La Donna e il suo nuovo cammino/La donna e il suo nuovo cammino

Giannina Franciosi

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Come viene educata la donna alla vita
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La donna e il suo nuovo cammino

DI

GIANNINA FRANCIOSI

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Signori, Signore, gentili Consocie,

Quando fui nominata alla presidenza della sezione insegnamento del Lyceum Romano confesso che, dopo aver esitato alquanto ad accettare, mi domandai quale contributo avrei potuto portare in un campo apparentemente quasi estraneo ai miei studi letterari ed artistici. Una breve meditazione sul significato stesso della parola: insegnamento valse a indicarmene la direttiva e a darmi l’entusiasmo sempre necessario a mettere in pratica anche la più umile idea. Non abbraccia forse tale parola dal latino in-signis, il vasto senso di segnalare, di dar cognizione, e, in senso figurato, d’insegna e di bandiera? La turba degli ignavi infernali, tra i lividi riflessi della palude persegue invano l’insegna non conosciuta nella vita:

Ed io che, riguardai vidi un’insegna
che girando correva tanto ratta
che d’ogni posa mi pareva indegna.
     E dietro le veniva si lunga tratta
di gente, ch’io non avrei mai creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.

Si poteva quindi sotto tale insegna lavorare per un’idea collettiva, e l’idea fu di cercare con le nostre [p. 4 modifica] sole forze di dimostrare la necessità dell’impulso verso un più razionale equilibrio nell’azione di pensiero e di opera che la donna per le nuove contingenze sociali è chiamata a compiere.

Così si promosse nel nucleo strettissimo delle socie iscritte alla Sezione l’idea di un lavoro di pensiero che fosse espressione non di singolo individuo, ma per quanto scarsissima, di una collettività, e da ciò ne nascesse la spontanea affermazione di concetti e di sentimenti pensati e sentiti in unione collettiva.

Se la risposta al mio appello non fu molto numerosa, fu in compenso volenterosa, tanto che oggi possiamo portare a voi il risultato sia pur modestissimo, di un lavoro, svoltosi prima in discussione tra tutte le socie iscritte alla Sezione, e quindi nella cerchia ancor più breve di sette donne (caso fortuito proprio un numero sacramentale!) che, studiato nei suoi particolari l’argomento assegnatoci, ci danno quell’esponente collettivo a cui miravo.

Abbiamo quindi benché in istrettissimo nucleo l’esponente di varie tendenze e di varie esperienze; il sentimento e l’osservazione derivante da varie cerchie sociali, da varie condizioni di vita. Alcuni nomi sono già noti e stimati, altri quasi per la prima volta si accingono a presentarsi a voi, ma ciò secondo me, nel modesto compito della nostra esposizione, svolta in questo luogo che possiamo chiamare la nostra casa intellettuale, non fa che aumentare il valore di quanto stiamo per dire, perché appunto non è soltanto l’espressione di chi sia già noto per aver eccelso in un dato ramo di pensiero ma anche di chi fin ora in silenzio ha vissuto, meditato, sentito.

A ciò debbo aggiungere che il nostro intento non fu affatto nè polemico nè dottrinale nè laudativo circa [p. 5 modifica] il valore femminile, ma intento di riconoscimento di giustizia da un lato, d’avvertimento dall’altro della necessità di un equilibrato sviluppo psichico, perchè la donna possa non perdere il frutto che in quest’ora l’opera da essa svolta ha seminato. Io oggi non accennerò che di sfuggita a certi punti salienti che sono come il fulcro di tale equilibrio; e quindi di un potere psichico che noi donne dobbiamo raggiungere come stabile forza interiore, e non soltanto come effetto momentaneo di un impulso di bene e di opera dovuto alle speciali condizioni del momento.

Come in tutte le cose e le manifestazioni di questa vita vi sono due correnti disparate di giudizii intorno al contributo della donna: quella di coloro che le negano ogni valore, o che peggio, la denigrano, quella di coloro che ne innalzano alle stelle il portato. E tra queste due una terza più equa a cui si potrebbe aggiungerne anche una quarta, quella di coloro che non si occupano di alcun problema sociale e che trovan più comodo il non aver opinione. A tale proposito siamo convinte che nel nuovo assettamento che verrà prendendo la società latina dopo la guerra, la donna sarà chiamata come lo è stata oggi per la necessità stessa delle cose, a portare il più vivo contributo non soltanto nel ristretto cerchio della famiglia, ma anche in quello più vasto della vita sociale e politica, sopratutto nell’interiore valore morale di essa.

