La fame del Globo/Cap. 6
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Uno slogan domina la vita politica dell’Emilia Romagna, i cui amministratori, dalla Giunta regionale a quella del più piccolo comune di montagna, proclamano che i principi con cui governano il territorio sarebbero quelli dello “sviluppo sostenibile”. Un recente rapporto sull’ambiente rivela che, cessata la crescita demografica, arrestatosi lo sviluppo economico, il dilagare del cemento negli spazi agricoli procede a un ritmo tale da annullare, in quindici decenni, una pianura conquistata alle acque in tre millenni.
E’ sufficiente sfogliare l’elenco telefonico per verificare quanto chi amministra la collettività locale abbia puntato, in termini pubblicitari, sullo slogan di successo: il Comune di Modena stipendia, tra il proprio personale, esperti che si preoccupano dello “sviluppo sostenibile”, la Provincia annovera, tra i propri assessori, quello responsabile dello sviluppo “sostenibile”, alla Regione lo sviluppo “sostenibile” costituisce il mandato di amministratori e di tecnici di competenza diversa. I cittadini dell’Emilia Romagna possono guardare al futuro con serenità: gli uomini cui hanno delegato di amministrare la vita regionale, garantiscono che il progresso economico che sospinge la società regionale verso mete luminose è uno sviluppo “sostenibile”, si realizza, cioè, senza alterare le risorse naturali, potrà protrarsi nei secoli futuri senza arrecare danni all’aria, alle acque, alla fertilità dei suoli, alla “biodiversità” che pullula nei fiumi, nei boschi e nei prati montani.
Il ceto politico che amministra l’Emilia Romagna è tanto sicuro che lo sviluppo che promuove corrisponde all’ideale modello della “sostenibilità che ha diffuso, recentemente, un Rapporto sullo stato dell’ambiente, raccolto in un compact disc ricco di tabelle e di grafici. Il rapporto è redatto con onesto candore: è sufficiente studiarne le cifre per verificare quanto corrisponda agli slogan elettorali il “modello di sviluppo” che persegue chi regge la collettività regionale. Il dato che richiama, drammaticamente, l’attenzione, è la progressione delle superfici urbanizzate rispetto agli spazi agricoli e forestali, il dato che rivela, cioè, il ritmo col quale le superfici ricoperte di cemento e asfalto sostituiscono i campi coltivati e i boschi, se si preferisce la velocità con cui il terreno fertile, partecipe di scambi vitali con l’acqua e con l’aria, popolato da miliardi di batteri, protozoi, vermi e insetti, capace di alimentare le radici di tutte le specie vegetali, perciò autentica entità vivente, viene ricoperto dal manto di cemento che lo converte in entità sterile, priva di vita, incapace di interagire con gli elementi dell’atmosfera, di alimentare una larva, di nutrire uno stelo d’erba.
La progressione del cemento è stata, dal termine della seconda Guerra mondiale, incalzante, ha assunto, procedendo incontrollata, una violenza travolgente. Se le superfici abitative, l’insieme, cioè, delle aree delimitate dalle mura che anticamente circondavano città e borghi minori, sommavano, nel 1945, 6.048 ettari, si dilatavano di dieci volte nel corso del “miracolo economico”, toccando, nel 1976, 61.764 ettari, che salivano a 105.344 nel 1994. In cinque decenni la realizzazione di aree residenziali, industriali, di strade e parcheggi aveva moltiplicato le superfici “edificate” di circa venti volte. Al fenomeno si dovevano riconoscere ragioni profonde: una società contadina si era convertita in società industriale, centinaia di migliaia di famiglie si erano spostate dalla campagna alle città, in città avevano procreato figli, per i quali era stato necessario costruire asili, scuole, palestre, milioni di uomini e donne avevano abbandonato il lavoro dei campi per un’attività industriale, erano stati realizzati migliaia di edifici industriali, alcuni di dimensioni imponenti. La conversione dei suoli agricoli era stata esigenza ineludibile. A metà degli anni Novanta il fenomeno mutava, però, radicalmente i propri connotati: come nel resto del Paese in Emilia Romagna si arrestava la crescita demografica, si inceppava lo sviluppo economico, l’occupazione dei suoli agrari conosceva, invece, una prepotente accelerazione. I piani edilizi dei comuni emiliani prevedono, nell’arco temporale della propria vigenza, che è, secondo le disposizioni regionali, un arco decennale, l’occupazione di altri 38.000 ettari. Siccome, peraltro, un terzo di quei piani rivela un’età superiore a dieci anni, è ragionevole supporre che la superficie edificata prevista dal Rapporto sullo stato dell’ambiente al termine di vigenza dei piani edilizi attuali, equivalente a 143.000 ettari, venga raggiunto ancora prima del 2016.
