La lettera di G. Boccaccio al Priore di S. Apostolo/Al reverendissimo padre D. Marco Giovanni Ponta

Al reverendissimo padre D. Marco Giovanni Ponta

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AL REVERENDISSIMO PADRE


D. MARCO GIOVANNI PONTA


preposito generale de’ chierici regolari

somaschi.


Bello e caro dono ricevo dalla vostra cortesia, e tale che mi corre grand’obbligo, amico dottissimo e gentilissimo, di rendervene le grazie più affettuose. Già intendete che parlo del comento che Pietro figliuolo di Dante fece al divino poema del padre: comento che l’Italia vede ora pubblicato colle stampe la prima volta per la rara generosità d’animo dell’illustre britanno lord Vernon. Potete ben credere con quanta dirò meglio avidità che curiosità, studioso che sono io pure di Dante, vada qui e colà scorrendolo: e come spesso goda di trovarvi cose, che [p. 5 modifica]in vano cercherei forse in altri comenti, e che leggo poi scritte da Pietro (ciò che maggiormente mi piace) col giudizio liberissimo in tutto dell’età sua.

Certo questo Pietro fu uomo non mezzanamente erudito di quante opere di scrittori sacri e profani si conoscevano a’ tempi suoi: anzi ebbe pure alcun fiore di buona dottrina, benchè scrivesse si barbaramente latino. Dirò di più, che assai buon ufficio reputo ch’abbia cercato rendere alla memoria del padre. Con tutto ciò, s’ho a dirvi il vero, non credo che già molti segreti intorno al poema gli fossero da lui rivelati. Difatti se Dante avesse ammaestrato egli stesso il figliuolo intorno a tante cose, che ancora nella commedia ci sono così malagevoli ad intendere, noi vedremmo Pietro procedere molto più franco nelle sue interpretazioni: ben poetiche incertezze mostrerebbe su’ veri avvisi ch’ebbe qua e là il poeta scrivendo: ed inoltre non sarebbe certissimamente caduto in alquanti errori. Il che sia detto a solo fine di non attribuirgli in tutto un’autorità maggiore di quella che forse, o io m’inganno, non dee meritare. Del resto nè pur vorrei sognando accostarmi all’opinione del canonico Dionisi, che negò esser Pietro colui che scrisse il comento: perchè ogni dubbio sull’autenticità dell’opera del figliuolo di Dante parmi essere stato omai risoluto dalla non men grave che dotta confutazione che voi, nelle dottrine dantesche così solenne, avete fatto d’ogni difficoltà proposta da quel benemerito letterato.

Sia lode a lord Vernon d’avere affidato ad un pratichissimo, qual è il professore Nannucci, il riscontro de’ codici e la stampa del libro: perchè difficilmente un altro, che non avesse avuto quella [p. 6 modifica]perizia ed accuratezza, ne sarebbe venuto a capo con qualche onore: tanto grande è lo strazio che anche del comento di Pietro hanno fatto al solito le genti più ignoranti e bestiali che già vissero di mestiere prima d’esser trovata la stampa, voglio dire i copisti. Certo parmi che il Nannucci in molti luoghi dello scritto abbia fatto prodigi di sagacità e diligenza: e che sia perciò da scusare se tutto non ha potuto sanare perfettamente in un corpo sì guasto.

Oh questo pubblicare antichi codici è pure il difficil lavoro! Anzi lavoro siffatto, intorno a cui ho veduto spesso venir meno le forze anche d’uomini poderosissimi. Voi, onorando amico, quant’altri il sapete, costretto come siete voi pure a dover talora spaziarvi in mezzo a tal ginepraio: e dirò che anch’io non lo ignoro, per lo studio che con qualche assiduità vo ponendo, quando le altre mie cure me lo consentono, sugli antichi testi della nostra lingua, e per ciò che ho dovuto sopratutto toccare con mano emendando (bene o male, nol so) molti luoghi delle più riputate edizioni del Tesoretto, della cronaca del Malispini, de’ volgarizzamenti del frate da s. Concordio, e del Dittamondo. Se ne richiede ancora un esempio? Eccolo e gravissimo nella stampa che due valenti, il Biscioni ed il Gamba, ci hanno data di un’opera comunemente attribuita al primo padre dell’italiana eloquenza: nella lettera cioè che va sotto il nome del Boccaccio a messer Francesco di Nello Rinucci priore di s. Apostolo in Firenze. Chi dicesse che pochi altri scritti furono al pari di questo malmenati da’ copisti, direbbe cosa che forse niuno penerebbe a credere: ma non tutti vorranno poi credere, che a prova di spropositi coi copisti [p. 7 modifica]abbiano fatto gli editori. E nondimeno è così. Taccio del Biscioni: ma non posso tacere di Bartolomeo Gamba, che nella sua edizione milanese del 1829 (tipografia de’ classici italiani) vantossi d’aver ridotto questa lettera a buona lezione. Veramente povero Gamba, che pieno di certa predilezione per essa, compiacevasi tanto, che giudicatala una povera fanciulla di nobile stirpe, e trovatala piagata tutta da capo a piè, aveva adoperato ogni studio perchè risanasse! Sì, ripeto, povero Gamba: quanto egli ingannavasi così in questa sua dolce sicurtà di bene, come nello stimare di aver proprio trovato l’oro traendo della polvere un vecchio manoscritto della marciana! Quasi fossero gran cosa per se medesimi i vecchi manoscritti, e soli bastassero, senza il lume del buon giudizio, a render sicura qualunque lezione di un libro antico! Quanto a me crederò sempre, che co’ soli manoscritti (salvo se non siano dell’autore stesso dell’opera) non si accrescono e non si perpetuano spessissimo che gli errori, i quali non con altro che colla critica, ragione altissima, si correggono.