Ho detto ristretto ambito della famiglia, ma può chiamarsi ristretto quando ogni individuo che fa parte della vita sociale, appartiene alla famiglia e da essa riceve la prima impronta individuale, che lo farà poi membro di una più vasta collettività?

Dato tale concetto generale noi siamo partite da concetti più particolari rispetto alla formazione del [p. 6 modifica] carattere femminile che di necessità deve prepararsi con più solide basi ai doveri e ai diritti che l’ora avvenire le prepara. Persuase che nella vita valga molto più la dimostrazione effettiva dell’opera compiuta, che non le interminabili discussioni intorno alla soluzione di problemi vitali sì, ma che l’azione logica e calma può per naturale conseguenza meglio risolvere che non le empiriche affermazioni, noi abbiamo considerato come per giungere a tale azione la donna debba esser conscia della propria responsabilità nell’adempimento del suo compito in ogni campo della vita. Ma lo è essa? Quali sono i punti fondamentali sui quali si basa la possibilità di tale coscienza? Si voglia o no riconoscere, un profondo movimento psichico agita oggi l’anima femminile e la parte migliore di essa. All’impulso d’inibizione per mezzo di formule tradizionali si viene sostituendo l’impulso interiore verso una più cosciente esplicazione del proprio io. Le trasformazioni ed i fatti morali in ogni campo della vita sociale, sono naturalmente gli ultimi ad essere riconosciuti e si crede di poterne fermare il cammino col negarne l’esistenza o la possibilità. Nel campo religioso si negava nel XVI secolo la possibilità di uno scisma della Chiesa Cattolica e ciò quando questo era virtualmente compiuto; nel campo politico si negava nel secolo XVIII la necessità di radicali riforme governative quando la Rivoluzione attendeva soltanto il suo riconoscimento realistico dal canto della Marsigliese e dalla mannaia della ghigliottina. Negare non equivale annullare, e il cammino percorso dalla donna verso una più intensa vita individuale, e una più giusta esplicazione di essa, con la negazione non si cancella.

Ma come la donna può prepararsi a trarre [p. 7 modifica] nobilmente vantaggio da quanto gli eventi le hanno offerto, e come potrà trarlo senza perdere delle doti sue proprie? Di fronte all’impulso da lei sentito di una più larga e più giusta esplicazione di vita, ha essa già equilibrato le proprie tendenze, fortificato il concetto morale della propria finalità; studiato, padroneggiato i varii moti della propria natura? E quali sono le difficoltà, i pregiudizi, le cattive abitudini che le si affacciano alla fortificazione del proprio carattere? Ecco i quesiti ai quali si propongono di rispondere le mie colleghe.

Il pieno sviluppo delle facoltà psichiche e intellettuali mercé l’istruzione educativa è la meta a cui deve tendere ogni individuo umano facente parte di una collettività; e poichè la donna è parte integrale di tale collettività, ne consegue che lo sviluppo della propria individualità non può che avvantaggiare le sue più elette qualità, e che il raggiungimento di un’indipendenza economica e morale non deve essere che coefficiente alla dignità femminile e mezzo al miglior adempimento dei propri doveri. E tutto ciò non per rendere nella donna più appariscenti le sue doti esteriori onde con più facilità conquidere quella così detta da molti in termine brutalmente pratico collocazione in termine più alto matrimonio, ma per formare un’interiore carattere atto a sentire il vero matrimonio come il più alto compito morale, non mezzo di posizione sociale, ma coronamento alla propria individualità volta ad essere una forza morale compagna dell’uomo, e guida cosciente dei propri figli.

