La favola di Pyti et quella di Peristera insieme con quella di Anaxarete/La favola di Anaxarete
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Mille honesti disii sfavillan sempre,
Ovunque gli occhi, ovunque il viso adorno
Di che’l Cielo, et la Terra s’innamora,
Qualhor beando questa parte et quella
Volgete in tempre, disusate et vaghe,
Perche come à l’errante secol nostro,
Che in voi sola s’appoggia, e sol respira,
Sete d’ogni vertude essempio et norma,
Et di quanto à ben far mai, si conviene
L’aperta via mostrate, e’l dritto calle,
Solo à pietà, che gentil core allaccia,
Et che quanto è creato adora, e inchina,
Come d’ogni vertù viva radice,
Chiudete il casto, et disdegnoso petto?
Ne unquanco à prieghi d’un fedel divoto,
Che corre à morte mille volte amando,
Scemate punto di durezza al core.
Credete forse, che’l mottor eterno
À cui più, ch’altro crudeltà dispiace,
À morte, et onta, di chi v’ama, e adora,
Tanta beltà, tante vertù creasse?
Credete quando ogni suo studio pose
In farvi più de l’altre al mondo bella,
Et più d'ogni valor possente et ricca,
Tanta fierezza v'aggiungesse insieme?
Oime che forsi più, ch'altri non crede,
Follia sarebbe, et il pensarlo errore,
Sarebbe fallo di ampia pena degno,
Ch'egli pietoso senza essempio, e fine
Mostro hà più volte, quanto in donna abhorre
Altiero orgoglio, et quanto li dispiace
Che per bellezza, ch'è suo proprio dono,
Misero Amante si procacci morte,
Ne d'altro torto più si grava, et duole
La Bella Dea ne le salse onde nata,
Che quando ad infinito ardore immenso
Per giusto premio del donato core,
Contender vede alta immortal Beltade,
Che di ciò antiche, e le moderne carte
Tutte lasciando, ne fa piena fede
La statua in Salamina ancho serbata,
Col tempio insieme, che divotamente
À Vener fù sacrato, ove l'offese
Vedute vendicò con degna pena.
Et perche il fiero et indurato affetto
Del sasso che in voi nacque il di che prima
Il cor disposi ad adorarvi sempre,
Haggia onde in parte intenerir si possa,
Et io sfoghi i pensier tenaci et saldi
Che à sospirar et lamentar son volti,
Con l’alma afflitta sbigottita et mesta
L’antico scempio d’infamato orgoglio,
Che ne passata ne futura etade
Mai coprira di sempiterno oblio,
In queste carte vi appresento et porgo.
Cosi benigna le proterve voglie
Dal altrui essempio mossa et da pietade,
S’il Ciel iniqua morte à quei destina
Che sventurato amor preme et ingombra,
Cangiate per bontà vostra infinita
Fù già ne l’odorata e vaga Cipro
Di nobil sangue e generosa stirpe,
Che da Teucro famoso antico scese,
Anexarete cui (si piacque Amore,
Che spesso ahi lasso in disegual uolere
Con catena di ferro, ò di diamante
Duo cor scherzando fieramente lega)
Veduto à pena restò preso et vinto
Iphi, che benche di lignaggio humile,
Ratto inalzato sin’al terzo Cielo,
(Mercé del vago Angelico sembiante)
Tal di dentro et di fuori sentì infiammarsi,
Che poi che vincer con ragion non valse
Il fier destin, et la soperchia fiamma,
Da speme indotto, ch’è benigna duce
À qualunque d’Amor servo si trova,
Di palesar che mal celar si puote,
Fra se stesso et amor prese consiglio,
Onde più volte supplice et dimesso
Il cor portando ne la fronte scritto,
L’uscio appressava de la Amata casa,
Talhor incontra à la fidata e cara
Di lei Nutrice tutto timoroso,
Oime dicea per le speranze vostre,
Che si agguagliar si denno al suo gran merto,
Innumerabil reputo e infinite,
Per lei, ch’è sol d’ogni mio ben speranza,
Siate vi prego, siatemi cortese,
Et mancando, à la lingua le parole,
Ne più poteva, ne più osava dire,
Talhor con voci lagrimose meste
Tutte acccese di fuoco et di pietade
Ch’Amor di propria bocca gli dettava,
Elletto alcun, che gli parea più Amico,
Con riverenti, et lusinghevol modi
Cercò favor verso l’Amata Donna;
Più d’una lettera scrissi, ove sovente
Cercando intepidire il freddo affetto,
Narrò l’historia de le pene sue,
Et quante volte di corone adorna
Con lagrime bagnate ad una ad una
Fece la porta? quante notti giacque
Al fiero Vento, à le Pruine, al Gielo,
Su’l Terren duro? quante volte pianse
Et fece oltraggio con parole conte
(Come d’Amanti era l’usanza anticha)
À la ferrata, e inessorabil porta?
Cosa insomma non fù che per piegare
L’Animo altier, d’ogni pietà rubello,
Non tentasse il meschin, ma tutto in vano,
Ch’ella più fiera che turbato Mare
Da procellosa pioggia combattuto:
Via più del ferro, che’l Norico fabbro,
Ne l’ardente fornace purga, e coce,
Et più del sasso che da tronco vivo
Di non svelte radici sia tenuto,
À cotai prieghi, à così pura fede,
À sì lungo servir, non più si move,
Che in mezo’l Mare immobil scoglio suole,
Immobil scoglio, che d’intorno l’onda
Sempre più forte de la nona abbatte,
E d’alto monte Ruinosi sassi
Spinti da le spumose acque profonde
Urtano indarno, e scoterlo non ponno;
Così crescendo l’ostinata rabbia
Come humiltà in altrui, quasi che poco
Fossero i portamenti, aspri, e crudeli,
Conformi à fatti le parole aggiunge.
E sprezzando, e schernendolo ogni speme
Di Giusto guiderdon li toglie et leva,
Và imaginar si può ch’ella dicesse,
Turbata in vista, temerario, e cerca
Altra più di me stolta, non pensavi
Che in arrido terren leggiadra pianta
Mal si conviene, et ogni cosa à ogn’uno?
Chi credi forsi? ben d’ingegno vile
Come di sangue sei, donati ad altra,
Ch’io per me eternamente odio ti porto,
Qual stral pungente fosser tai parole
À l’infelice, e paventoso amante,
Non che contar, ma ripensar non oso,
Che l’alma fugge il pensier strano atroce,
Et da la man la pena si scompagna.
