La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Capitolo

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../Libro primo ../Libro secondo IncludiIntestazione 24 giugno 2008 75% Autobiografie

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Questo capitolo scrivo a Luca Martini chiamandolo in esso come qui si sente.


Chi vuol saper quant’è il valor de Dio,
e quant’un uomo a quel Ben si assomiglia,
convien che stie ’n prigione, al parer mio;

sie carco di pensieri e di famiglia,
5e qualche doglia per la sua persona,
e lunge esser venuto mille miglia.

Or se tu vuoi poter far cosa buona,
sie preso a torto, e poi istarvi assai,
e non avere aiuto da persona;

10ancor ti rubin quel po’ che tu hai:
pericol della vita; ebbistrattato,
senza speranza di salute mai.

E sforzinti gittare al disperato,
rompere il carcer, saltare il Castello:
15poi sie rimesso in piú cattivo lato.

Ascolta, Luca, or che ne viene il bello:
aver rotto una gamba, esser giuntato,
la prigion molle e non aver mantello.

Né mai da nissuno ti sie parlato,
20e ti porti il mangiar con trista nuova
un soldato, spezial, villan da Prato.

Or senti ben dove la gloria pruova:
non v’esser da seder, se non sul cesso;
pur sempre desto a far qualcosa nuova.

25Al servitor comandamento spresso
che non ti oda parlar, né dièti nulla;
e la porta apra un picciol picciol fesso.

Or quest’è dove un bel cervel trastulla:
né carta, penna, inchiostro, ferro o fuoco,
30e pien di bei pensier fin dalla culla.

La gran pietà, che se n’è detto poco,
ma per ogniuna immàginane cento,
ché a tutte ho riservato parte e loco.

Or, per tornar al nostro primo entento,
35e dir lode che merta la prigione:
non basteria del Ciel chiunche v’è drento.

Qua non si mette mai buone persone,
se non vien da ministri, o mal governo,
invidie, isdegno o per qualche quistione.

40Per dir il ver di quel ch’io ne discerno,
qua si cognosce e sempre Idio si chiama,
sentendo ognor le pene dello Inferno.

Sie tristo un, quant’e’ può al mondo, in fama,
e stie ’n prigione in circa a dua mal’anni,
45e’ n’esce santo e savio, ed ogniun l’ama.

Qua s’affinisce l’alma, e ’l corpo, e’ panni;
ed ogni omaccio grosso si assottiglia,
e vedesi del Ciel fino agli scanni.

Ti vo’ contar una gran maraviglia:
50venendomi di scrivere un capriccio,
che cose in un bisogno un uomo piglia.

Vo per la stanza, e’ cigli e ’l capo arriccio,
poi mi drizzo a un taglio della porta,
e co’ denti un pezzuol di legno spiccio;

55e presi un pezzo di matton per sorta,
e rotto in polver ne ridussi un poco;
poi ne feci un savor coll’acqua morta.

Allora allor della poesia il fuoco
m’entrò nel corpo, e credo per la via
60ond’esce il pan; ché non v’era altro loco.

Per tornare a mia prima fantasia,
convien, chi vuol saper che cosa è ’l bene,
prima che sappia il mal, che Dio gli dia.

D’ogn’arte la prigion sa fare e tiene:
65se tu volessi ben dello speziale,
ti fa sudare il sangue per le vene.

Poi l’ha in sé un certo naturale,
ti fa loquente, animoso e audace,
carco di bei pensieri in bene e in male.

70Buon per colui che lungo tempo iace
’n una scura prigion, e po’ alfin n’esca:
sa ragionar di guerra, triegua e pace.

Gli è forza che ogni cosa gli riesca;
ché quella fa l’uom sí di virtú pieno,
75che ’l cervel non gli fa poi la moresca.

Tu mi potresti dir: - Quelli anni hai meno –:
E’ non è ’l ver, ché la t’insegna un modo
ch’empier te ne puo’ poi ’l petto e ’l seno.

In quanto a me, per quanto io so, la lodo;
80ma vorrei ben ch’e’ s’usassi una legge:
chi piú la merta non andassi in frodo.

Ogni uom, ch’è dato in cura al pover gregge,
addottorar vorries’ in la prigione,
perché sapria ben poi come si regge.

85Faria le cose come le persone,
e non s’uscirai mai del seminato,
né si vedria sí gran confusione.

In questo tempo ch’io ci sono stato,
io ci ho veduti frati, preti e gente,
90e starci men chi piú l’ha meritato.

Se tu sapessi il gran duol che si sente,
se ’nanzi a te se ne va un di loro!
Quasi che d’esser nato l’uom si pente.

