiunse: - Forte animo e sicuro bisogna che sia di quel uomo che si mette a tale impresa -. Io risposi che della fortezza e della sicurtà dell’animo me ne avanzerebbe, pur che i’ trovassi modo a far tal cosa. Allora rispose il prete: - Se di cotesto ti basta la vista, di tutto il resto io te ne satollerò -. Cosí fummo d’acordo di dar principio a tale impresa. Il detto prete una sera in fra l’altre si messe in ordine, e mi disse che io trovassi un compagno, insino in dua. Io chiamai Vincenzio Romoli mio amicissimo, e lui menò seco un Pistolese, il quale attendeva ancora lui alla negromanzia. Andaticene al Culiseo, quivi paratosi il prete a uso di negromante, si misse a disegnare i circuli in terra con le piú belle cirimonie che immaginar si possa al mondo; e ci aveva fatto portare profummi preziosi e fuoco, ancora profummi cattivi. Come e’ fu in ordine, fece la porta al circulo; e presoci per mano, a uno a uno ci messe drento al circulo; di poi conpartí gli uffizii; dette il pintàculo in mano a quell’altro suo compagno negromante, agli altri dette la cura del fuoco per e’ profummi; poi messe mano agli scongiuri. Durò questa cosa piú d’una ora e mezzo; comparse parecchi legione, di modo che il Culiseo era tutto pieno. Io che attendevo ai profummi preziosi, quando il prete cognobbe esservi tanta quantità, si volse a me e disse: - Benvenuto, dimanda lor qualcosa -. Io dissi che facessino che io fussi con la mia Angelica siciliana. Per quella notte noi non avemmo risposta nessuna; ma io ebbi bene grandissima satisfazione di quel che io desideravo di tal cosa. Disse il negromante che bisognava che noi ci andassimo un’altra volta, e che io sarei satisfatto di tutto quello che io domandavo, ma che voleva che io menassi meco un fanciulletto vergine. Presi un mio fattorino, il quale era di dodici anni in circa, e meco di nuovo chiamai quel ditto Vincenzio Romoli; e, per essere nostro domestico compagno un certo Agnolino Gaddi, ancora lui menammo a questa faccenda. Arrivati di nuovo a il luogo deputato, fatto il negromante le sue medesime preparazione con quel medesimo e piú ancora maraviglioso ordine, ci mise innel circulo, qual di nuovo aveva fatto con piú mirabile arte e piú mirabil cerimonie; di poi a quel mio Vincenzio diede la cura de’ profummi e del fuoco; insieme la prese il detto Agnolino Gaddi; di poi a me pose in mano il pintàculo, qual mi disse che io lo voltassi sicondo e’ luoghi dove lui m’accennava, e sotto il pintàculo tenevo quel fanciullino mio fattore. Cominciato il negromante a fare quelle terrebilissime invocazioni, chiamato per nome una gran quantità di quei demonii capi di quelle legioni, e a quelli comandava per la virtú e potenzia di Dio increato, vivente ed eterno, in voce ebree, assai ancora greche e latine; in modo che in breve di spazio si empié tutto il Culiseo l’un cento piú di quello che avevan fatto quella prima volta. Vincenzio Romoli attendeva a fare fuoco insieme con quell’Agnolino detto, e molta quantità di profummi preziosi. Io per consiglio del negromante di nuovo domandai potere essere con Angelica. Voltosi il negromante a me, mi disse: - Senti che gli hanno detto? Che in ispazio di un mese tu sarai dove lei - e di nuovo aggiunse, che mi pregava che io gli tenessi il fermo, perché le legioni eran l’un mille piú di quel che lui aveva domandato, e che l’erano le piú pericolose; e poi che gli avevano istabilito quel che io avevo domandato, bisognava carezzargli, e pazientemente gli licenziare. Da l’altra banda il fanciullo, che era sotto il