Ben credo il sà, ch’à duo begl’occhi santi
Ver le sue parole nubilose, et ciechi,
À un cor di saldo adamantino smalto,
Che di punta amorosa unqua non teme,
Dal Ciel sia dato ingiustamente in preda,
Ch’il duol’ ch’Amor à suoi seguaci adduce,
Tutti i martir, tutte le pene unite,
Ch’in vita, in morte ripensar si ponno
Vince d’assai l’un disperato muore,
Altri co’l ferro si trafigge il petto,
Quegli senza morir, morendo vive.
Cotal vienne Iphi, ch’all’horribil suono,
Come à l’aspetto del Gorgoneo mostro,
Quasi restò cangiato in viva pietra.
Non hà voce à dolor, ne agli occhi pianto,
Ne fiato natural di bocca spira,
Ma trema insina alle midolle e l’ossa.
Ò potenza d’Amor grande è infinita,
Che duo contrari in un medesmo oggetto
Si spesso accoglie, ond’è cotanto ghiaccio
À chi tanto arde, ond’è cotanto foco
À chi in tanto timor agghiaccia et trema?
Con che spenger si pon le tue facelle,
Se in lor concordi sono il fuoco, e il gielo,
Con che scaldar potrò la neve, il ghiaccio
S’il fuoco tuo ch’ogni altro foco eccede,
L’interno gielo intepidir non vale
In questa pena per buon spatio stete
Il miser huom mezzo tra morto, e vivo
Poi ritornatogli il vigor primiero,
Tutto pensando, e rivolgendo à pieno
Del suo misero Amor l’aspro destino
E conoscendo che impossibil fora
Placar la cruda, e immansueta fera,
Havendo sempre ne la mente fisse
Le soperbe orgogliose, alte parole,
In tanta rabbia in tal furor divenne,
Che per più non morir, morire s’ellesse.
Era nel tempo, che novellamente
Girando notte lo stellato carro
Davan riposo i miseri mortal
Á gli affannati spirti, à i corpi lassi,
Et gli animai ne i proprii alberghi fidi,
Chi su un bel Mirto, chi su un verde Lauro,
Chi in le spelonche, chi ne le fresche acque,
Godeanse il sonno taciturno, e queto;
Sol’Iphi nel crudel proponimento,
Che maggior crudeltà facea men duro
Tutto pensoso, et di speranza voto
Che i laccio al collo à molti ha gia disciolto,
Fuor d’ogni requie travagliato stava,
Era à vederli intorno maraviglia
Innumerabil furie del’inferno.
Sedea con alto et minaccioso volto,
Tutte le ingiurie in man, tutte l’offese
De la peste d’Amor mostrando scritte
Lo sdegno à vendicar pronto et leggiero,
Et con sfacciata et temeraria fronte,
Che di mal far più che di ben s’appaga,
Baldanzosa venia l’Audacia innanzi,
Ne longe stava il lacerato pianto
Pallido il viso, con le vesti sciolte
Et il timor di fredda neve cinto
Tremava à guisa d’una mobil fronde,
Che Euro da un lato, Austro da l’altra scuota,
Ne gli mancava in si terribil schiera
La disperata, et affannata mente,
Il duol d’ingiusto e incomportabil torto,
Gli tormenti d’Amor fermi et constanti,
L’odio perpetuo di se stesso acerbo,
Sollicito furor, bramma di sangue,
Ostinato voler, chiaro disnore,
A l’ultimo con falce adonca, e fera,
Ch’à ogni cosa creata al fine adduce,
Horrida, magra, tenebrosa, scura
Nel carro d’ogni preda pien sedendo
Morte seguiva in triumphale aspetto,
Tal suol Megera dal tartareo chiostro,
Da mille furie uscir cinta d’intorno,
Quando del sangue di fraterna strage,
O’ del civile disbramar si vuole,
Tal Tisiphone armata l’arco tese
Ad Athamante contro il caro figlio,
Tal Melicerta con la madre spinse
Morte patir nel procelloso fiume.
Da questa impetuosa horribil scorta
Iphi condotto, à la spietata casa
D’Anaxarete gionse, che al sembiante
À l’andare,à lo stare, à gli atti veri,
Per lo terror da la propinqua morte,
L’ombre sembrava, che dal corpo spento
Con faccia humana il folle volgo crede
Errar nel tempo ch’il crinito Apollo
Nel mar bagnando l’indorato carro,
Scovre i celesti pargoletti lumi,
Ò pur il simolachro, horrido, incolto,
Che in Athene la casa infame rese,
Fin ch’insepolto et cathenato giacque,
Onde con voce lachrimosa et mesta,
Come presente al suo cospetto fosse
La lingua sciolse à tai parole estreme.
Anaxarete hor vinci l’aspra guerra,
Ch’ordiste contra d’un fedel humile,
Nel di ch’à mal mio grado il core alzai
Con gli occhi vaghi à perigliosa impresa,
La tua fierezza l’humiltà mia vince,
Che non più assai gran tempo à tedio havrai,
Cinge le tempie di vittrice Lauro,
Et con le voci d’allegrezza piene,
Su’l glorioso carro trionfante
L’opime spoglie del nemico porta,
Ecco che vinci, et volontier ne moro,
Accio che lieta di mia morte, possi
Crudel lodarmi, et non negarmi in parte,
Del ricevuto beneficio merto,
Poi che col proprio sangue m’apparechio
D’isbramare le tue ingorde accese voglie,
Ne percio gia prima de l’alma fuore
Partirà la memoria ferma et salda,
Che di te tengo, anzi à un medesmo tempo,
À un colpo solo mancaran due luci,
Ne per incerta, et incostante fama,
Novella havrai da la mia cruda morte,
Quel io saro che per maggior certezza
Col mio funesto miserabil corpo,
Pascendo gli occhi tuoi crudeli e feri,
Verro messaggio di me stesso vero:
Ma se qua giù gli occhi pietosi mai
Per mirar volge la bontà superna,
S’alcun benigno et amichevol nume
Cura le offese de sinceri amanti,
Sia di me prego ricordevol (altro
Come pregar non puote anche non volse)
Et agiungendo à la impennata fama
Quel tempo, ch’e a la vita hor mi si tolle,
Di noi memoria sempiterna faccia:
Cosi disse egli, et alla porta ornata
Spesso già di corone, e di ghirlande,
Gli occhi piangenti, e le pallide braccia
Acciò legasse il triste laccio alzando,
Queste son le corone empia e crudele
Che ti piaccion dicendo, il capo apese,
Et volto verso la spietata fera
(Quasi mostrasse fermo il suo disio,
Ò fosse caso che à fortuna avienne)
Dal forte nodo strangolato, e avinto,
Horrendo peso, et infelice giacque.
