La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo CXXV

Libro primo
Capitolo CXXV

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Ivi a pochi giorni il Castellano, che pensava che io fussi fuora e libero, stretto dal suo gran male passò di questa presente vita, e in cambio suo restò messer Antonio Ugolini suo fratello il quale aveva dato ad intendere al Castellano passato, suo fratello, che mi aveva lasciato andare. Questo messer Antonio, per quanto io intesi, ebbe commessione dal Papa di lasciarmi stare in quella prigione larga, per insino a tanto che lui gli direbbe quel che s’avessi a fare di me. Quel messer Durante bresciano già sopra ditto si convenne con quel soldato, speziale pratese, di darmi a mangiare qualche licore in fra i miei cibi, che fussi mortifero, ma non subito; facessi in termine di quattro o di cinque mesi. Andorno inmaginando di mettere in fra il cibo del diamante pesto; il quale non ha veleno in sé di sorte alcuna, ma per la sua inistimabil durezza resta con i canti acutissimi, e non fa come l’altre pietre; ché quella sottilissima acutezza a tutte le pietre, pestandole, non resta, anzi restano come tonde; e il diamante solo resta con quella acutezza; di modo che entrando innello stomaco insieme con gli altri cibi, in quel girare che e’ fanno e’ cibi per fare la digestione, questo diamante s’appicca ai cartilaggini dello stomaco e delle budella, e di mano in mano che ’l nuovo cibo viene pignendo sempre innanzi, quel diamante appiccato a esse con non molto ispazio di tempo le fora; e per tal causa si muore; dove che ogni altra sorte di pietre o vetri mescolata col cibo non ha forza d’appiccarsi, e cosí ne va col cibo. Però questo messer Durante sopraditto dette un diamante di qualche poco di valore a una di queste guardie. Si disse che questa cura l’aveva aúta un certo Lione aretino orefice, mio gran nimico. Questo Lione ebbe il diamante per pestarlo; e perché Lione era poverissimo e ’l diamante poteva valere parecchi decine di scudi, costui dette ad intendere a quella guardia, che quella polvere che lui gli dette fossi quel diamante pesto che s’era ordinato per darmi; e quella mattina che io l’ebbi, me lo messono in tutte le vivande; che fu un venerdí: io l’ebbi in insalata e in intingoli e in minestra. Attesi di buona voglia a mangiare, perché la sera io avevo digiunato. Questo giorno era di festa. è ben vero che io mi sentivo scrosciare la vivanda sotto i denti, ma non pensavo mai a tal ribalderie. Finito che io ebbi di desinare, essendo restato un poco d’insalata innel piattello, mi venne diritto gli occhi a certe stiezze sottilissime, le quali m’erano avanzate. Subito io le presi, e accostatomi al lume della finestra, che era molto luminosa, parte che io le guardavo, mi venne ricordato di quello iscrosciare che m’aveva fatto la mattina il cibo piú che il solito: e riconsideratole bene, per quanto gli occhi potevan giudicare, mi credetti resolutamente che quello fussi diamante pesto. Subito mi feci morto resolutissimamente, e cosí cordoglioso corsi divotamente alle sante orazioni; e come resoluto, mi pareva esser certo di essere ispacciato e morto: e per una ora intera feci grandissime orazione a Dio, ringraziandolo di quella cosí piacevol morte. Da poi che le mie stelle mi avevano cosí destinato, mi pareva averne aùto un buon mercato a uscirne per quella agevol via; e mi ero contento, e avevo benedetto il mondo e quel tempo che sopra di lui ero stato. Ora me ne tornavo a miglior regno con la grazia de Dio, che me la pareva avere sicurissimamente acquistata: e in quello che io stavo con questi pensieri, tenevo in mano certi sottilissimi granelluzzi di quello creduto diamante, quale per certissimo giudicavo esser tale. Ora, perché la speranza mai non muore, mi parve essere sobbillato da un poco di vana speranza; qual fu causa che io presi un poco di coltellino, e presi di quelle ditte granelline, e le missi in su ’n un ferro della prigione; dipoi appoggiatovi la punta del coltello per piano, agravando forte, senti’ disfare la ditta pietra; e guardato bene con gli occhi, viddi che cosí era il vero. Subito mi vesti’ di nuova isperanza e dissi: - Questo non è il mio nimico messer Durante, ma è una pietraccia tenera la quale non è per farmi un male al mondo -. E sí come io m’ero risoluto di starmi cheto e di morirmi in pace a quel modo, feci nuovo proposito, ma in prima ringraziando Idio e benedicendo la povertà, che sí come molte volte è la causa della morte degli uomini, quella volta ell’era stata causa istessa della vita mia; perché avendo dato quel messer Durante mio nimico, o chi fussi stato, un diamante a Lione, che me lo pestassi, di valore di piú di cento scudi, costui per povertà lo prese per sé, e a me pestò un berillo cetrino di valore di dua carlini, pensando forse, per essere ancora esso pietra, che egli facesse el medesimo effetto del diamante.