pintàculo, ispaventatissimo diceva che in quel luogo si era un milione di uomini bravissimi, e’ quali tutti ci minacciavano: di piú disse, che gli era comparso quattro smisurati giganti, e’ quali erano armati e facevan segno di voler entrar da noi. In questo il negromante, che tremava di paura, attendeva con dolce e suave modo el meglio che poteva a licenziarli. Vincenzio Romoli, che tremava a verga a verga, attendeva ai profummi. Io, che avevo tanta paura quant’e loro, mi ingegnavo di dimostrarla manco, e a tutti davo maravigliosissimo animo; ma certo io m’ero fatto morto, per la paura che io vedevo nel negromante. Il fanciullo s’era fitto il capo in fra le ginocchia, dicendo: - Io voglio morire a questo modo, ché morti siàno -. Di nuovo io dissi al fanciullo: - Queste creature son tutte sotto a di noi, e ciò che tu vedi si è fummo e ombra; sí che alza gli occhi -. Alzato che gli ebbe gli occhi, di nuovo disse: - Tutto il Culiseo arde, e ’l fuoco viene adosso a noi - e missosi le mane al viso, di nuovo disse che era morto, e che non voleva piú vedere. Il negromante mi si raccomandò, pregandomi che io gli tenessi il fermo, e che io facessi fare profummi di zaffetica: cosí, voltomi a Vincenzio Romoli, dissi che presto profumassi di zaffetica. In mentre che io cosí diceva, guardando Agnolino Gaddi, il quale si era tanto ispaventato che le luce degli occhi aveva fuor del punto, ed era piú che mezzo morto, al quale io dissi: - Agnolo, in questi luoghi non bisogna aver paura, ma bisogna darsi da fare e aiutarsi; sí che mettete sú presto di quella zaffetica -. Il ditto Agnolo, in quello che lui si volse muovere, fece una strombazzata di coreggie con tanta abundanzia di merda, la qual potette piú che la zaffetica. Il fanciullo, a quel gran puzzo e quel romore alzato un poco il viso, sentendomi ridere alquanto, assicurato un poco la paura, disse che se ne cominciavano a ’ndare a gran furia. Cosí soprastemmo in fino a tanto che e’ cominciò a sonare i mattutini. Di nuovo ci disse il fanciullo che ve n’era restati pochi, e discosto. Fatto che ebbe il negromante tutto il resto delle sue cerimonie, spogliatosi e riposto un gran fardel di libri, che gli aveva portati, tutti d’accordo seco ci uscimmo del circulo, ficcandosi l’un sotto l’altro; massimo il fanciullo, che s’era messo in mezzo, e aveva preso il negromante per la veste e me per la cappa; e continuamente, in mentre che noi andavamo inverso le case nostre in Banchi, lui ci diceva che dua di quelli, che gli aveva visti nel Culiseo, ci andavano saltabeccando innanzi, or correndo su pe’ tetti e or per terra. Il negromante diceva, che di tante volte quante lui era entrato innelli circuli, non mai gli era intervenuto una cosí gran cosa, e mi persuadeva che io fussi contento di volere esser seco a consacrare un libro; da il quale noi trarremmo infinita ricchezza, perché noi dimanderemmo li demonii che ci insegnassino delli tesori, i quali n’è pien la terra, e a quel modo noi diventeremmo ricchissimi; e che queste cose d’amore si erano vanità e pazzie, le quale non rilevavano nulla. Io li dissi, che se io avessi lettere latine, che molto volentieri farei una tal cosa. Pur lui mi persuadeva, dicendomi, che le lettere latine non mi servivano a nulla, e che se lui avessi voluto, trovava di molti con buone lettere latine; ma che non aveva mai trovato nessuno d’un saldo animo come ero io, e che io dovessi attenermi al suo consiglio. Con questi ragionamenti noi arrivammo alle case nostre, e ciascun di noi tutta quella notte sognammo diavoli.