Taccia chi Amore, et le sue forze sprezza,
Et finto crede cio ch’al suo potere
Esser concesso in ogni carta legge,
Che nulla è al mondo, che ad acceso amante,
Poi che sofferti mille oltraggi, e mille
Da venti combattuto, e da procelle
Dispera il porto desiato tanto
Ardir si nieghi per voler del Cielo
Che spinse già nella famosa terra,
(Mille altri esempij raccontare non curo
Sparse nelle latine, ò Greche historie)
Onde primieramente al mondo sorse,
D’ogni ben colto inchiostro esempio, e frutto
Il miserabil giovine col ferro
Indursi à fine fortunoso, e reo,
Gia favola non è com’à una statua,
Ch’era ò bona fortuna consecrata,
Egliè legato d’amoroso laccio,
Come di Pigmalion ancho si legge,
Dipoi ch’indarno dal Senato volse
Comprar l’amato, et insensibil sasso,
Per la repolsa furioso e insano,
De la sfrenata voglia in se medesmo,
Con la sua propria man vendetta prese
In quella lutta, che dal corpo uscendo
L’alma sforzata suol sdegnosa fare,
Con i pie tremanti la serrata porta
Iphi percosse, che dapoi ch’aperta
L’holocausto d’amor palese fece,
À così novo, e infortunato caso
Ognun de servi stupefatto grida,
Et dal funesto laccio invano cerca
Iphi levare, che gia Acheron varcato
Haveva dritto l’amorosa selva,
Et à la propria casa lo riporta;
Ove dipoi che la dogliosa madre
Tenuto in braccio morto figlio pianse
Et con atti et parole egre conformi;
Disfogo in parte la pennosa mente
Faceansi le funeste, acerbe esequie,
Et per la strada che vicina havea
La casa di Anaxarete, piangendo,
Et al funereo miserabil rogo
Accompagnando il corpo morto, andava
La molta turba, che pietà movea,
Onde le voci lagrimose, e il pianto,
Che si sarebbe assai lontano udito
Col suon delle percosse accompagnato,
Giunse à le orecchie della cruda, e dura
Anaxarete, gia ch’il giusto Dio
Vendicator d’ogni sprezzato amante,
Gridava à degna, et meritata pena.
Cosi quasi dai i pianti alquanto mossa.
(Non che pietà del morto amante havesse)
Veggiam dicendo le lugubri esequie,
Ascese ad un balcon alto, e sublime,
Onde à pena Iphi nel funesto letto
Disteso havea da le finestre visto
Che (tosto più che ripensar non posso,
Che di là sù quel che si vuol è fatto)
Sentendo già gli occhi indurar, e il vivo
Sangue dal corpo scolorato, e smorto,
Invisibil fuggire, e da le vene;
Come talhor nell’aspre spine ascoso
Non veduto gonfiato angue premuto
Pastor turbato sbigotito fugge
Indarno i piedi di ritirar sforzosi
(Ó vendetta del Ciel giusta, e severa)
Che eran cangiati in insensibil pietra,
I piedi che così pronti, e leggieri,
Più già di mille volte à la foresta,
Iphi non visto, ne sentito, à pena
Fuggiron, come cerva can veloce,
Come colomba, cui il timor cresce ale,
L’augel di Giove spaventata fugge.
Indarno il volto di girar provossi,
Dal qual sempre à suoi danni oscuro e fosco
Come pungenti, e velenosi dardi,
Contra Iphi uscian rabbia, furore, et ira,
Al fin indarno tutto il corpo volse
Schifare, cui à poco à poco il sasso antico,
Che già gran tempo il petto oppresso havea
Di conforme color di vista eguale,
Il viso, il petto, et ogni membro avinse,
Et restò certo indubitato sasso,
Non altrimenti al volto di Medusa,
Che Perseo vincitor da la man manca
Indietro volto con la destra stese
Il ricco Atlante di superbia pieno,
Nel monte al corpo disusato eguale,
Che con le stel il Ciel regge e sostienne,
Pria che s’accorse, fu cangiato in tutto.
Qual deve questo esservi esempio chiaro,
Ò del mio cor, ò del mio ben reina,
Quali à ingannar li semplicetti cori
Di qualunque d’amor dura e rubella,
Disprezza l’arco, le facelle, il foco,
Ne mai pietosa è chi per lei se’n muore,
Cangia la iniqua scelerata voglia.
Che se com’Iphi ogniun col laccio al collo
Pender sovente non si legge, ò vede,
Non è ch’amante, che non sia gradito,
Dir non si possa vivendo morto,
Anzi s’il ver non è dal volgo oppresso,
Che com’il cor, hà gli occhi infermi e bassi,
À un fiero sdegno, à un riguardar altero,
À un non curar de le, impromesse false,
Ad ogni altro crudel atto spietato
Qual tutti sa chi mal amando vive,
Qualhor à questo, et à quel altro pensa,
Tante volte invisibil muore, et vive,
Del cui, poi ch’aspettando in vano amenda,
Ha prolungato la vendetta il Cielo,
Col pro, chel suo tardar pietoso adduce
Assai pena maggior compensar suole,
Ne giova il pentir tardo, il scusar vano,
D’un breve falso fuggitivo honore,
Con che il chiaro del vero amanta e cuopre,
(Quanto val rio costume esser prescritto)
À tutto il mondo il volgo scioccho gl’occhi,
Che già ha cotal opinion fermata,
Che rendersi à chi v’ama odiose, ò rie,
Sprezzar cui seti veri idoli suoi,
Proccaciar morte à chi da voi depende,
Più si conviene à chi più pregio brama,
Et con esempio della greca moglie,
Che tutte le diurne sue fatiche.
In finir quel che mai finir non volle,
Rompendo al lume de l’oscura notte,
Con duol pudico al suo consorte errante,
Contra mille amator servò la fede,
Et con la cruda, et violenta morte,
Che Lucretia si die, che sempre innanzi,
Oppone contra ogni fedel amante,
Vi abbaglia il lume, incrudelisce il core.
