La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo CVIII

Libro primo
Capitolo CVIII

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Allora io cominciai a pensate il modo che io avevo a tenere a fuggirmi. Subito che io mi veddi chiuso, andai esaminando come stava la prigione dove io ero rinchiuso; e parendomi aver trovato sicuramente il modo di uscirne, cominciai a pensare in che modo io dovevo iscendere da quella grande altezza di quel mastio, ché cosí si domandava quel alto torrione: e preso quelle mie lenzuole nuove, che già dissi che io ne avevo fatte istrisce e benissimo cucite, andai esaminando quanto vilume mi bastava a potere iscendere. Giudicato quello che mi potria servire, e di tutto messomi in ordine, trovai un paio di tanaglie, che io avevo tolto a un Savoino il quale era delle guardie del Castello. Questo aveva cura alle botte e alle citerne; ancora si dilettava di lavorare di legname; e perché aveva parecchi paia di tanaglie, infra queste ve n’era un paio molto grosse e grande: pensando che le fussino il fatto mio, io gliene tolsi e le nascosi drento in quel pagliericcio. Venuto poi il tempo che io me ne volsi servire, io cominciai con esse a tentare di quei chiodi che sostenevano le bandelle; e perché l’uscio era doppio, la ribaditura delli detti chiodi non si poteva vedere; di modo che provatomi a cavarne uno, durai grandissima fatica; pure di poi alla fine mi riuscí. Cavato che io ebbi questo primo chiodo, andai immaginando che modo io dovevo tenere che loro non se ne fussino avveduti. Subito mi acconciai con un poco di rastiatura di ferro rugginoso un poco di cera, la quale era del medesimo colore appunto di quelli cappelli d’aguti che io avevo cavati; e con essa cera diligentemente cominciai a contrafare quei capei d’aguti in sulle lor bandelle: e di mano in mano tanti quanti io ne cavavo, tanti ne contrafacevo di cera. Lasciai le bandelle attaccate ciascuna da capo e da piè con certi delli medesimi aguti che io avevo cavati, di poi gli avevo rimessi; ma erano tagliati, di poi rimessi leggermente, tanto che e’ mi tenevano le bandelle. Questa cosa io la feci con grandissima difficultà, perché il Castellano sognava ogni notte che io m’ero fuggito, e però lui mandava a vedere di ora in ora la prigione; e quello che veniva a vederla aveva nome e fatti di birro. Questo si domandava il Bozza, e sempre menava seco un altro, che si domandava Giovanni, per sopranome Pedignone; questo era soldato, e ’l Bozza era servitore. Questo Giovanni non veniva mai volta a quella mia prigione, che lui non mi dicessi qualche ingiuria. Costui era di quel di Prato ed era stato in Prato allo speziale: guardava diligentemente ogni sera quelle bandelle e tutta la prigione, e io gli dicevo: - Guardatemi bene, perché io mi voglio fuggire a ogni modo -. Queste parole feciono generare una nimicizia grandissima infra lui e me; in modo che io con grandissima diligenza tutti quei mia ferruzzi, come se dire tanaglie, e un pugnale assai ben grande e altre cose appartenente, diligentemente tutti riponevo innel mio pagliericcio; cosí quelle fascie che io avevo fatte, ancora queste tenevo in questo pagliericcio; e come gli era giorno, subito da me ispazzavo: e se bene per natura io mi diletto della pulitezza, allora io stavo pulitissimo. Ispazzato che io avevo, io rifacevo il mio letto tanto gentilmente e con alcuni fiori, che quasi ogni mattina io mi facevo portare da un certo Savoino. Questo Savoino teneva cura della citerna e delle botte; e anche si dilettava di lavorar di legname; e a lui io rubai le tanaglie, con che io sconficcai li chiodi di queste bandelle.