La palermitana/Libro primo/Canto XXVIII

Libro primo - Canto XXVIII

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Il presepio del nostro Salvatore. Gli stranienti della passione sua.
La morte e sepoltura di Palermo.
Palermo, il vecchio saggio, assai piú trema
di quel che per vecchiezza, avendo a gire
innanti alla Virtú del ciel suprema.
Scorgeva gli altri, quando il gran desire
5Io sprona ed urta, e quando il gran rispetto
raffrena e sulle piante il fa stupire.
Ed io, che il cuore avea non cosi netto
come aver dessi a tanto assalto, molto
piú d’esso palpitar mi sento il petto,
io Stavami dietro a lui tutto raccolto,
coi sensi in un pensier legato e chino,
né punto ardir avea d’alzar il volto.
Lontano era pur anco il matutino.
Le nondimeno angeliche lanterne
15scoprian ai piè l’oscuro assai cammino.
Trovamo alfin le vive, sante, eterne
gioie dell’alto incomprensibil Nume
giacer in rotte e squallide caverne.
Ahi troppa mia fidanza, che presume
20dir quello e porre in carte, che non mai
diria di lingue un tuon, d’inchiostro un fiume!
Stan sopra il tetto gli angioletti gai,
che per fissure e buchi d’ogni lato
dal rotto albergo spargon vivi rai ;
25come talora il sol, dal mare alzato,
si chiude in spesso nuvolo, che manda
lá crini ardenti ov’egli è perforato.
Donna di senno ed uomo grave in banda
s’eran in una e due giomenti accolti,
30e di lor quattro al pregio fan ghirlanda.

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Tenean pur chini sempre a terra i volti,
ch’ivi nel fieno e in grembo d’un presepe
posto hanno un Figlio, ad adorarlo vólti.
Di sé gli fanno intorno angusta siepe:
ma tanti son degli occhi i caldi umori,
che la sua cuna un rio ne accoglie e tepe.
Angiol non v’è, non uom, che non l’adori;
non bue, non asinel, non vicin monte,
che per coprirlo un d’ei non spunti in fuori.
Palermo, a un tratto che mirollo, pronte
ebbe ginocchia da gittarle a terra
ed abbassarvi quanto può la fronte.
10presso a lui, siccome chi non erra
seguir scorta fedel, vi piego Tanche;
e la squadretta lungo a me si serra.
Tutti però discosti, ché non anche
ardir tant’era in noi d’avvicinarsi
a lui, ché treman l’alme e negre e bianche.
Dormia quel Pargoletto, e gli eran scarsi
gli drappi che il coprian contra decembre,
c’ha per lo mondo i suoi rigori sparsi.
Qui cominciò le tenerelle membre
del tempo al li carnefici gittare,
acciocché in tutto a noi per noi s’assembre.
La Madre, eh’è la donna singolare
di quante furo, sono e ancor saranno,
il caro parto stassi a contemplare.
S’avea dal capo istesso tolto il panno
e al meglio puote fattone le fasce,
ove le man fattrici chiuse stanno.
11padre ancor, non padre, mal si pasce
le voglie d’adorarlo, e tiensi indegno
cui tanto incarco a maneggiar si lasce.
Di largo pianto ha volto e seno pregno,
e tal si mostra nell’aspetto, quale
sia di don tanto, in quel ch’uom possa, degno.

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Fra tanto un gran baron c’ha chiuse l’ale,
baron del ciel, sottentra in vista altiera
ed ha sopr’ambi gli omeri due scale.
70Vien il secondo, e Micael fors’era,
cónto alla forza sua, che leggermente
sospende in braccio una colonna intiera.
11terzo ha il gallo, il quarto la pungente
lancia, cui segue il quinto con la canna
75e spongia, ebra d’aceto e fel mordente.
Il sesto in bianca tonica s’appanna,
di sangue sparsa; il settimo nell’una
tien tre chiodi, e il martel nell’altra spanna.
L’ottavo aspri flagelli in man s’aduna;
80trenta danari il nono ed i tre dadi,
da tradir quegli e questi di fortuna.
Al decimo tra l’altre dignitadi
tocca portar di vepri una corona,
vepri lunghi, mordaci e de’ piú radi.
85L’undecim d’un capestro e d’una zona
e d’altri nodi cingesi la gola,
il fianco, i bracci e tutta la persona.
L’ultimo appare in mesta e bruna stola
con due confitte travi ed è pur croce;
90pena, ch’a’ladri è destinata sola.
Qui porse il gran Palermo un’alta voce,
e disse, alzando gli occhi e mani al cielo:
— Oh morte a si giust’uomo troppo atroce! —
Cosi chiamando, l’anima, dal velo
95corporeo sciolta, in parte si ritenne
ove fame non è, non caldo e gelo.
Stassi quella colomba in sulle penne,
finché il Battista introdurralla seco
lá ove gran tempo i padri Dio sostenne.
100Io, qual stordito, piú non era meco,
quando repente vidimi alle piante
morto chi me allumato avea, di cieco.

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Ma l’angiol piú vicin con le man sante
degnossi accénni, e con avviso dolce
105mi trasse, e gli altri ancor, poco piú avante.
Qual tramortito, ch’abbia chi lo folce
fin alle piume ove lo corca e stende,
poi con rimedi e parolette il molce;
tal me, giá stato per levar le tende
no all’altra vita dietro al mio maestro,
quel gentil angiol m’alza e a me mi rende.
Fra tanto altri ministri, al lato destro
entrando, fean di stalla un paradiso,
ov’era Dio col gregge suo celestro.
115Coglion quel degno busto; ed improviso,
ecco, le man, in che non cape indugio,
dal vicin monte hanno un avello ecciso.
Poi fatto al piè del sasso un gran pertugio,
vi acconcian l’arca e l’immortai memoria
120danno al mortale e l’ultimo refugio.
Vattene, de’ pastori eterna gloria,
senza il tuo Filoteo, che tanto amasti;
vattene al premio della tua vittoria!
Tu, sendo incirconciso, meglio andasti
125del vero alla chiarezza, e dall’errore
dell’empia latria il popol tuo voltasti,
ch’or non fan questi, ch’ebbeno rettore
Dio sempre a’gesti suoi fin da principio!
Però ti fu concesso il Salvatore
130veder qui nato, e uscir poi di mancipio.