La testa della vipera/X
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X.
Alberto Nori stette parecchî giorni tra la vita e la morte; ma per fortuna quel benedetto bottone, preso di mira, aveva fatto deviare un pochino il projettile, e il cuore era stato salvo. Il pericolo di una emorragìa interna venne scongiurato; e dopo una settimana, i medici credettero potere affermare, che se non sopravvenivano complicazioni, il malato sarebbe guarito.
Se in tutta la cittadinanza grandi furono lo interessamento pel Nori e la indignazione pel Lograve, grandissimi essi furono nella famiglia Danzàno, e in Cesare medesimo, e più di tutti in Matilde. Le pareva che su lei pesasse un po’ di colpa, che avendo essa scoperto il pericolo avrebbe dovuto fare di più per iscongiurarlo; se la prese col fratello, che non era stato capace d’impedire lo scontro, e non gli perdonò che quando vide con quali amorose cure egli si facesse ad assistere il ferito. Con ansia essa ne aspettava da Cesare le notizie, e come si era vivamente afflitta alle tristi, provò e manifestò una vera gioja al sopraggiungere delle buone. A un punto si stupì essa medesima di tanto interessamento che per la persona più cara non avrebbe potuto avere maggiore: ne interrogò tra sè e sè il suo cuore, e la risposta che n’ebbe le fece salire un’ondata di sangue alla faccia.
Fra Cesare Danzàno ed Alberto Nori, durante la malattia di quest’ultimo, venne stabilendosi una amicizia, una intimità, che non avrebbe potuto essere maggiore dopo anni ed anni di convivenza.
Guarito, Alberto frequentò la casa del nuovo amico, e vi mostrò carattere così aperto e buono, costumi così onesti e sentimenti tanto lodevoli, da ottenere la stima e l’affetto di tutti.
E quindi, allorchè, sei mesi dopo il fatal duello, Alberto Nori venne a chiedere ufficialmente la mano di Matilde ai genitori di lei, fu unanime il parere di tutti, di premurosamente acconsentire. Il matrimonio, che ebbe luogo al chiudersi dell’anno, ottenne l’approvazione e l’invidia di tutti, come quello che per le condizioni reciproche di età, di fortune, di carattere dei conjugi prometteva di riuscire il più felice che sia possibile.
E mantenne la promessa. Gli sposi furono felicissimi e lo meritarono. Matilde e Alberto potevano dirsi davvero fatti l’uno per l’altra; la dolcezza di lui temperò ancora meglio la primitiva petulanza di lei che gli anni avevano pure già scemato; l’amore, la fioritura della giovinezza, la soddisfazione del cuore, diedero alla beltà di Matilde nuovo pregio, nuovo incanto, nuovo splendore.
Come se la fortuna volesse favorire con ogni sua grazia quella giovane coppia amorosa, un anno dalle nozze non era ancora trascorso, che Matilde si vedeva appeso al seno e dondolava fra le sue braccia un amorino di bimbo così bello che Alberto voleva fosse tutto tutto il ritratto della mammina, e Matilde affermava ch’era una copia fedele in miniatura del babbo.
La loro felicità sarebbe stata troppa dove non fosse venuto a colpirli qualche dolore, e questo venne alla morte della madre di Matilde. Se per questa il colpo fu crudele, fu crudelissimo per il signor Danzàno, il quale, dopo tanti anni di convivenza sempre in pace e accordo, adorato da quella donna, ora a lui rapita, che lo sapeva circondare d’ogni cura e d’ogni affetto, sentì proprio mancarsi metà dell’esistenza, metà della ragione di vivere.
La sua casa divenne muta e deserta: Cesare, giovane vivente la vita elegante di società, non poteva e non sapeva dargli conforto; il povero vedovo in ogni stanza del quartiere trovava argomenti di ricordi che incrudivano sempre il suo dolore: egli non aveva sollievo, non provava consolazione che recandosi in casa della figlia, dove le parole e la presenza stessa di Matilde, le carezze dei nipotini (che ora erano in numero di tre, due maschietti e una femmina) gli facevano, non dimenticare, ma sentir meno la sua disgrazia. Valevano a ciò sopratutto le moìne, la figurina, i baci della bambina, alla quale era stato posto il nome della nonna, e in cui il vedovo a sua volta, s’ostinava a vedere il ritratto parlante della perduta donna. Un giorno, Alberto, andato in casa dello suocero, lo trovò così abbattuto che ne ebbe paura.
