La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo CIII

Libro primo
Capitolo CIII

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Quando io senti’ queste parole io non mi possetti tenere di non mi muovere a grandissime risa; di poi riso alquanto, io dissi: - Molto ringrazio Idio, che per questa prima volta che gli è piaciuto a Sua Maestà che io sia carcerato, pur beato che io non son carcerato per qualche debol cosa, come il piú delle volte par che avvenga ai giovani. Se questo che voi dite fussi il vero, qui non c’è pericolo nissuno per me che io dovessi essere gastigato da pena corporale, avendo le legge in quel tempo perso tutte le sue autorità; dove che io mi potria scusare, dicendo, che come ministro, cotesto tesoro io lo avessi guardato per la sacra e santa Chiesa appostolica, aspettando di rimetterlo a buon Papa, o sí veramente da quello che e’ mi fussi richiesto, quale ora saresti voi, se la stessi cosí -. A queste parole quello arrabbiato Governatore pistoiese non mi lasciò finir di dire le mie ragione, che lui furiosamente disse: - Acconciala in quel modo che tu vuoi, Benvenuto, che annoi ci basta avere ritrovato il nostro; e fa’ pur presto, se tu non vuoi che noi facciamo altro che con parole -. E volendosi rizzare e andarsene, io dissi loro: - Signori, io non son finito di esaminare, sicché finite di esaminarmi, e poi andate dove a voi piace -. Subito si rimissono assedere, assai bene in còllora, quasi mostrando di non voler piú udire parola nissuna che io allor dicessi, e mezzo sollevati, parendo loro di aver trovato tutto quello che loro desideravono di sapere. Per la qual cosa io cominciai in questo tenore: - Sappiate, Signori, che e’ sono in circa a venti anni che io abito Roma, e mai né qui né altrove fui carcerato -. A queste parole quel birro di quel Governatore disse: - Tu ci hai pure ammazzati degli uomini -. Allora io dissi: - Voi lo dite, e non io; ma se uno venissi per ammazzar voi, cosí prete, voi vi difenderesti, e ammazzando lui le sante legge ve lo comportano: sí che lasciatemi dire le mie ragione, volendo potere riferire al Papa e volendo giustamente potermi giudicare. Io di nuovo vi dico, ch’e’ son vicino a venti anni che io abito questa maravigliosa Roma, e in essa ho fatto grandissime faccende della mia professione: e perché io so che questa è la sieda di Cristo, e’ mi sarei promesso sicuramente, che se un principe temporale mi avessi voluto fare qualche assassinamento, io sarei ricorso a questa santa Cattedra e a questo Vicario di Cristo, che difendessi le mie ragione. Oimè! dove ho io a ’ndare adunque? e a chi principe che mi difenda da un tanto iscellerato assassinamento? Non dovevi voi, prima che voi mi pigliassi, intendere dove io giravo questi ottanta mila ducati? Ancora non dovevi voi vedere la nota delle gioie che ha questa Camera appostolica iscritte diligentemente da cinquecento anni in qua? Di poi che voi avessi trovato mancamento, allora voi dovevi pigliare tutti i miei libri, insieme con esso meco. Io vi fo intendere che e’ libri, dove sono iscritte tutte le gioie del Papa e de’ regni, sono tutti in piè, e non troverrete manco nulla di quello che aveva papa Clemente, che non sia iscritto diligentemente. Solo potria essere, che quando quel povero uomo di papa Clemente si volse accordare con quei ladroni di quelli imperiali, che gli avevano rubato Roma e vituperata la Chiesa, veniva a negoziare questo accordo uno che si domandava Cesare Iscatinaro, se ben mi ricordo; il quale, avendo quasi che concluso l’accordo con quello assassinato Papa, per fargli un poco di carezze, si lasciò cadere di dito un diamante, che valeva in circa quattromila scudi: e perché il ditto Iscatinaro si chinò a ricorlo, il Papa gli disse che lo tenessi per amor suo. Alla presenza di queste cose io mi trovai in fatto: e se questo ditto diamante vi fussi manco, io vi dico dove gli è ito; ma io penso sicurissimamente che ancora questo troverrete iscritto. Di poi a vostra posta vi potrete vergognare di avere assassinato un par mio, che ho fatto tante onorate imprese per questa Sieda appostolica. Sappiate che se io non ero io, la mattina che gli imperiali entrorno in Borgo, sanza impedimento nessuno entravano in Castello; e io, sanza esser premiato per quel conto, mi gittai vigorosamente alle artiglierie, che i bombardieri e’ soldati di munizione avevano abbandonato, e messi animo a un mio compagnuzzo, che si domandava Raffaello da Montelupo, iscultore, che ancora lui abbandonato s’era messo innun canto tutto ispaventato, e non facendo nulla: io lo risvegliai; e lui e io soli amazzammo tanti de’ nemici, che i soldati presono altra via. Io fui quello che detti una archibusata allo Scatinaro, per vederlo parlare con papa Clemente sanza una reverenza, ma con ischerno bruttissimo, come luteriano e impio che gli era. Papa Clemente a questo fece cercare in Castello chi quel tale fussi stato per impiccarlo. Io fui quello che ferí il principe d’Orangio d’una archibusata nella testa, qui sotto le trincee del castello. Appresso ho fatto alla santa Chiesa tanti ornamenti d’argento, d’oro e di gioie, tante medaglie e monete sí belle e sí onorate. è questa adunche la temeraria pretesca remunerazione, che si usa a uno uomo che vi ha con tanta fede e con tanta virtú servito e amato? O andate a ridire tutto quanto io v’ho detto al Papa, dicendogli, che le sue gioie e’ l’ha tutte, e che io non ebbi mai dalla Chiesa nulla altro che certe ferite e sassate in cotesto tempo del Sacco; e che io non facevo capitale d’altro che di un poco di remunerazione da papa Pagolo, quale lui mi aveva promesso. Ora io son chiaro e di Sua Santità e di voi ministri -. Mentre che io dicevo queste parole egli stavano attoniti a udirmi; e guardandosi in viso l’un l’altro, in atto di maraviglia si partirno da me. Andorno tutti a tre d’accordo a riferire al Papa tutto quello che io avevo detto. Il Papa, vergognandosi, commesse con grandissima diligenza che si dovessi rivedere tutti e’ conti delle gioie. Di poi che ebbon veduto che nulla vi mancava, mi lasciavono stare in Castello senza dir altro: il signor Pierluigi, ancora allui parendogli aver mal fatto, cercavon con diligenza di farmi morire.