Se l’età media dei piani comunali è un’età avanzata, ci si deve attendere che nei prossimi anni venga varata una nuova generazione di piani, che è difficile supporre rallenti un processo che si sviluppa nel generale consenso delle forze sociali, economiche e politiche. Evitando ogni supposizione sui ritmi di dilatazione del cemento che sanciranno i futuri disciplinari edilizi, un calcolo elementare dimostra che la dilatazione delle aree urbanizzate ha assunto, in Emilia Romagna, il ritmo dell’espansione geometrica, si è convertita in fenomeno esponenziale, con un tempo di raddoppio delle superfici sottratte all’agricoltura non molto maggiore di quaranta anni.
Si deve sottolineare che l’eliminazione degli spazi agricoli si sviluppa fondamentalmente in pianura, in quella pianura che è stata, in prevalenza, sottratta alla palude dalla millenaria, faticosa conquista dell’uomo, un’opera iniziata dai colonizzatori etruschi, proseguita dagli ingegneri romani, dai monaci benedettini, dai comuni medievali, dai principi rinascimentali e dai finanzieri dell’Ottocento, da milioni di carriolanti di tutti i tempi, un’opera che aveva “creato” uno dei lembi di terra più fertili del Pianeta, fondamento di una sicurezza alimentare che avrebbe potuto protrarsi, secondo i canoni della “sostenibilità”, nei secoli futuri. Al ritmo consacrato dai piani urbanistici quella pianura verde, frutto di tre millenni di fatiche, potrebbe essere cancellata in poco più di un secolo: con un tempo di raddoppio delle superfici edificate di quarant’anni un calcolo elementare dimostra che tra centocinquant’anni nella pianura emiliana e romagnola non resterebbe un solo campo di frumento o di medica, un solo frutteto.
Verso il dilagare del cemento e dell’asfalto la società regionale dimostra, ho annotato, la più assoluta indifferenza. L’economia, ormai incapace di produrre per l’esportazione, ha elevato il cemento a ultima occasione di guadagno, la classe politica che millanta la “sostenibilità” dello sviluppo di cui si vanta tutrice, computa, riservatamente, quante migliaia di ettari si debbano sottrarre all’agricoltura, ogni anno, per finanziare, attraverso le concessioni edilizie, i bilanci comunali. Non è stato, del resto, un illustre arbitrio dei destini europei, l’emiliano professor Prodi, a promuovere, a Bruxelles, una riforma della politica agraria fondata sul principio che produrre alimenti è inutile, siccome sui mercati mondiali si potrebbe acquistare tutto il frumento, lo zucchero e l’olio con cui si voglia, in Europa, imbandire la tavola? L’illustre professore, che vanta, come antico presidente dell’Iri, la benemerenza della svendita, a multinazionali estere o a galantuomini dello stampo del signor Cragnotti, di tutte le perle dell’agroindustria nazionale, non risulta essersi mai occupato, peraltro, dei problemi alimentari mondiali, ad esempio del mutamento della dieta in corso in Asia, un fenomeno che osservatori meno insigni ma più attenti ritengono potrebbe sovvertire gli equilibri alimentari del Pianeta, e fare del suolo bene insostituibile.
Indifferente la società regionale, ottusamente fidenti i suoi amministratori nella vuota formula dello sviluppo “sostenibile”, rassicuranti i vati della politica europea riconvertiti in condottieri dei destini italici, una voce sola si è levata, negli anni recenti, a denunciare i rischi dell’eliminazione, in Emilia Romagna, dell’ultimo campo di frumento, la voce dell’Associazione regionale delle bonifiche, il cui presidente, Emilio Bertolini, dichiarava, nel 2003, che all’agricoltura regionale erano stati sottratti, negli ultimi tredici anni, 157.000 ettari, in gran parte urbanizzati, in parte minore abbandonati, in collina e in montagna, una superficie, sottolineava, equivalente a quella della provincia di Ravenna, sulla quale ogni vita era stata spenta.
Curiosamente, una delle cento anime della sinistra nazionale ha eretto il suolo agrario a tabù sacrale. E’ difficile immaginare che chi abbia appreso a sillabare sui testi degli esegeti di Karl Marx, un ideologo tanto alieno alle scienze sperimentali quanto pretendeva fossero “scientifiche” le proprie elucubrazioni, possa convertirsi al pensiero fondato sul dato fisico e biologico: la passione per il suolo dei pronipoti di Marx si è tradotta, così, in macedonia di agricoltura “biologica”, di promozione di “fattorie didattiche”, in culto della cucina contadina. Che convive, coerentemente, con la devastazione dei suoli agrari che ricoprirà di cemento, entro centocinquant’anni, l’ultimo campo di frumento. L’essenziale è che quel campo, quando toccherà a lui di essere ricoperto di asfalto, sia un campo di frumento “biologico”, che non sia inquinato dal nefasto nitrato d’ammonio o dal letale solfato di rame, la condizione perché la conversione del suolo agrario in parcheggio si realizzi secondo i criteri dello sviluppo “sostenibile”
- Spazio rurale, LI, n.8/9, agosto-settembre 2006