La Marfisa bizzarra/Appendice/Ai suoi lettori

Ai suoi lettori

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I

LO SCRITTORE DELLA «MARFISA»

a’ suoi lettori umanissimi

Leggasi che gli antichi padri della Chiesa greca, non meno gran santi che gran filosofi, usavano ne’ sermoni che esponevano da’ pergami alle adunanze raccolte ad ascoltarli, l’innestare de’ ritratti degli uomini affascinati e ferduti nel vizio.

Le loro accurate osservazioni sulla umanitá fornivano il loro pennello di tratti e di colori i piú vivi ed espressivi per porre sotto agli occhi degli uditori le figure degli ebbri, degli iracondi, de’ golosi, de’ superbi, degli avari, de’ molli effeminati, de’ sfrenati, libidinosi e d’altri brutalmente abbandonati ne’ vizi; e con tali fisonomie, tali guardature, tali attitudini, tali scorci naturali, veri e abborribili ne’ loro aspetti, che destavano negli ascoltatori ribrezzo e timore di somigliare a que’ schiffi ritratti.

Una filosofica efficace facondia pittrice faceva qualche buon effetto, e metteva alcun freno di vergogna nella umanitá traviata e corrotta da’ vizi.

L’urbano satirico osservatore sul genere umano, buon ritrattista e non cinico detrattore, laceratore, uccisore alla vita civile; che si attiene a’ generali e non si scaglia a mordere particolarmente e nominatamente; non mosso da collera, da ambizione, da invidia e da vendetta o da venalitá, ma soltanto mosso da un sentimento di zelo inclinato al bene di tutti, potrebbe lusingarsi di purgare colle tre pitture in iscorcio ridicolo o schiffo, ma sempre naturali e vere, almeno in parte, il contagio di que’ rei ammorbati costumi, che presto o tardi involgono ne’ flagelli le intere nazioni.

Devo dire con mio intenso dolore ciò che altri dissero e affermarono con franchezza. [p. 324 modifica]

La patria mia, un tempo specchio di soda religione, di pietá, li giustizia, d’integritá, di valore, di coraggio, di prudenza, di costanza e d’ogni virtú, poco a poco, e particolarmente dopo l’insidiosi sparsi sofismi novelli, detti «filosofia», tendenti ad offuscare cervelli, a capovolgere tutte le leggi, tutti gli ordini salutari e a dar libero il corso a tutte le passioni degli uomini e delle femmine, è divenuta il ricinto delle leggerezze, delle immodestie, delle sfrenatezze, della infingardaggine, della ignoranza, della malafede, della stolida miscredenza e di quel lusso, di quelle mollezze, incontinenze e lussurie, che cagionarono un giorno la caduta de’ regni de’ Sardanapali d’Assiria.

Furono pochi quelli della mia patria scopritori che le parole sparse «dirozzare», «ripulire», «umanizzare», «risvegliare», «illuminare», «spregiudicare», fiancheggiate da ingegnosi insidiosi sofismi adulatori e commiseratori delle umane passioni tenute a freno (sofismi coperti dal velo mentitore della parola «virtú», degenerati ne’ due stolidi e in un seducenti ululati: «libertá» ed «eguaglianza»), non erano che stimoli alle sanguinarie rivoluzioni, alla frattura delle provvide leggi de’ saggi, dettate dalla gran maestra esperienza, e sofismi guide ad una generale corruttela de’ costumi e della solida e sana morale.

Coloro i quali non iscorgono quest’infelici precursori effetti consegfuenti, avvenuti, prima che in altri climi, nel clima medesimo dond’ebbero scaturiggine le parole e i sofismi sopraccennati (effetti conseguenti di generale angoscia, dilatati poscia negli altri climi) non sono né «dirozzati» né «ripuliti» né «umanizzati» né «risvegliati» né «illuminati» né «spregiudicati», ma ciechi ed ebbri sonnambuli disumanati, che girano brancoloni per entro una densa nebbia contagiosa e fetente, da essi creduta lume risplendentissimo e quintessenza di cribrata e purificata filosofia.

La Marfisa bizzarra, poema di aspetto scherzevole, non è che un quadro storico del costume corrotto, di ritratti naturali, di caratteri veramente de’ nostri giorni, della mia patria infelice e un’allegorica predizione del di lei finale destino.