— Se quest’uomo continua a starsene qui solo, è bello e spacciato, pensò; e rientrato a casa, trasse in disparte sua moglie e le disse:
— M’è nata in capo un’idea, che spero approverai. Tuo padre ha bisogno di compagnìa e di cure: o perchè non verrebbe egli a viver qui con noi, ad ajutarci a tirar su que’ birichini dei nostri figli?
Matilde gettò le braccia al collo del marito.
— Oh grazie! gli disse baciandolo appassionatamente. Tu sei il miglior uomo del mondo.
Fecero così una famiglia sola; e il vecchio Danzàno si riprese alla vita. Cesare medesimo ne fu soddisfattissimo, perchè in verità egli voleva pure un gran bene alla sorella, e ai nipoti, e al cognato stesso, ed era lieto di vedere suo padre contento, mentre egli ne diveniva ancora più libero del suo tempo e della sua volontà, di guisa che per quella brava e buona famiglia tutto camminava prosperamente, allorchè, dopo cinque anni d’assenza, fece ritorno in patria Emilio Lograve.
Questi, fuggendo, portava seco la quasi certezza che Alberto Nori sarebbe morto della sua ferita; ne aveva aspettato impaziente le nuove ulteriori, e siccome nessuno glie ne aveva scritto, s’era rivolto replicate volte per lettera a Cesare, affine d’essere informato non solo della sorte d’Alberto, ma delle cose della famiglia Danzàno. Ma Cesare non gli aveva mai risposto, e la prima notizia ch’egli ebbe, fu la partecipazione a stampa del matrimonio seguito fra il signor Alberto Nori e la signorina Matilde Danzàno.
Emilio fu assalito da un vero accesso di furore; fantasticò ogni fatta di propositi violenti a vendicarsi.
Il pensiero di Matilde in braccio ad un altro gli era un supplizio che l’angosciava giorno e notte. E quell’altro così felice era quel Nori, per cui fin da ragazzo egli aveva avuto un odio, un rancore speciale! Stette a un pelo di pentirsene e precipitare in patria per costringere Alberto a un nuovo duello da cui non lo avrebbe più lasciato uscir vivo di certo. Ma se ne trattenne comprendendo che siffatto scontro sarebbe stato sicuramente impedito. Calmato il primo furore, un’altra vendetta che giudicò più cara, più degna e più compiuta, venne a sorridere al suo tristo talento.
— Egli l’ha sposata, pensò, ha vinto la prima partita. Ma non può darsi una rivincita?... togliergliela, strappargliela... averla, ora che è sua, ferirlo nell’amore insieme e nell’onore!... Impossibile?... E perchè?... Matilde è onestissima e mi odia... Ah! l’onestà delle donne, anche la più pura, può transigere sotto l’impero d’una necessità: anche l’odio la necessità fa superare... Crearla questa necessità, farla incombere minacciosa, imminente, inesorabile... Con arte, con pazienza... e il mio cervello d’artificî non ha penuria, e di pazienza il mio odio ne saprà avere. Chi sa?
Continuò i suoi viaggi. Visitò la Francia: visse la vita chiassosa di Parigi: e in quel bailame dove si cola, s’agita e ribolle «la gran fiumana di tutti i vizî d’Europa e d’America» non ebbero a farsi migliori il suo cuore, l’anima, l’indole. Passò in Inghilterra, e ciò da cui più venne colpito furono l’egoismo, la crudezza della lotta degl’interessi, il disprezzo pei deboli che contraddistinguono quella razza di forti; in Germania vide il trionfo della forza: a Berlino e Vienna incontrò le stesse passioni, gli stessi difetti e vizî e ingiustizie, onde la sua primitiva disistima degli uomini e delle donne, il suo scetticismo, il suo rancore contro chi godeva gioje a lui contese, la sua rabbia di soddisfare le sue brame si accrebbero, nè migliorarono i suoi costumi e il suo carattere. Dopo cinque anni, intravvenuta un’amnistia pei reati di duello, Emilio Lograve tornava in patria, ancora più tristo, più invidioso, maligno, ma esteriormente cambiato affatto, grazie alla maschera e alla veste d’agnello ch’egli aveva creduto utile imporsi e aveva saputo vestirsi.