La palermitana/Libro primo/Canto XXX

Libro primo - Canto XXX

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Libro primo - Canto XXIX Libro secondo

[p. 131 modifica] CANTO XXX

L’umanitá di Cristo si turba all’aspetto della croce.
Li pastori si partono. Teofilo resta.
Tosto che l’orator, de’ piú pregiati
mandar potesse il trino ed un consiglio,
die’ fine a’ suoi bei detti figurati,
quel magno al Padre coeterno Figlio,
5quell’uom sul fieno abbietto, anzi quel vermo,
snodò dal sonno il senso e aprigli il ciglio.
Gira i duo specchi pria; poi, come infermo
di nostra carne, in letto si conturba,
vólto alla croce, ove tien l’occhio fermo,
io Cinto si ve’ da quell’armata turba:
Egli è sol, nudo, e i piè e le man legato,
di che l’uman obietto assai lo sturba.
Mentr’è fra si crud’arme disarmato,
le quali or queste or quelle mira intento,
15e per provarle sa che in carne è nato,
l’uman incarco, in segno di spavento
afflitto, affligge i sensi, e le leggiadre
sue membra fan quel che le foglie al vento.
Giá non fu pietra (or che facea la Madre!),
20che non intenerisse ai duri e intensi
sospir del Figlio, obediente al Padre.
Quel ch’io con gli altri allor sentia, ripensi
chi ha tener cuore e non l’acciaio in petto,
che dirlo per me stesso non conviensi.
25Oh vile assai, ma venturoso tetto,
che, qual si fu, ne’ di del piú gran gelo,
a Chi non cape al mondo die’ ricetto,
a Chi nel pugno ha il mar, la terra, il cielo,
al solo Autor d’universal salute,
3C a Dio, cui piacque entrar di carne il velo!

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Felice grotta, u’ nacque fra le acute
mondane spine il Fior tant’anni atteso,
di ventre intier, com’ha la Dio virtute!
Stato gran pezza il nostro uman offeso,
35ecco il divin rasserenollo a un tratto
e l’ebbe amabilmente in sé ripreso.
Come se pietra od altro grave, tratto
in ruscel vivo, si gli annebbia il fondo,
e, puoco stando, al vetro torna ratto,
40i fior, qual bianco, giallo e rubicondo,
c’hanno il vigor da lui, gli applaudon lieti,,
che impallidirò al si vederlo immondo;
cosi l’aria del viso e gli occhi cheti
beltá ci rese, e gli angeli e gli umani,
45e ne fèr festa i bruti e le pareti.
Poscia Michele e gli altri veterani,
fatti al Signor gli usati loro inchini,
levano l’arme e volano lontani.
Andati quei, non meno i pellegrini
50pastori, e nudi del gentil Maestro,
dicon voler tornarsi a’ lor confini.
Io seco in parte alquanto mi sequestro:
ivi, parlando basso quant’io posso,
dar qualche buon aviso a lor m’addestro.
55E dissi : — Poiché a tant’onor promosso,
mercé ’l buon padre vostro, qui mi trovo,
qui vo’ domar i piè. le mani, il dosso.
I piè, le mani, il dosso al dolce giovo
qui vo’ domar di questo Agnel di Dio,
60né quinci mai, piacendo a lui, mi smovo.
S’ogni mio onor, mio studio, mio desio*
tutto che debil sono a tanto incarco,
a questa pietra catenar desio,
cosi la mano, il piè non mai ha parco
65risponder all’amor di quant’ Ei vuole
e gir di quanto impon col dorso carco.

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Starmi da voi disgiunto ben mi duole:
ma spero in quel Pastor, che tutti alfine
saremo di un ovil sott’altro sole.
70Sol chieggio in don, che qual di voi s’acchine
farmi grazia, ch’io sappia i nomi vostri;
servo sarògli, non che frate o affine. —
Rispose il primo lor: — I nomi npstri
non son, come del vostro ancor diceste,
75degni di fama e d’immortal’ inchiostri.
Pur di lor dirvi non per noi si reste.
Questo si è Bartol drepanese; quello
il Vigilanzio e l’agitato Oreste.
Ecco Ciprigno, Eusebio ed il Cornelio,
80tutti d’un padre tigli. Ecco Benotto
agrigentino e il suo Lisandro snello.
Quel chiamerete Egidio. E me, che sotto
agli altri mi son posto con ragione,
dite Onorato, di gradirvi ghiotto.
H5 Torno alle mandre senza il gran bastone,
che sempre fu castigatura e freno
del lupo, del litigio e del ladrone.
Or veggio andar un d’allegrezza pieno,
vii mercenar, scortese, insidioso,
90morbo agli armenti sempre e mal veleno.
Non si toglie un agnello dal lanoso
convento fuor, che subito il trafura;
poi volge altrui la colpa e fa il doglioso.
Ma sopra tutto il lusinghier ha cura
95gradir ai capi e primi delle gregge,
né il falso vi ha talor se non ventura.
Ben gli è caduto il pel; ma noi corregge
vergogna si, che il lupo cangi vezzo.
Guai dunque al pecorar che mal si regge!
100non piú averá del bel governo il prezzo.
Io il lascio qui, ché Dio per sé lo volle;
però, vita mortai, non piú t’apprezzo.

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Aggio con la sua fonte un verde colle
e cento pecorelle. Io vado a loro,
105e con il resto a’ poveri darolle.
Poi torno a voi, ché con voi star mi moro,
sol-in servigio di Chi m’ha concesso
vederlo qui degli angeli nel coro. —
E, detto ciò, si parte, e van con esso,
110poi molti abbracciamenti, gli altri tutti;
ed io m’assido al buon Gioseppe appresso,
che a me, vedendo gli occhi non asciutti
del caro pianto della lor partita,
disse: — D’amor le lacrime son frutti! —
115Poi con l’umano aspetto suo, che invita
essa durezza intenerire e amarlo,
m’addomandò la patria, il corso e vita.
Io, vergognando assai, per contentarlo,
le cose mie, di star sepolte degne,
120non gli nascondo, e semplice ne parlo.
Poscia nel fine il prego che non sdegne
mia servitú, negata mille volte
a regni e corti di tesori pregne;
ma che, la Dio mercé, mie voglie, sciolte
125d’umani onori, ambizioni e fasti,
tutt’eran del Bambino al giogo vòlte;
che quel vorrei portar coi pensier casti ;
e che, per quanto ha car l’altrui profitto,
in tanto mio desir non mi contrasti.
130Quel mi rispose: — Figlio, tu sei scritto,
per quel che veggo, in ciel nel santo libro,
ché svèlto cosi ben ti sei d’Egitto.
Lasciato hai per Giordan il Nilo e Tibro.
lasciato hai re mortale per l’eterno:
135per che ciò che delibri, ed io delibro.
Or sia de’nostri e non piú dell’inferno;
avrai cura qui meco di Colui,
che sol dell’universo ha il gran governo. —

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Io mille grazie rendo a quelli sui
140tanto soavi detti e, ragionando,
per troppo amor troppo anco ardito fui.
Basso la fronte, chiudo gli occhi e mando
ogni rispetto fuora, e che mi narri
del gran mistier l’origine domando.
145Ed egli a me: — Non son vani e bizzarri,
non curiosi sono i tuoi desii.
Ma, perché aratri sento andar e carri,
non or, ben tosto avrai quel che desii. —

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