Ma lasso oime qual fama, quale honore,
Qual gloria tanto poi pregiata è questa,
Ch’in disprezzar d’amor il santo regno
Pensate d’acquistar eterno nome,
Che sia pur quanto mai si voglia grande,
Questa frale caduca incerta gloria,
Sia sparta pur da l’uno à l’altro Polo;
Al minor ben, che da un piacer d’amore
Godon duo lieti, e fortunati amanti,
Aguagliar non si puo, cio che il Ciel have
Cio ch’il mondo promette, e cio che dona.
Furar mi sento il cor l’alma partire
Con le piume d’amor alzata al volo,
Uscendo fuor del carcere terreno
Dietro questo felice almo pensiero,
Un lieto sguardo, una serena fronte
Vince l’acceso, e lampeggiante Cielo
Per veder Leucothea gia il biondo Apollo
Parti più volte, anzi che tempo fosse,
Da la sublime, alta real sua corte.
Giove, da cui ogni ben nostro viene,
Signor di quanto imaginar si puote,
Per provar la dolcezza alma, et eterna,
Che da i frutti d’amor nasce, e risorge,
Deposte le corone e l’alto scettro,
Dal Ciel ove dolcezza egual non era,
Più volte in terra sconosciuto scese,
Cigno, Tauro, Pastor, Aquila, fuoco.
Ne per vil sdegno, ò per timor d’infamia,
Quella che tien lo imperio, de la terra,
Per lo diletto amato Endimione
Che ne le belle, e delicate braccia
Nel monte Latmo addormentato havea,
Negò lasciar il suo stellato albergo.
Ne per l’antico suo fido Tithone
Cinta di rose la purpurea fronte
À prieghi del famoso cacciatore
La vaga Aurora si mostro ritrosa,
Chi non sa Marte bellicoso, e fiero
Con Vener bella catenato e preso
Dal geloso Vulcan nel letto aggiunti?
À chi chiaro non è la Dea de Eleuso,
Veduto in Ida saggittar le fere,
Iasio infiammata le midolle e l’ossa,
De altri campi la cura, e de le bionde
Spighe lasciata sol Crete famosa
Per favor de l’amato viso adorno,
In ogni piaggia, in ogni alpestre loco;
Haver fatta feconda alta superba?
Et voi pensate oime che disconvenga,
Seguendo l’orme de le sante Dee,
Coglier il fior delle bellezze vostre?
Che biasmo sia, che sia disnore espresso
Rendersi piè á chi v’adora e cole?
Pensate che per esser inhumane
Contra à chi viè più humil, et più sogetto
Pregio s’acquisti de immortal alloro?
À questo non vi ha l’alma natura,
Ch’à benefitio d’un l’altro avicenda
Non di se solo eternamente crea,
Fatte si dolci, si leggiadre, et belle,
Non tanti, e tanti innumerabil doni,
Che con si larga man ha in voi diviso,
Contra dil’huom, contra di noi v’hà dato
Queste bionde lucenti chiome d’oro,
Di cui simil non hà Baccho, ne Apollo,
Possente ad alligar Tigre arrabbiata,
Mai non sciogliendo il nodo stretto avinto,
Fuor di mercede in dolorose pene
Tener non denno un'alma, un core afflitto,
Questa fronte più assai che il Ciel serena,
Che può acquetar il mar, spengnere i tuoni,
Atta à pacificar rigidi venti,
Le procelle, ch'Amor sempre ne adduce,
Perche turbata oime, perche turbata,
Qual spesso ne la fiamma alma mia veggio
Raddoppia in noi le tempestose piogge?
Ne i belli occhi, ond'Amor sue faci accende,
Che son di questo altro hemispero stelle,
Cosi legiadri, cosi vaghi, e chiari,
À danno nostro, ad immortal supplicio,
Dal Ciel dati vi son oscuri e foschi
Col lor vivace, e lucido splendore,
Con che vincete il Sol, quando più chiaro
Di nulla nube ha i bei raggi velati,
Dovete il giel d'un paventoso amante,
Quando al vostro apparir dentro e di fuori
Tutto cangiato, d'amoroso giaccio
Tremar vedete sbigotito e smorto,
Spegner benigne et rinovar sovente
La mente morta, la speranza frale
Che se da così santa et alma luce,
Onde vita ne de, morte ne viene,
Ben si puo dir che il Sol per noi sia freddo
La terra molle, l’acqua dura, e salda
Ben si può dir, ch’ogni gran ben per noi
Contra il suo natural ordin si muti.
Il bel volto ch’in terra è il Paradiso,
Ove hor di questo, hor di quel altro, il core
Ove l’alma si vede esser dipinta,
La dolce bocca angelica di perle
Ch’in terra n’apre il Paradiso eterno,
Il col di schietto avorio, e pario marmo
Il petto, d’ogni ben che qui si gode,
Vera fontana, e secretario fido,
Le longhe man, le delicate braccia,
In somma tutto quel ch’è in voi di bello,
Ch’altro non sete che bellezza in tutto,
Mon sol per voi, non sol ad util nostro,
Ma di chi v’ama, e riverisce è fatto.
Che come il Sol per se non luce, come
Per se non veste di bei fior la terra,
Cosi l’alta beltà, ch’in voi s’annida,
Che de le nostre fosche menti è un Sole,
Onde in noi nata l’amorosa voglia
Verdeggia sempre come foglia in Lauro,
Splender per noi, per noi fiorir debb’ancho,
Godete voi, godete il ben vi prego,
Che con voi nacque, et fate altrui godere,
Che vostre alme bellezze mai non colte,
Come veste gentil che non si porti,
Come Palazzo inhabitato, come
Vaso d’argento che nessuno adopri
Corrompe il tempo, et la vil herba avolve,
E fansi oscure, tenebrose, et lorde.
Ne siate à voi di voi medesme parche,
Et di quel d’onde povere non sete,
Che non si perde ò sminuisce unquanco,
Che à commun benefitio sempre integro,
Perche più largamente si dispense,
Per gratia singolar, e proprio dono,
Fra tanti altri che’l Ciel tra voi comparte,
Senza scemarsi, contro il frequente uso
Ch’ogni cosa creata, e lima,
Incorrotto, infinito, eterno resta,
Arricchendo un famelico mendico,
Donando che donar mai non potete,
Fatene copia, à chi bramando more,
Poi che per questo solo al mondo nate,
Poi che si adorne, et delicate et vaghe,
Foste create à questo effetto santo.