Da secoli ormai l’umanità nostra tende nella trasformazione delle forze ad un’attività dinamica e il fulcro di tale attività noi lo chiamiamo lavoro. Oggi il lavoro nel suo più largo significato è assurto ad [p. 8 modifica] esponente della forza interiore di una nazione; coloro che più lavorano sono i popoli che più possono e il gigantesco conflitto di cui oggi siamo attori e testimoni ci dimostra quale potenza abbia il lavoro agricolo e industriale. Se il lavoro artistico sia nel campo della parola o della forma è indice visibile di un dato svolgimento psichico collettivo, il lavoro agricolo e industriale è il reale esponente del benessere e della forza di un popolo. Il secolare disprezzo verso il lavoro in quanto denotava una mancanza di ricchezza che permettesse d’essere oziosi usufruendo del lavoro altrui in epoche in cui il lavoro del pensiero non era come oggi così intimamente collegato a quello del braccio, va scomparendo — e non solo — ma lentamente è sostituito dal più sano concetto del lavoro come unico mezzo di ricchezza e di viver civile. Purtanto se ciò si è in gran parte raggiunto rispetto all’uomo rimane ancora dolorosamente vivo tale pregiudizio rispetto alla donna.

Eppure come misurare il valore morale del lavoro dinanzi all’inerzia?

Se ogni individuo dev’esser considerato rispetto alla collettività come trasformatore di una data forza motrice, non spetterà in varia misura anche alla donna tale trasformazione? Se la donna compie nella maternità per natura la più mirabile trasformazione di forze fisiche non unirà a questa una ancor più mirabile trasformazione di forze morali se in lei l’educazione avrà sviluppato ogni facoltà verso il più alto fine a cui possa venir chiamata la donna? Ma attendendo d’esser chiamata alla maternità come missione naturale e spirituale, essa deve evolvere la propria individualità in modo da poter partecipare alla vita con tutte le sue forze armonicamente indirizzate. Purtroppo tale [p. 9 modifica] sviluppo è ancora generalmente assai ibrido, e molto lontano da quel raggiungimento di equilibrio e di giustizia che la psiche femminile ha diritto di chiedere.

Come in alcune campagne vengono ancora da noi ritenuti certi pesi considerevoli «pesi da donne» pel fatto dell’abitudine di portar fin da fanciulle enormi carichi sulla testa, e nonostante la ben provata superiorità muscolare si vedon talvolta lungo le vie di campagna donne col bambino in braccio e il peso sul capo, mentre l’uomo se ne va al suo fianco a mani vuote, se non a cavallo al ciuccio, così vi è generalmente un formulario ad usum Delphini, per la coltura delle facoltà intellettuali della donna. Tale formulario non è soltanto per le donne provvedute di beni di fortuna fin dalla nascita, ma bensì anche per quelle che quasi senza un soldo, sono condotte dinanzi alla vita nella semi ignoranza, e nella semi inerzia, con la sola speranza d’incontrare un marito che assicuri loro il pane o di rimaner a carico di un fratello o di parenti che talvolta la sopportano ma non la gradiscono. Accennare storicamente al contributo portato dalla donna nel governo dello stato come regina, o in quello religioso come sacerdotessa o martire, o in quello d’azione come eroina non sarebbe che una dimostrazione erudita, che potrebbe provare la considerazione che a volta a volta essa ha saputo raggiungere nei singoli casi d’eccezione, ma questo non è il compito che ci siamo prefisse. Noi sentiamo la necessità che la donna, avendo raggiunto la possibilità di vita che l’ora presente le adduce, vi si prepari formando in se stessa una forza interiore che non solo la sostenga lungo questo nuovo cammino, ma le dia la possibilità di esercitare intorno a sè un’influenza dovuta non soltanto alla grazia ed alla affettività di cui natura l’ha [p. 10 modifica] dotata, ma bensì, e sopratutto, all’impulso di bene verso un avviamento di più larga giustizia nel riconoscimento di tutti i fattori come motori di vita e di elevazione morale. L’immane catastrofe mondiale che incombe oggi sui popoli ci ammaestra della necessità di tale elevazione, e addita molto chiaramente alla donna quale sia il suo compito. Compito ch’essa deve raggiungere con due mezzi: attività e spiritualità. Attività come trasformazione di forza, quindi lavoro; spiritualità nel senso di trasformazione psichica, quindi elevazione morale, quindi spiritualità nel senso di amore nei suo significato più alto e più largo.

Ritengo, che se come noi possiamo per mezzo del dinamometro misurare l’energia muscolare, così si potesse misurare la perdita giornaliera dell’energia umana come trasformatrice di forza, noi dedurremmo cifre molto umilianti, e saremmo allora consapevoli di quale enorme sperpero noi facciamo della possibilità di ciò che chiamiamo ricchezza e che non è se non esponente in metallo aurato di una data trasformazione di energia.