Io fui amicissimo, e ne pregio, a quell’uomo veramente ottimo e venerando, il quale non ha dubbio che coll’opera de’ Testi di lingua non siasi reso assai benemerito delle nostre lettere, e non abbia a se procacciato un nome fra gl’italiani meritamente chiarissimo. Ma non vorrò per questo tacere, ora che il Gamba è morto, ciò che liberamente gli dissi anche da vivo per la sua prima edizione de’ Fatti di Enea (veggasi la ristampa che poi ne fece in Venezia per l’Alvisopoli nel 1834): ed è, che comunque egli sia stato uno de’ principalissimi bibliografi del nostro [p. 8 modifica]secolo, nondimeno nel pubblicare alcune antiche opere non fu molto felice, anche per certa fretta che aveva nel darle fuori.

Ora ciò che l’egregio uomo non potè fare (nè era possibile) col soccorso che quasi unico cercò ne’ manoscritti, e nel codice marciano principalmente, procurerò secondo le mie piccole forze di farlo io coll’aiuto della semplice ragione, nutrita di qualche studio in siffatte cose: parendomi veramente non degno che vada attorno così mal concia una scrittura, ch’è pur citata dall’accademia della crusca fra i testi del bel parlare: benchè alcuni ultimamente, e fra essi l’illustre Ciampi, abbiano congetturato ch’ella non sia del Boccaccio. Se a ragione o no, lascio ch’altri lo giudichi: non essendomi nota che qualche sola parte di ciò che se n’è scritto in favore e contro. Questo bastami di poter dire, che l’antico falsificatore (posto che l’opera debbasi creder falsa) ha saputo non male imitare in alquanti luoghi così la lingua e lo stile, come la pompa un poco affettata di erudizione ed il far talvolta più sofistico ch’eloquente del certaldese. Se non che le invettive contra il gran siniscalco Nicolò Acciaiuoli vi sono si acerbe ed esagerate, che poco o niun luogo lasciano al verosimile: non sapendo chi possa indursi a credere, che tal fosse nella vita privata e pubblica quell’italiano famoso, qual ivi ci viene rappresentato dallo scrittore: fino a tacciare di avarissimo un uomo che dal suo secolo fu piuttosto reputato (userò le parole di Matteo Palmieri) liberalissimo e quasi prodigo: anzi fino a volere oscurar la fama di quel suo valore, che il Giannone chiamò grandissimo.

Leggo ne’ Testi di lingua del Gamba, che [p. 9 modifica]questa lettera al priore di s. Apostolo fu altresì pubblicata dal Ciampi il 1830 in Milano ne’ suoi Monumenti di un manoscritto autografo e lettere inedite del Boccaccio. Ma io non potuto vedere questo libro per quanto l’abbia cercato, nè so in Roma chi l’abbia: benchè poco vi avrei forse imparato, affermando il buon Gamba, con quella sua probità, che la ristampa del Ciampi è men della mia corretta: il che certo non è a dir poco. Giovami nondimeno di far qui tale avvertenza: perchè sappiasi che il solo caso, o a dir meglio il solo naturale accordo della mia ragione con quella del Ciampi, può avermi tratto (e me ne riputerò, se mai fosse) a proporre per avventura qualcuna delle correzioni, che già si trovassero fatte nell’edizione del celebre amico e letterato toscano. Le quali mie correzioni, comunque elle siano (perciocchè confido sempre poco delle mie cose) ecco che a voi si presentano, P. Ponta chiarissimo, desiderose di aver giudice competente e gentile l’alta vostra dottrina.




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