La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo CXIX

Libro primo
Capitolo CXIX

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Di poi la notte mi apparve in sogno una maravigliosa criatura in forma d’un bellissimo giovane, e a modo di sgridarmi diceva: - Sa’ tu chi è quello che t’ha prestato quel corpo, che tu volevi guastare innanzi al tempo suo? - Mi pareva rispondergli che il tutto riconoscevo dallo Idio della natura. - Addunche - mi disse - tu dispregi l’opere sue, volendole guastare? Làsciati guidare a lui e non perdere la speranza della virtú sua - con molte altre parole tanto mirabile, che io non mi ricordo della millesima parte. Cominciai a considerare che questa forma d’angelo mi aveva ditto li vero; e gittato gli occhi per la prigione, viddi un poco di mattone fracido; cosí lo strofinai l’uno coll’altro e feci a modo che un poco di savore: di poi cosí carpone mi accostai a un taglio di quella porta della prigione e co’ denti tanto feci, che io ne spiccai un poco di scheggiuzza; e fatto che io ebbi questo, aspettai quella ora del lume che mi veniva alla prigione, la quale era dalle venti ore e mezzo insino alle ventuna e mezzo. Allora cominciai a scrivere il meglio che io poteva in su certe carte che avanzavano innel libro della Bibbia; e riprendevo gli spiriti mia dello intelletto, isdegnati di non voler piú istare in vita; i quali rispondevano a il corpo mio, iscusandosi della loro disgrazia: e il corpo dava loro isperanza di bene: cosí in dialogo iscrissi:


- Afflitti spirti miei,
oimè crudeli, che vi rincresce vita!
- Se contra il Ciel tu sei,
chi fia per noi? chi ne porgerà aita?
Lassa, lassaci andare a miglior vita.
- Deh non partite ancora,
che piú felici e lieti
promette il Ciel, che voi fussi già mai.
- Noi resterèn qualche ora,
purché del magno Idio concesso sieti
grazia, che non si torni a maggior guai.

Ripreso di nuovo il vigore, da poi che da per me medesimo io mi fui confortato, seguitando di legger la mia Bibbia, e’ mi ero di sorte assuefatto gli occhi in quella oscurità, che dove prima io solevo leggere una ora e mezzo, io ne leggevo tre intere. E tanto maravigliosamente consideravo la forza della virtú de Dio in quei semplicissimi uomini, che con tanto fervore si credevano, che Idio compiaceva loro tutto quello che quei s’inmaginavano: promettendomi ancora io de l’aiuto de Dio, sí per la sua divinità e misericordia, e ancora per la mia innocenzia; e continuamente, quando con orazione e quando con ragionamenti volti a Dio, sempre istavo in questi alti pensieri in Dio; di modo che e’ mi cominciò a venire una dilettazione tanto grande di questi pensieri in Dio, che io non mi ricordavo piú di nessuno dispiacere che mai io per l’addietro avessi aùto, anzi cantavo tutto il giorno salmi e molte altre mie composizione tutte diritte a Dio. Solo mi dava grande affanno le ugna che mi crescevano; perché io non potevo toccarmi che con esse io non mi ferissi: non mi potevo vestire, perché o le mi si arrovesciavano in drento o in fuora, dandomi assai dolore. Ancora mi si moriva e’ denti in bocca; e di questo io m’avvedevo, perché sospinti i denti morti da quei ch’erano vivi, a poco a poco sofforavano le gengie, e le punte delle barbe venivano a trapassare il fondo delle lor casse. Quando me ne avvedevo gli tiravo, come cavargli d’una guaina, sanza altro dolore o sangue: cosí me n’era usciti assai bene. Pure accordatomi anche con quest’altri nuovi dispiaceri, quando cantavo, quando oravo, e quando scrivevo con quel matton pesto sopraditto; e cominciai un capitolo in lode della prigione, e in esso dicevo tutti quelli accidenti che da quella io avevo aúti; qual capitolo si scriverà poi al suo luogo.