Si è ammonito ripetutamente e con ragione che in un periodo di guerra ognuno dev’essere al suo posto, nessuna forza deve andare dispersa, ma altrettanto necessaria sarà tale coscienza di cooperazione in un tempo futuro di pace.

Nella pratica della vita si suol dire con uno sprezzante senso di compatimento inetto alla vita colui che non sa trasformare in valore attivo le proprie forze, siano esse fisiche o intellettuali; e se riandiamo il cammino storico dell’umanità dovremo riconoscere che il concetto di schiavitù non basava che su di un aprioristico concetto d’interiorità e quindi d’inettitudine. E non dovrebbe essere giustamente considerata inetta [p. 11 modifica] alla vita la donna che, per mancanza di coltura o di attitudini, è incapace a viver per sè stessa come individuo libero, atto a trarre dal lavoro il coefficiente necessario alla propria esistenza fisica e psichica?

Come per secoli la posizione più considerevole o più lucrativa era stimata esser per l’uomo quella del prete o quella dell’avvocato, così per la donna che non andasse a marito era quella del monastero. Per essa era sempre questione di quattro pareti: o le quattro pareti della casa o le quattro pareti del convento.

Oggi per alcune classi sociali all’idea generale della donna monaca è sostituita quella della donna maestra così due «missioni» due «sacerdozi» spesso affidati a chi meno vi sarebbe chiamato.

Eppure le possibilità del lavoro umano sono infinite e molti campi sono ancora inesplorati. Come sulla superficie terrestre vi è posto per tutti, così nel campo dell’attività le occupazioni sono numericamente infinite, e la tanto temuta concorrenza non ragione di fatto, quando il lavoro di un popolo non sia stazionaria limitazione alle più dirette necessita, ma progresso attivo nella ricerca di ogni possibile trasformazione di energia.

A dimostrazione di ciò sta la maravigliosa potenzialità di lavoro a cui è giunta l’ingegneria nelle sue molteplici ramificazioni. Dal governo delle leggi costruttive essa e passata a quello delle leggi degli elementi, la scienza le addita la scoperta di nuove possibilità ed essa le afferra, le trasforma, ne crea i mezzi per raggiungere nuove conoscenze e nuove conquiste. Infiniti sono i campi di lavoro; vi è il campo per i geni creativi e il campo per gli umili cooperatori. Le api hanno una sola regina ma gli sciami sono formati [p. 12 modifica] dalle operaie silenziose e operoso. Non rivalità nel campo del lavoro dovrebbe essere tra uomo e uomo ma cooperazione a seconda delle individuali disposizioni. Ciascun individuo sia uomo o donna ha diritto di vivere e vivere vuol dire lavorare. E in qualunque campo si consideri la possibilità del lavoro femminile, da quello silenzioso e benefico della casa a quello dell’officina e del laboratorio, della scuola, della scienza, fino a quello del più umile lavoro manuale per il pane quotidiano, noi troveremo sempre la necessità di un più alto e cosciente sviluppo delle facoltà intellettuali e morali.

Se l’analfabetismo è considerato a ragione una vergogna sociale, un impedimento ad un più elevato sviluppo nazionale; se altrettanto è a considerarsi dannoso il solo arido insegnamento delle prime nozioni di lettura e di scrittura pel popolo, tale è anche a considerarsi l’inverniciatura delle prime nozioni culturali per la donna di civile condizione. Essa quasi sempre si arresta là ove dovrebbe cominciare, quando cioè l’amore per le letture serie e sane non è ancora sorto, quando la sua coltura è sufficiente a farle supporre di poter parlare di cose di cui non conosce che il nome, a giudicare di ciò che ode e non comprende. A tale proposito voi non udirete mai una madre dire del proprio figlio: «quando avrà finito gli studi» perchè sa almeno per tradizione che l’uomo pel compito sociale a cui è chiamato studia o dovrebbe studiare tutta la vita, mentre molto frequentemente si ode dire con piena convinzione: «quando mia figlia avrà terminato gli studi». E tali studi ascendono generalmente alla terza complementare, lasciati interamente alla responsabilità della scuola, senza che la famiglia cooperi moralmente ai semi intellettuali che dovrebbe dar quella. Eppure [p. 13 modifica] la maggior parte di tali giovinette sono chiamate alla più alta e difficile missione della vita femminile: quella di sposa e quella di madre.