Convien dire che gli antichi greci, i quali ascoltavano i loro predicatori, avessero i cuori piú atti alla sensibilitá, alla vergogna, alla compunzione, de’ miei patrioti.

Si pongano nel conto de’ nulla parecchi tratti giocosi satirici contenuti nel mio poema contro alcuni scrittori del tempo in cui lo composi, i quali, assecondando la corruttela del costume, sviavano [p. 325 modifica]la gioventú dalle regolaritá e guastavano la nobile semplicitá, la fedele legittimitá, la nitidezza del nostro eccellente idioma e il buono e vero gusto di scrivere in prosa ed in verso della nostra un tempo brava nazione; i quali cattivi scrittori non si astennero di pungere e dividere sgraziatamente e dozzinalmente la opinion mia, ch’io sostenni per legittima con quella inutilitá medesima con la quale ho combattuta per quanto potei la irreparabile inondazione della epidemica corruttela guastatrice della soda e sana morale.

Alcuni hamio giudicato che le importanti mire con le quali presi a scrivere la Marfisa dovessero essere esposte con uno stile differente, vale a dire piú serio, piú elevato e piú altitonante.

Oltre a che io fui sempre di un naturale piú inclinato al socco che al coturno, e sempre risibile sugli oggetti che presenta al mio sguardo questo basso mondo, per la opinion mia, cotesti giudici condannavano la mia composizione ad avere pochi lettori, siccome avviene oggidí per lo piú alle opere di morale scritte con sublimitá e catedraticamente per combattere i costumi corrotti.

A me stava a cuore che la Marfisa fosse letta e intesa universalmente da tutti senza promuovere sbadigli; e sapendo che le veritá innegabili de’ miei ritratti e de’ costumi della mia patria, pennelleggiati comicamente con uno stile italiano colto, ma che pizzica dell’urbano satirico lepido, avrebbe avuto maggior numero di lettori, volli scriverla com’ella è scritta.

Fui da alcuni ecclesiastici tacciato di troppo ardire e d’imprudenza nel dipingere nella Marfisa parecchi della loro classe in un’attitudine indecorosa al loro carattere.

Se questi alcuni tali avessero mantenuta la dovuta decenza, inseparabile dal loro carattere, non comparirebbero nel mio quadro di veritá in uno scorcio indecente, esoso e ridicolo.

Al tenere in silenzio i vizi di alcuni ecclesiastici della mia patria non avrei giammai potuto dare il titolo di prudenza, ma piuttosto il titolo d’ipocrisia, vizio infernale e da me piú ch’altro vizio abbonito e perseguitato.

In una cittá, in cui i vizi giungono di gran lunga a preponderare sulla virtú, comunicano il loro veleno anche in quelle persone le quali dovrebbero con l’esempio e con la forza e la facondia d’una logica efficace combattere e fugare il vizio medesimo.

Questo mostro, che deride la rattenutezza, i riguardi, la modestia, il pudore, la castitá, la temperanza, la sobrietá, accresce il [p. 326 modifica]numero all’infinito de’ bisogni, al di lui alimento, e protetto dalla innumerabile schiera de’ suoi seguaci possenti, riduce l’umanitá alla natura de’ bruti, senza distinzioni di grado, di nascita o di ministero.

I giusti veri osservatori e conoscitori del corrotto costume della mia patria confesseranno che le pitture, con le quali delineai e tinteggiai tratto tratto nel mio (in apparenza) scherzevole poema della Marfisa alcuni ecclesiastici nostri, rappresentano originali ritratti della veritá.

L’avvilimento da me dipinto, di cui lordarono que’ tali il loro rispettabile carattere con perniciosissimo esempio, meritavano la sferza del zelo mio, siccome l’hanno meritata i loro protettori, che accrebbero l’avvilimento di quelli con que’ modi che appariscono dal poema della Marfisa.

Nel colloquio che tiene il mio allegorico paladino Ruggiero col mio allegorico Turpino, arcivescovo del mio allegorico Parigi, nell’ottavo canto del mio allegorico poema, si rileverá in qual rivolta il vizio avesse ridotte le famiglie; di qual guasto costume il vizio avesse lordata una infinitá di ecclesiastici, e con quale impossibilitá le viziose protezioni sopraffatrici incatenassero la pia volontá dei piú saggi e santi capi della Chiesa, di frenare, correggere, castigare e riformare il contegno de’ loro leviti sfrenati, scandalosi e viziosi.