Non vo’ dir piú: son diventato d’oro,
95qual non si spende cosí facilmente,
né se ne faria troppo buon lavoro.

E’ m’è venuto un’altra cosa a mente,
ch’io non t’ho detto, Luca: ov’io lo scrissi,
fu in su’n un libro d’un nostro parente,

100che in sulle margin per lo lungo missi
questo gran duol che m’ha le membra istorte,
e che il savor non correva, ti dissi;

che a far un O bisognava tre volte
’ntigner lo stecco; che altro duol non stimo
105sia nello Inferno fra l’anime avolte.

Or poi che attorto qui no sono ’l primo,
di questo taccio; e torno alla prigione,
dove il cervel e ’l cuor pel duol mi limo.

Io piú la lodo che l’altre persone;
110e volendo far dotto un che non sa,
sanza essa non si può far cose buone.

Oh fusse, come io lessi poco fa,
un che dicessi come alla Piscina:
- Piglia i tua panni, Benvenuto, e va’! –

115canteria ’l Credo e la Salveregina,
il Paternostro, e poi daria la mancia
a ciechi, pover, zoppi ogni mattina.

Oh quante volte m’han fatto la guancia
pallida e smorta questi gigli, a tale
120ch’io non vo’ piú né Firenze né Francia!

E se m’avien ch’io vada allo spedale,
e dipinto vi sia la Nunziata,
fuggirò, ch’io parrò uno animale.

Non dico già per Lei, degna e sagrata,
125né de’ suoi gigli glorïosi e santi,
che hanno il cielo e la terra inluminata;

ma, perché ognior ne veggo su pe’ canti
di quei che hanno le lor foglie a uncini,
arò paur che non sien di quei tanti.

130Oh quanti come me vanno tapini,
qual nati, qual serviti a questa impresa,
spirti chiari, leggiadri, alti e divini!

Vidi cader la mortifer’impresa
dal ciel veloce, fra la gente vana,
135poi nella pietra nuova lampa accesa;

del Castel prima romper la campana,
che io n’uscissi; e me l’aveva detto
Colui che in Cielo e in terra il vero spiana;

di bruno, appresso a questo, un cataletto
140di gigli rotti ornato; pianti e croce,
e molti afflitti per dolor nel letto.

Viddi colei che l’alme affligge e cuoce,
che spaventava or questo, or quel; poi disse:
- Portar ne vo’ nel sen chiunche a te nuoce -.

145Quel Degno poi nella mia fronte scrisse
col calamo di Pietro a me parole,
e ch’io tacessi ben tre volte disse.

Vidi Colui che caccia e affrena il sole,
vestito d’esso in mezzo alla sua Corte,
150qual occhio mortal mai veder non suole.

Cantava un passer solitario forte
sopra la ròcca; ond’io - Per certo - dissi,
- Quel mi predice vita, e a voi morte -.

E le mie gran ragion cantai e scrissi,
155chiedendo solo a Dio perdon, soccorso,
ché sentia spegner gli occhi a morte fissi.

Non fu mai lupo, leon, tigre, e orso
piú setoso di quel, del sangue umano,
né vipra mai piú venenoso morso;

160quest’era un crudel ladro capitano,
’l maggior ribaldo, con certi altri tristi;
ma perché ogniun nol sappia il dirò piano.

Se avete birri affamati mai visti,
ch’entrino appegnorar un poveretto,
165gittar per terra Nostredonne e Cristi,

il dí d’agosto vennon per dispetto
a tramutarmi una piú trista tomba:
- Novembre: ciascun sperso e maladetto -.

Ave’ agli orecchi una tal vera tromba,
170che ’l tutto mi diceva, ed io a loro,
sanza pensar, perché ’l dolor si sgombra.

E quando privi di speranza foro,
mi detton, per uccidermi, un diamante
pesto a mangiare, e non legato in oro.

175Chiesi credenza a quel villan furfante,
che ’l cibo mi portava; e da me dissi:
- Non fu quel già ’l nimico mio durante -.

Ma prima i mie’ pensieri a Dio remissi,
pregandol perdonassi ’l mio peccato;
180e Miserere lacrimando dissi.

Del gran dolore alquanto un po’ quietato,
rendendo volentieri a Dio quest’alma,
contento a miglior regno e d’altro stato,

scender dal Ciel con gloriosa palma
185un Angel vidi; e poi con lieto volto
promisse al viver mio piú lunga salma,

dicendo a me: - Per Dio, prima fie tolto
ogni avversario tuo con aspra guerra,
restando tu filice, lieto e sciolto,

190in grazia a Quel ch’è Padre in cielo e ’n terra.