È nella prima età che si guidano e si trasformano i germi morali dei propri figli; come potrà farlo una madre che non abbia la coltura necessaria a quella formazione del carattere morale che solo si ottiene attraverso una profonda e vigilante conoscenza di noi stessi, verso il raggiungimento di un armonico sviluppo di tutte le forze che la natura ci ha largito? E se dal campo familiare noi passiamo a considerare la donna nel campo sociale, non si deduce la stessa necessità di forza di carattere e di coscienza dei propri doveri e delle proprie responsabilità? Lo ha essa raggiunto? Lo ha essa sufficientemente dimostrato? Quasi sempre nella vita vien fatto di giudicare dalle apparenze esteriori; soffermandoci a ciò che di particolare ci colpisce in un dato individuo, e dai particolari ne deduciamo un giudizio generale: così dalle personali esperienze, dalle osservazioni sui singoli individui e sui singoli difetti, uomini e donne sono tratti a giudizii generici. Come si suole citare e commentare i matrimoni mal riusciti deducendoli a regola generica, così è quasi sempre la donna leggiera, mancante di logica, troppo facile preda a gl’istinti meno nobili maschili, petulante nel ristretto ambito della propria ignoranza, ch’è presa a tipo d’un giudizio generico tanto erroneo quanto ingiusto; e certo non meno errato nè meno ingiusto è il giudizio che spesso trae la donna sull’uomo considerandolo dal caso singolo al generale. Se veramente esistesse tra noi e più intimamente tra uomo e donna il vero senso di fraternità basato sul concetto non di superiorità o d’interiorità, ma di differenza e quindi di compensazione e di mutua cooperazione, il [p. 14 modifica] campo della vita apparirebbe scambievolmente più facile, e illuminato da quella luce di giustizia che soltanto l’interiore concezione di bontà ci può dare.

Ma poichè la prima e più profonda influenza educativa vien data dalla madre è la donna che deve per prima correggere quei difetti che più nuocciono all’equo riconoscimento del suo valore e a quella sana influenza ch’essa è destinata ad esercitare intorno a sè.

Manca generalmente alla donna la conoscenza della propria indole, il bisogno di trasformarla in carattere cosciente e volente. Dotata di profonda affettività e di molta impulsività, si lascia guidare da questi due fattori senza il controllo del raziocinio, e quindi spesso sembra mancare in lei il nesso logico delle sue azioni, mentre queste sono molte volte mosse da un vivo coraggio morale. Dotata di fine penetrazione analitica spesso volge tale qualità non allo studio delle sue forze e dei suoi difetti ma all’indagine dei difetti e delle colpe altrui, e unendo l’analisi all’impulsività forma intorno alla sua anima una specie di ricevitore di mille piccole impressionabilità, che considera offesa alla propria persona, o trae a corrivo giudizio di difetti o colpe altrui generandone un’atmosfera di pettegolezzo tanto nocivo alla salute della mente quanto a quella del cuore; e ciò ch’è peggio pernicioso per quell’ambiente di serena tolleranza che appunto la donna, perché dotata di analisi, ha il potere e il dovere di formare intorno a sè. Non è che perdita di energia e di tempo, danno all’interiore vigilanza l’esser pronti a raccogliere le piccole insinuazioni, le meschine gelosie, ciò che gli altri dicon di noi. «Che ti fa ciò che quivi si pispiglia? — Vien dietro a me e lascia dir le genti!» ammonisce Virgilio, — la Ragione — E queste parole dovrebbe ripetersele ogni [p. 15 modifica] donna e prendere a guida d’ogni pensiero la Ragione, dea di giustizia e d’indulgenza. Tra i molti difetti di cui vien accusata la donna nei suoi rapporti sociali, in primo luogo stanno la vanità, il disordine delle idee, l’eccitabilità, la mancanza di continuità nelle proprie responsabilità, in altre parole la leggierezza. E dobbiamo riconoscere ch'è vero; e non basta il fatto d’accusare che anche nell'altro campo, cioè in quello maschile, esistono sotto altre forme presso a poco gli stessi difetti, per scagionarcene. Basta pensare all’ira che suscitano in ciascuna di noi le risposte talvolta bugiarde, pigre e inurbane, che ci largiscono molto spesso nell’anonimo del ricevitore talune signorine del telefono, per dover riconoscere quanto abbiamo ancora da fare per correggere i difetti delle stesse nostre qualità.