Ne imitate lo avar ch’in mezzo gli alti
Cumulati thesor, fra le ricchezze,
Onde l’ingorda voglia ogn’hor più cresce
Senza adoprarle, senza trarne frutto,
De la lor vista sol s’appaga, e pasce.
Tantalo à i labra l’odorate pome,
E mezzo al mento ha le fresche acque chiare,
Ne la cocente inesiccabil sete
Spegne, od estingue la rabbiosa fame,
Chi non diria sotto il suo nome quanto
Per voi si faccia esser segnato à punto?
Chi vieto mai di gir al basso l’acqua?
Salir in alto il foco? i fiumi al mare
Correr per mille vie da mille parti?
Chi sforzò d’imburnire la luce al Sole?
Spegner le stelle et rischìarir la notte?
Cercar rapirsi à tutte forze il velo,
Con monti sopra l’un de l’altro posti,
Voler togliere à Giove il fren, lo scettro,
Altro non é che contrastar à quanto
Lo stil da la natura madre, Inchina
Altro non è che dimostrarsi acerbe
Spietate, inique, onde pietose et buone
Per colmarne di gioia, et di diletto,
Mandate foste da superni chiostri.
Che se malvaggie, se orgogliose, e crude
Se contra à un amatore guerriere armate,
In contender al suo disio focoso,
Di generarvi al ciel fosse piaciuto,
Come al fiero Leon l’unghie rapaci,
À forti Tauri le possenti corna,
À selvaggio Cingial denti di foco,
À mille altri animai mille arme diede,
Onde fossin crudeli e bellicosi,
Cosi di pari, à voi dolce mio bene,
Dolce riposo, dolce mia fatica,
Cosi di pari, à voi tutte altre dico,
Se nate foste à guerreggiar con voi,
Negando che negar mai non dovete,
V’havrebbe il Ciel che v’è sempre cortese,
Coperte armate, ond’e tenere ignude
Piangendo nate, et ne legami avolti,
Dal materno alvo pria cadesti in terra
Ne bastò questo, à dimostrar che havesti
Prender costumi al nascer nostri eguali,
C’havesti altrui porgere soccorso come
Ne la prima novella vostra etade
Á voi stese de aita era bisogno,
Che per chiarire il suo voler pietoso,
Levandovi ogni scusa, ogni difesa
Non vi die faccia spaventosa, e trista,
Non gli occhi, onde l’affetto interno appare,
Inhumani, severi, al viso appose,
Non voce alpestra, non terribil suono,
Ma benigna, clemente, humil, e bassa
Sol per non sgomentarne, ancho vi diede.
Che dirò de le snelle braccia honeste,
Che per soccorer, per pacificarne
Hà la natura, e Dio lunghe produtte?
Che de la bocca, onde la pace viene
Merce del bacio manifesta e chiara?
Ove il cor lascio timidetto, e piano,
Ch’a ogni lieve, cagion dal petto svelto
Ne la tremante faccia vi si vede?
Che taccio de le lagrime alme e sante,
Di che si larga copia il Ciel vi diede,
Che dirò de la debil lieve forza?
Del timor natural che con voi nacque?
Che tutti questi raccontati segni,
Tutte le qualitati in voi trovate,
Fan chiaro inditio, e manifesta fede,
Di quanto v’hò già detto, e dirovi ancho.
Vi ho detto, e dico, che pietose sete
(Benche il vero appo voi nulla ne giova)
Da Dio create, e che sdegnose e atroci
À chi più v’ama, esser dovete meno,
V’ho detto, che non ad altro al mondo state,
Se non per compiacer, à chi piacete,
Per aggradir chi vi si dona et offre,
Per salvar vita, à chi per voi la perde,
Che se col ver alto giudicio intiero,
Non lassiando abbagliarvi l’intelletto,
Le varie opre del mondo, le mille arti;
I varij studij ripensar vorrete,
Nullo essercitio più di questo bono,
Null’arte al stato vostro piu conforme,
(Che proprio è di ciascun quel che più giova)
Più a l’ingegno, à la vita atta, e leggiera,
Più di dolcezza copiosa, e ricca,
Da Gange à Thile, da l’un Polo à l’altro,
Trovar potrete in clima altro benigno
Quel nato à arar, à coltivar la terra,
Che altro non sa, ne di saper ricerca,
Al tramontar, et al spontar del Sole,
Lieto nel campo si trastulla, e gode,
Ne per l’aurato pretioso Tago,
Per lo regno di Cresso, ò quel di Ciro,
Cangeria il suo natio proprio lavoro.
Altri in saper quanto sian fisse, e erranti
Stelle nel Ciel, onde la Luna piena,
Onde sciema si facci, onde s’oscuri,
Seguendo il natural alto destino,
La mente ha ingombra, disgombrata altronde,
Quegli rapito, onde sua stella il guida,
Scarco d’ogni pensier, d’ogni altra cura,
Segue il sanguigno, bellicoso Marte,
Ciascun à quel, che’l suo pianeta inchina.
Che ne la mente eterna è stabilito
Più non volendo, ne voler curando,
Il corso adatta de la vita sua.
Voi sole sete, fra così gran turba,
(Non so per qual cagion fati maligni)
Chel vostro natural destin sprezzate,
Per non poter di più quanto potete,
Che sole al mondo per amar venute,
Più à questo acconcie che ad ogni altra cosa,
Per far di voi, à chi lo merta copia,
Per contentar le sue bramose voglie,
Sdegnando il nostro amor la fè, il disio
Di voi poco vi cal meno di noi,
Ne di cio tanto à beneficio nostro
Duolmi del falso, che divise, e sparse
Vi tien da noi come nimici vostri,
Quanto per voi, che le ricchezze proprie
Senza alcun frutto possedete invano,
Che tanti, e tanti innumerabil doni,
Di si conte manier, di si bel corpo
Non adoprando, non usando ogn’hora,
Come debito fora, come lice
Mostrate a torto esser tenute saggie,
Duolmi, che per giovar giovene dette
Continovando il rio vostro dispitto,
A’ voi di angoscia, à noi di noia sete
Duolmi, che à dominar donne chiamate,
(Che vi faria più capital nimico)
Non conoscendo chi fidel vi serve,
Ne mai premiando chi premiar dovete.