Non si creda giammai ch’io abbia preteso di porre in un fascio tutti i viventi a’ giorni miei nella mia patria con gli accecati gruffolatori nel marciume e nel lezzo de’ vizi rovinosi alia patria mia.

Non meno che nella lega del popolo e ne’ particolari da tal lega separabili, conobbi ne’ prèsidi al governo politico, civile e criminale e nel ceto ecclesiastico nostro, secolare e regolare, delle persone venerabili, fornite di ottimi sentimenti, di dottrina, di prudenza, di fervente zelo, di religione, di retta morale, veggenti non lontani i fulmini smantellatori, e adoperarsi con tutto lo spirito loro per allontanarli, ma con quella inutilitá con cui dugento d’intelletto intemerato e fermo vorrebbero porre a dritto cammino cento e piú mila intelletti sviati, frenetici, guasti da falsi dettami, guidati soltanto dalle sgfuinzagliate passioni e da’ sensi viziati e brutali, ridotti torrente insostenibile e dominatore.

Ma i pochi saggi, buoni, divoti e credenti furono dalla moltitudine de’ viziosi considerati imbecilli, accecati da’ pregiudizi d’una stolida educazione falsa e antiquata. [p. 327 modifica]

I pochi buoni zelanti ecclejjastici furono dalla immensitá de’ viziosi giudicati furbi, impostori, ipocriti, spaventacchi e lusingatori de’ popoli di etemi celesti beni, per cupidigia di beni e d’oro terreno.

I pochi ottimi prèsidi al governo, che osarono, con troppo tardi maturi decreti emanati, di ridurre la gjan massa de’ viziosi al raccoglimento, alla moderazione, alla temperanza, e di regolare il costume disordinato e corrotto, di separare le ore del divertimento da quelle del ripyoso, di procurare che il giorno fosse considerato giorno, la notte considerata notte, onde i tribunali di giustizia e gli uffici non fossero occupati e amministrati da persone sonniferose, rese astratte, balorde ed ebbre dalle veglie, da’ stravizi, dal giuoco, da’ liquori, dalle notturne lussurie, di por freno a’ vestiti immodesti, lascivi, attraenti, solleticatori e coltivatori del vizio nelle femmine rese baccanti dalle furie e dalle sfrenatezze del vizio, furono chiamati dalle orrende strida di un enorme tumulto di voci assordataci, uscite dalle gole dell’immenso brulicame vizioso fremente, sopraffattori, ignoranti, vaneggiatori addormentati nelle goffaggini e muffaggini smodate, deliranti, disumanati, tiranni della natura e punibili.

Noi gli vedemmo rovesciati da’ lor tribunali con tempesta di viziosi voti repubblicani forsennati iracondi, e vedemmo il vizio vittorioso gí’interi giorni e le intere notti scorrere la cittá pel suo dilatarsi, consolidarsi, torreggiare e signoreggiare.

Ben lo disse l’ottimo filosofo morale francese, osservatore profondo, Giovanni La Bruyère, ne’ suoi Caratteri: che chi pretende di por argfine agli abusi del corrotto vizioso costume, dilatati, impossessati, inveterati sopra le popolazioni, non fa che come colui che fruga in una cloaca per iscemare il puzzo: altro non fa che innalzare piú violento e piú insoffribile il fetore.

Se si vorrá considerare senza collera, senza maligna prevenzione e a mente serena il p)oema intitolato £ji Marfisa bizzarra, si troverá che tra il piccolo numero dei buoni inutili, a fronte degl’innumerabili guasti e corrotti, campeggiano, in quel poema giovialmente e urbanamente satirico, gli. Orlandi, i Dodoni, gli Uggieri, gli Angelini, le Aldabelle, le Ermelline ed alcuni altri buoni personaggi, le cui grida, le cui lagnanze, le cui predichette zelanti furono derise e seminate tra le ortiche ed i pruni, come quelle de’ iKxrhi buoni della mia patria.

Preghiamo e speriamo che de’ benigni influssi delle fulgenti [p. 328 modifica]stelle che ci soprastano purghino le menti sviate e guaste e le rimettano a dritto cammino, per la pace e tranquillitá d’una patria in cui nacqui, crebbi e invecchiai, desiderando ognora il legittimo bene di tutti i miei concittadini, spoglio di presunzione, allenissimo dalla piú minuta pretesa, salvo quella di voler dire apertamente la veritá mal sofferta.