La vanità è purtroppo il male più comune dell’umanità che esca appena dal livello dell’uomo semplice ancora in contatto diretto con la natura. Gli uomini la racchiudono con maggior maestria nel loro seno, e non appare in tutta la sua meschina intensità che a raggiungimento ottenuto, quando l’ampio torace sia ben decorato di stelle e di croci, per fortuna nostra, non riservate alla vanità femminile. «O vanità sei donna!» esclamarono padri della chiesa e poeti; e da un lato avevan ragione, specie se si considera l’importanza che molte donne danno al loro vestiario, alle follie e spesso alle male azioni che compiono per raggiungere la soddisfazione vanitosa di mostrarsi agghindate all’ultima moda, in un’emulazione meschina e ridicola di un'esteriorità che nei più dei casi non è in relazione con l’interiorità economica e sociale della loro casa e della loro posizione, mentre molto spesso è prezzo di sacrificio o di vergogna. La meschina vanità s’insinua [p. 16 modifica] in mille forme ridicole anche nella donna di una certa elevatura mentale; la scorgiamo dalla ricerca a far parte di patronati a quella d’inviti per balli e ricevimenti; dall'offerta di denaro per opere di beneficenza, al correre da un concerto a una conferenza senza un sincero interesse; dalla ricerca del primo posto all’affannarsi dietro a persone d’importanza; perché fra tante forme di vanità vi è pur anche quella intellettuale e non certo una delle meno dannose alla formazione del carattere femminile. Vi sono donne che non approfondiscono mai (con ciò non voglio dire che non vi siano anche uomini) che corrono dietro ad ogni manifestazione di pensiero non per amore dell’idea ma della parola, soltanto per poterla ripetere e mostrarsene al corrente. Ciò è una piaga della coltura femminile, dannosa quanto l’esagerazione estrema verso certi atteggiamenti a mascolinizzarsi che tolgono alla donna parte della sua personalità.

Vanità e disordine intellettuale non derivano nella donna che dalla mancanza di sviluppo logico del pensiero e del senso morale. Sviluppo ampio, generoso, largo come un bel volo che la conduca a un calmo e cosciente equilibrio di tutte le forze della propria natura. Divenir logiche non vuol dire divenir pedanti o noiose, come divenir colte, partecipare alla vita sociale non vuol dire divenir brutte, mal vestite, uomini in gonnella.

Tra i giovani più simpatici che io abbia conosciuti ho notato quelli educati da donne colte e che in nulla avevano perduto della grazia e della estetica femminile. In essi io ho risentito quel raro equilibrio che dovrebbe essere la meta di ognuno ed è dono soltanto di ben pochi. La verbosità, l’insistenza, l’avventatezza sono tutti difetti derivanti dall’eccitabilita [p. 17 modifica] causata da mancanza d’ordine per mancanza di controllo interiore e in ultima analisi per mancanza di logica. Se la donna si abituasse all’osservazione continua di sè stessa, e quindi al dominio del proprio pensiero e della propria affettività non le avverrebbe tanto facilmente d’interrompere il discorso altrui coi propri apprezzamenti spesso fuor di proposito, d’essere inopportuna nelle domande, nelle insistenze, nel sostener la propria tesi talvolta unilaterale, perfino nelle premure mosse dal più sincero affetto. La mancanza d’ordine interiore è causa di molti altri difetti di cui veniamo generalmente accusate; così la mancanza di responsabilità negli impegni assunti, anche se si tratta di cooperare sotto qualsiasi forma di lavoro collettivo. Quante volte in comitati, in riunioni, si dice subito di sì, si dà il nome, si fa atto di presenza la prima volta, tanto per aver il diritto di appartenervi, e poi non ci si fa più vedere, o ci si contenta di apparire una volta tanto, come se la nostra persona fosse davvero così preziosa da emanar luce anche assente, come quelle stelle che più non esistono e che per secoli si continuano a veder brillare nel cielo. Non è ciò mancanza d’ordine e di sincerità? Perchè assumersi anche la più lieve responsabilità quando non si può o non si vuole adempierla in tutta la sua estensione? Ci crediamo veramente, esclusivamente necessarii? Il mondo è vasto e popoloso, siamo larghi di spirito! Molti e molti sono i valori, pochi i noti, nessuno di noi è assolutamente necessario; guardiamoci in tal caso intorno, cerchiamo di avvicinarti, di conoscerli questi valori, di conoscere le buone volontà ignorate di spronarle e apriamo loro il campo col ritirarci o il non accettare quando non possiamo espletare il compito che assumiamo. In Italia la fossilizzazione dei poteri, dei compiti perfino nel[p. 18 modifica]l’azienda domestica, in ogni lato della vita, è una delle nostre piaghe; e sia pur in piccola misura la donna ha il dovere di combatterle e di non farsene passiva continuatrice. La stessa mancanza d’ordine interiore, di controllo, rende spesso la donna eccitabile nelle minime inezie, facile alla meschina gelosia o di sentimento o di vanità, e le fa perdere ogni grazia, divenendo perfino inurbana.