(Che nessun regne altronde si mantiene)
Togliete à voi stesse di man lo impero,
Lo impero, che di quanto gira il Sole,
Quanto circonda il mar, quanto la terra,
Ne maggior, ne secondo, ne par have,
Del qual nessun, più volontario mai,
Più fedel, più constante, più gioioso,
Più facile acquistar, più à mantenere,
Imaginar, non che trovar si puote,
Altri da ingiusto desiderio spinti,
Che onde scemar dovrebbe, indi più cresce,
Per un poco di fama, per un breve,
Titol di regno, per ingorda voglia,
Cometton mille straggi, mille morti,
Combatton mille perigliose guerre,
Voi, cui dal Ciel si giusto impero dato
Si grande fù, nel di che gli elementi
In discorde concordia uniti furo,
Che senza temere periglioso fine,
Senza travaglio alcun, senza fatica,
In dolce pace, in sempiterna gioia,
Amate essendo il mantenente amando,
Che per servar quel ch’è già vostro antico;
Per mostrar l’alto ingegno, il gran valore,
Per mantenere il degno eccelso nome,
L’alme rubelle à le vostre alte insegne,
Che portate d’Amor nel viso scritte,
I cor ferati di diamante quadro,
Pregando, amando, e tutto quel donando
(Che vittoria tall’hor così s’acquista)
Che in voi piu dolce piu pregiato havete,
Cercar dovreste al vostro giogo trare,
Non curando di noi, ne chi vi sprezza,
Di donne serve, di patrone ancelle
Fatte vi havete, e vi farete ogn’hora,
Che’l Ciel, per la giustitia onde si regge,
Onde risguarda il ben, punisce il male,
Patirà che da voi l’impero in tutto,
Che così a vil tenete, et così incolto
Á biasmo vostro in noi, sia trasferito,
In noi, che sempre à desir vostri amici,
Á tutti i cenni, à tutte vostre voglie,
Non guardando la perdita, che vi entra
Dal canto nostro, da vostro il guadagno
Quanto potrem, tanto serem cortesi.
Et forse anchor che le bellezze vostre,
Che incoltivate et infeconde hor sono,
Onde di voi tanta vaghezza havete,
Egualmente fra nui seran divise.
Che se l’oro, ch’il Sol genera et crea,
Se l’argento la Luna, il ferro Marte,
Saturno il piombo, Venere l’Oricalco,
Vedessino da lor produtti in vano,
Ch’altro stimar si puo, se non che ascose,
Per noi tenendo le mal nate vene,
À più saggio coltor darian la cura?
Quanto poi àl’hora vi dorrete, quanto
Riconoscendo il mio fedel consiglio,
Che dato vi ho, che son per darvi sempre,
Biasmarete le vostre inique voglie,
Quando dal gran poter, dal gran dominio,
C’havete in noi vi trovarete prive,
Quando á pregarne, à supplicarne insieme,
Se la nostra bontà, se’l voler pronto
Fusse diforme, e disegual dal vostro,
Vi converrà per ritrovar mercede,
Quando del ben perduto ramentando,
Di tante alme fattezze, pellegrine,
Di cotanta beltà perduta in tutto
Voi medesme in voi stesse cercarete.
Ma falsa sia mia trista openione,
E i mesti augurij siano al vento sparsi,
Che degne voi regnar regnate sole,
Belle esser degne sol, belle anche siate.
À noi servirvi, e riverir conviene,
Che à tanto honor dal Ciel degnati siamo;
À voi benigne et amorose farne
Parte di voi, parte del ben c’havete,
Parte di quel, ch’indivisibil sempre,
Quando vostra merce, si dona, e parte,
Con voi, noi insieme reintegrando à pieno
Quei beati più fa, che più forte hanno
Di cocente desir il petto caldo,
Et voi più assai, che se Tyresia il vero
C’havea provato discoperse in Cielo
S’à veraci scrittori unqua si crede,
In questa alma immortal, celeste pace,
Onde gioisse il Ciel, e gli elementi,
In così perfettissima unione,
Che al primier stato ognun di noi riduce,
Godete del piacer la maggior parte.
Fu tempo (se ascoltar non vi é molesto,
Quel che abbattendo ogni ragion contraria,
Quanto voi erriate; quante erri ciascuno,
Quanto sia à voi scortese, à noi nimico,
Che d’amarne vi vieta, e vi sconforta
Partir con noi, quel che funestro intero
Aquistara al mio dir perfetta fede)
Fù tempo, dico, che diversa, e varia
Era da quel, c’hor è nostra sembianza,
Che non sol maschio, e femina creati
Furo al principio, ma una terza sorte,
Che di femina havea, di maschio forme,
Simil al tutto in parti differente,
Che hor spenta tiene il nome à pena nacque,
A l’hor ciascun la sua figura il corpo,
Integramente havendo in se raccolto,
Quattro occhi, quattro mani, quattro orechie,
Duo volti, anche duo nasi, e in somma tutti
Quei membri, c’hor in noi sono crescendo,
Onde gran tempo inseparato visse,
Mostrava aggiunto l’uno, e l’altro sesso.
Ma poi che dal valor, da le forze alte,
Che li porgeva il duplicato corpo,
Crebbe l’audacia sopra il gran potere,
Che del suo stato non contenta, volse
Ad acquistar il Ciel l’empio disio,
Ne l’adunato ampio concilio, Giove
Pensato ho disse, et il pensier è tale,
Che á indebilir le smisurate forze,
À mitigar gli alteri animi loro,
Queste progenie, che i Giganti aguaglia,
Vo che ciascun da l’altro, sia partita,
Come ramo da tronco si divide.
Tal che maschi sian sol femine sole,
E vo, che dove fieno incisi et tronchi,
Indi gli occhi, la fronte, il viso appaia.
Cosi fatto col dir, ecco ch’ogn’uno
Spinto dal gran disio, che à cio lo sprona,
Contra al piacer, contra al voler di Giove,
Con l’altro insieme d’amoroso nodo
S’abbraccia, e lega et (ò contento raro,
Che meriti à la vita esser preposto)
Cosi legati, così avinti insieme,
Che mai notte, ne giorno divideva,
Nulla curando senza mai nutrirsi
Muoiono in dolce e sempiterna gioia.