Troppo spesso si confonde la spigliatezza, la franchezza con la perdita di urbanità e di cortesia, e a poco a poco si restringe sempre più la ricchezza del nostro vocabolario che ha pur tante e delicate e urbane espressioni di dire, per conservare soltanto una brevissima cerchia di parole rozze e talvolte volgari. Dante a proposito dei poeti che fanno onore a Virgilio osserva: «Parlavan rado con voci soavi». Come siam lontani da tali estetiche qualità! Oggi, chi grida ha maggior importanza e se udite cinque donne discutere tra loro siete condotti talvolta a credere d’essere trasportati alla Camera dei Deputati. È vero che a confronto dell’osservazione di Dante per la dolcezza della voce v’è anche l’antico detto: «tre donne fanno un mercato e quattro una fiera». Ma ciò è inestetico e l’estetica è una delle doti più necessarie alla donna, da non confondersi con la civetteria col malsano istinto di mille fronzoli per richiamare l’attenzione dell’altro sesso, cosa che sembra in via naturale non necessaria, perché madre natura ha riservato negli animali ai soli maschi la bellezza del manto o delle piume. E la nascita di Venere sorridente dalla luminosa spuma del mare adombra ben altro concetto di bellezza; appunto la bellezza in quanto è armonia di forme, di sorriso, di luci. Come la forma è l’espressione dell’equilibrio di linee e di curve, così il sorriso è l’espressione del[p. 19 modifica]l’equilibrio interiore e le luci la serena rispondenza tra l’essere e l’atmosfera che la circonda.

Oggi, o signore, più che mai s’impone ad ogni essere umano un grande compito, e a noi italiani forse più grave e urgente che ad altri. Si tratta per noi di saldare la nostra coscienza nazionale, ne abbiamo avuto, glorificato dal sangue e dalle vite dei nostri prodi un mirabile impulso, ma la coscienza che sa, che vuole, che ricorda e che vigila non è ancora interamente formata. Per troppo tempo la donna italiana chiusa soltanto nella casa è rimasta passiva dinanzi al concetto di patria. Dal giorno in cui una Sanfelice, una Maffei, una Cairoli, un’Anita Garibaldi vissero le ore del nostro riscatto, furono fiaccole ai combattenti, animatrici e cooperatrici, passaron diecine di anni di passiva indolenza patria, ed oggi è stato improvvisamente chiesto alla donna il più alto sacrificio che possa compiere, quello dei propri figli dei propri mariti. E molte, molte lo hanno compiuto con slancio ed abnegazione mirabili, tanto più mirabili in quanto nulla era stato fatto per prepararcele; ma quante di noi sono rimaste passive e ciò che è peggio strumenti di depressione, di avvilimento morale, e diciamolo pur franco anche d‘imboscamento!

Se da un lato il sublime sacrificio di molti ha dimostrato quale possa essere la forza morale di nostra gente, dall’altro ha dimostrato quanto rimanga a fare per sentirci veramente uniti in un’unica coscienza integra, equa, consapevole, che non conosca compromessi; molto è a rifare; è necessario tornare alle antiche tradizioni che resero rispettata l’Italia in ogni campo e da tali tradizioni trarre le direttive al nuovo impulso di vita che le contingenze dei tempi e dei fatti richiedono. Noi udiamo pulsare, l’anelito di nuove e sane ener[p. 20 modifica]gie; apriamo loro il passo e sia cooperazione unanime, fratellanza senza limite di sesso o di rivalità.