Veduto questo, e conosciuto Giove
Che onde morte venia lieta e soave,
Per lo continuo abbracciamento loro,
L’human seme di lieve indi mancava
Al nuovo acerbo periglioso caso,
Di nuovo ancho consiglio egli providi,
Subito fa, poi che conosce e vede
L’ardente affetto, il desiato mezzo,
Che con il tutto volentier si cangia,
Le parte, che honestà richiude, e copre,
Onde ciascun che vive al mondo nasce,
Dinanzi por, ch’era di prima adietro,
Accio, ch’in abbracciarsi, onde morea,
Nascendo se reimpiesse il mondo scemo
Come vedemo ogn’hor come noi sempre.
Se voi non foste à desir nostri avare,
Cerchiamo di aumentar, cercarem semre.
Ò perche quel antico almo legame,
Se non per tutti, al men per quei non torna
C'hanno di laccio par l'anima avinta?
Ò perche à disfogar l'ingorde brame
Non riede per color, che forte amando
Legati insieme, in natural cathena
Senza periglio di immatura morte
Prenderiam vita dal gioir eterna?
Perche per voi anima mia non riede,
Per voi, che piu leggiera e piu disciolta,
Onde legarvi onde tardar dovreste,
Al mio lungo seguir sete fugace?
Ò se questi occhi lagrimosi sempre
Godessin mai de la vostra alma vista,
Se questa bocca sospirosa, e stanca,
In domandarvi, in supplicar mercede,
Se questo cor cosi piegato, et arso,
Se quest'afflitta e tormentosa vita,
Per benigno voltar d'alto pianeta
Gionta con voi, salute eterna havesse,
Tal che vi fosse si vietato e tolto,
Come primieramente era disdetto,
Da me fuggir, da me partirvi unquanco,
Beato me, beato il primo affanno,
Beato quanto per Amor soffersi,
Beato ch’ancho di soffrir mi resta,
Ma lasso il desiar fallace, e vano,
Lasso la speme tropo in alto alzata,
Lasso la soave rimembranza antica,
Et ritornando al mio primo lavoro
Onde non sarò mai satio ne stanco,
Dico che per ragion stabile, e ferma,
Che da l’origin vostra se deriva,
Sete voi nostre, et da noi divise
Senz’il mezzo di voi stesse imperfette
Ad util vostro, à voluntà del cielo
(Che mai vi tolse quel che già vi diede
Ma per giusta cagion mutollo in parte)
Reintegrarvi con noi dovreste ogn’hora,
E ricusando à chi ven chiede, e prega,
(Sempre di quel che ne sia degno parlo
Di quel ch’amando desiando morto
Fatta n’havete isperienza certa)
Poi che ciasccun di altrui ha il mezzo vero
À un tempo solo, ad un medesmo tratto
(Ove è maggior sciocchezza maggior torto)
Il proprio à voi, à noi togliete il nostro,
Ne sol togliete la dolcezza eterna,
Che in si nettareo, si sacrato effetto,
Onde il viver noioso, à mill’oltraggi,
À la morte si fanno illustri in ganni,
Per la virtù dell’invaghiti sensi
Insina à le midol si gusta, e prova,
Ma un non so che, che con la mente intenta,
Con l’anima levata al terzo giro,
Che ne ingegno ne stil il ver agguaglia,
Incomprensibil si conosce, e gode,
E vivo Lethe et Acheronte passa,
Questo al tornar di Demophonte amato
Fé verdeggiar di nuove foglie, quella
Ch’al suo lungo aspettar fatta di ghiaccio,
In arbor secca d’amoroso foco
Havea cangiata la mortal sua scorza,
Questo nel rogo ardente Evadne estinse,
Questo fè l’ombra di Protesilao
Laodomia si preggiar, ch’al simolachro
Di lei la vera sua vita prepose,
Questo al gridar de l’infelice Tisbe,
À i complessi iterati, à i longhi pianti
Gl'occhi gravati dal’estremo sonno
Aperse, a chi già gli havendo aperto il petto
A’ gli spirti vitali, à l’alma morta,
Ad amor solo havea rinchiuso il passo,
Ò vero ben mal conosciuto tanto,
Vera vita che morte ne prolunghi,
Vera beatitudine beata,
Chi potria mai tanto lodarti à pieno,
Che fosse il dir con gran soggetto pare?
Che la materia, onde m’agghiaccio et torpo,
Non piu del stil larga, e soblime fosse?
Chi potria dir le vere alte ragioni,
Che piu son tante, quanto piu si pensa,
Onde cacciato ogn’ostinato affetto,
Sete costrette amar, se amate sete?
Ne per questo potete esser gia mai
(Che di ciò in ampia forma ve assicuro
Starvi dinanzi à dogni vostro danno)
Da huom, ch’intero habbia giuditio sano,
Che di marmo non habbi il spirto e l’ossa,
D’un picciol neo d’infamia ricoperte,
Che quel disnor, quel scorno che ne viene,
(Se da cotanta alma, celeste gioia
Sorger puo cosa, che vi stempri, e turbi,
Se’l chiar splendor de tante alte virtude
Che racolte ha in voi il ciel insieme unite,
Offuscar puo vile terrena nebbia)
Appò di quanti han di raggione il lume,
Non in voi, ma cader dè ne la natura,
Che à questo solo v’hà fatte e vi mantiene,
À questo sol sempre v’invita, e inchina.
Ne testimon altro che’l vostro chiamo,
Ch’appresso voi quanto hò già detto e dico
Per le tante ragion certo, e sicuro,
Tutto il mio volontier sempre rimetto.
Chi riprende s’il fuoco scalda e abbruggia?
Se l’acqua bagna? se la terra è grave?
Se l’aer piu leggiero in alto vola?
Chi riprende se il verno horrido freddo?
S’estate è calda? e primavera è lieta?
Se l’Autunno è inequale, s’anch’è nocente?
Come per veder gl’occhi, i pie per gire,
Per tor le man, per ragionar la bocca,
À arbitrio nostro à volontà son fatte,
Che non passando questo membro, e quello,
Il proprio offitio, esser non può ripreso,
Cosi le parti, ch’in voi son piu dolci,
Che piu bramar, che piu pregar si deno,
Se quanto il natural corso gli porge,
Quanto l’offitio lor chiede, e ricerca
Fanno e rifan, biasmar gia non si ponno,
Che se Lucretia à grave scorno s’hebbe
Stata esser contra il suo voler cortese,
Onde la morte volontaria elesse,
Fù insania espressa, e no timor di biasmo,
Che dovea inanzi, che violata fosse,
Per ver amor de la honestade pura,
Che di se sola ampia mercede et premio
D’alcun stranio favor non ha bisogno,
Casta morir, onde morio corrotta,
Che come il vero meritato honore,
Contra l’invidia, contra il tempo avaro,
Dopò la morte sempiterno resta,
Cosi l’infamia, così il biasmo certo,
Che sorge da villano atto inhonesto
Mentre viviam con noi, poi che siam spenti.
Benche moresson mille volte, e mille,
Varca le rive d’Acheronte insieme,
E se intatta morir, ella non volse
Poi che sforzata haveva il cor pudico,
Onde sol castita s’acquista e perde,
Ond’ogni nostra operation s’informa,
Perche del non fallir pena si piglia,
Perche del biasmo, ove non era incorsa,
Scioglier si pensa con la morte in vano?
Quanto piu saggia (bench’il volgo inerte
Presti piu orecchie alle fallaci cianze,
Ch’a l’historico dir, vero sincero)
Quanto piu accorta, piu prudente assai,
Fu Penelope bella, che lontano
Mentre da lei visse pel mar errando
Ulisse, e parte guerreggiando à Troia,
À la sua solitaria, horrida vita,
(Quale è di voi senz’il servigio nostro
Se in tutto in odio, non havete il vero)
Di cortesi amator scorta se elesse,
Et altra tela che di fil tessendo
La nott, ee il giorno, il Dio d’Arcadia Pane
Aggiunse al seggio del celeste trono,
Ne contenta di questo, poi ch’incerta
Fama volgato hebbe il consorte morto,
Acciò che inutil non passasse il tempo,
Il tempo, che non può spendersi à meglio
Tra l’infinita copia d’amatori,
Quel sol voler, pel suo diletto disse,
Che piu de gl’altri valoroso, e forte,
L’arco tendendo (l’arco in mezzo pose)
Mostrasse forza al suo voler conforme,
Tal che ne al primo, ne al secondo colpo,
Ne la notturna, et amorosa guerra,
Voltasse il tergo, sonnacchioso, e lento.
Come dunque, tornando ove io lassai
Se d’onde in noi aspre inhumane sete
Mosse, da essempij van stolti, e bugiardi,
Indi vedendo il falso che vi abbaglia,
E voi di voi medesme in bando tiene,
Non vi rendeti à desir nostri amiche?
Che’l conoscer l’error, ne farne emenda
(Quando puossi et si puo quando si vuole)
Altro non é, se non mostrarse indegne
Di quanto il Ciel in voi largo dispensa,
Come per me sicure et affidate
Per me, che nacqui per amarvi solo,
Dal di che l’alma mia lucente fiamma
Con i bei possenti alti celesti rai
Mutando in ghiaccio, in fuoco, il mio mortale,
In invisibil disioso spirto,
In ombra eterna, in simolacro vero
Di lei, che sempre nel pensier adombro,
Consumando ridusse, il cor, e l’alma.
Come dico per me sicure e certe,
Di che pensar di che timer dovete,
Che ben sarei maligno empio nemico
Se amando voi, l’honor vostro sprezzassi?
Deposta ogni credenza temeraria
Onde abbagliato l’intelletto sempre
Senza di noi, senza di voi vivete.
Col mezzo vostro, onde vi fate intiere:
Onde i felici alti thesor divisi,
Che son piu che non ha l’Africa arene
D’Amor godete tutti insieme uniti,
Non date à lieta vita almo principio?
Che verra tempo (onde il membrar m’ancide)
Che questa vostra alma beltà divina,
Ond’hora altiere, e desdegnose andate,
Da gli anni invidiosi, et da l’etade,
Che come Tigre va, passa com’ombra,
Ne trapassata si rivolge indietro,
Sara corrotta, et depredata à fatto.
Quanto, piu tosto che pensar non oso
Fansi d’argento le dorate chiome?
Quanto la fronte spatiosa e vaga
Col viso santo si nasconde e increspa?
Quanto il bel corpo delicato e molle,
Che dil mondo maggior sembianza tiene
Ruvido fusse al tatto aspro e spinoso?
Oime che à l’hora non vedendo scampo
Al ben perduto, al trapassato tempo,
Piu di tre volte il nome, meo chiamando,
Che si vero, fedel, saggio, consiglio,
M’affatican d’assicurarvi in darno,
Tra voi stesse dogliose gridarete
Perche non riede al saggio animo nuovo
La perduta beltà, le forze antiche
Perche il nuovo pensier, che hor si disdice
Mancò il bel tempo giovenil e fresco.
Al tempo, che fiorir l’horrido verno
Che arrestar l’ira del turbato mare
Che facea Giove, Poliphemo, e Marte
Perder lo sdegno, lo saper, la forza
Al tempo oime che tutt’il mondo vano
Del lieto April de nostri anni fioretti
Che acceso da la està calda e serena
De duo vaghi occhi, d’un bel viso adorno
Verdeggiando infiammava al gielo, e al caldo:
Ma in rapida onda le parole scritte,
E à Zephir fieno i desir vostri sparsi,
Che le rose passata la stagione
Mai non racquistan, ne il pensier canuto
Si conface col crin biondo dorato,
Però se mai di noi pietà vi strinse,
Di noi, che siam la parte vostra intera,
Che con voi nati, ancho morir vogliamo,
Se mai dolce mia vita, almo mio bene,
Sola cagion onde vivendo pero,
Fisando in me le pure luce, e sante,
Che trapassan le nubi il ciel l’abisso,
Scorgeste il cor sincer, l’affetto interno.
Se mai di voi, del vostro honor vi calse,
Che in uccider chi vi ama non si acquista,
Se in somma mai, del nascimento vostro,
Del natural destin vago gioioso,
Se mai pensasti al viver corto, e breve,
À la gravosa debile vecchiezza,
À la crudele inexorabil morte,
Quinci prendendo come accorte, e pie
Per voi di quanto havete à far consiglio,
Di quanto anchor altrui tenute sete,
In tranquillo ocio, in dilettosa pace
Vivete eternamente benedette.
Cosi vi accresca le bellezze il Cielo,
Cosi s’avanzi il degno giusto impero,
Cosi più che mai dilicate et vaghe
Giovani sempre inamorate et belle
Vinciat di Titone gli anni, et l’etade.
IL FINE.