Per quanto da taluni osteggiato e deriso, il risultato di attività intelligente, il vero valore, vengono riconosciuti; l’opera della donna nell’ora presente n’è stata la migliore illustrazione. Quegli stessi che negano alla donna una coltura senza barriere, l’esplicazione di diritti acquisiti mercè il lavoro e lo studio, la necessità di formarsi una sua propria individualità indipendente, è purtanto a donne intelligenti, colte, operose, ch’essi si rivolgono per aiuto, per conforto, per cooperazione, soltanto che...... tale cooperazione preferirebbero rimanesse per modestia femminile ben celata nell’oscurità di quelle tali quattro pareti.

Del resto formi la donna in sè stessa una coscienza vigilante ben consapevole prima dei propri doveri e dopo dei propri diritti e il nuovo cammino che l’ora presente le apre non le sarà aperto invano. Tra le mie personali conoscenze per non trarre esempi da donne di altri tempi dirò che molte ne ho conosciute che mirabilmente s’indirizzavano verso quello sviluppo armonico di tutte le forze, del quale è oggetto in questi nostri ragionamenti. Ma tre sopra tutte le altre son ben scolpite nella mia mente e nel mio cuore: Julia Ward How, Adelaide Maraini Pandiani, Giuseppina Bianchi Cortima e dinanzi alla loro memoria m’inchino con quel senso di reverenza che si prova di fronte alla tangibile espressione di un interiore potere. Ricordo di aver conosciuto a Boston nell’inverno 1910 Julia Ward How novantenne. La «candida vegliarda» la «madre veneranda», quasi nivea nel biancore del volto incorniciato dai candidi capelli appoggiata al braccio di una delle figlie a sua volta già nonna, mi venne incontro festosamente conservando un sorriso [p. 21 modifica] ancor giovanile negli occhi chiarissimi. Mi prese amichevolmente le mani e mi disse con voce ancor calda di vibrazioni in italiano perfetto: «Lei dunque viene da Roma, la città del mio amore. L’Italia è stata la madre della mia anima». Per quarant’anni essa s’era dedicata a mille cause di redenzione pubblica; dall’educazione dei ciechi di un istituto dei quali il marito era direttore, a quella delle guerre per l’indipendenza della Grecia e dell’Italia; dall’abolizione della schiavitù negra, alla guerra civile del 1861 per l’integrità della Repubblica, e a lei si deve «Te battle Hymn of the Republic» ancor oggi l’inno nazionale di America. Patrocinando con lo stesso fervore la riforma delle prigioni e la causa del suffragio femminile, in ogni opera essa portava il contributo di seri studi filosofici e sociali e il valore interno di una fede indiscussa ed una dolce serenità di spirito.

Essa fu centro meraviglioso d’irradiazione; sposa ispiratrice e confortatrice fu madre di cinque figli, ch’essa allevò con le cure più sollecite, brillando dinanzi a loro come faro che non può estinguersi e questo faro dalle pareti domestiche irradiò lontano la sua luce additatrice. Ed io in quella terra del lavoro in cui ogni fattore umano vale per quanto ha potere di energia attiva incontrai uomini già adulti, rotti a tutte le lotte sociali, che con un senso di riverente riconoscenza mi parlavano di lei come «Madre» appellativo che racchiude l’elogio più eletto che si possa attribuire ad una donna, nel riconoscimento della sua più larga e più nobile affermazione.

Da noi, in questa terra ispiratrice d’arte e di raccoglimento, qua, tra le mura sacre di Roma, io conobbi Adelaide Maraini negli ultimi anni della sua lunga vita e la sentii circondata da un’aura di luce [p. 22 modifica] ch’era emanazione di un profondo equilibrio tra mente e cuore. In essa l’interiore impulso artistico emanava e riceveva forza dalla profonda gioia di un amore senza limitazioni che l’avvinceva all’uomo eletto che le fu compagno, e a volta animatore delle poche ma preziose opere che ci rimangono di lei come scultrice di raro e riconosciuto valore.

In quella fragile apparenza femminile un occhio non esercitato all’interiore intuizione non avrebbe potuto immaginare tanta forza di volere, una cosi alacre solerzia pel proprio compito, una coscienza cosi limpida e viva di ciò ch’è sorgente di gioia per sè e per altrui; l’ardore creativo d’immagini lungamente, amorosamente perseguite come creature già conosciute e che il suo estro d’arte, dolcemente induceva a discender da una sfera più luminosa, per rivestire una forma tangibile ove armonicamente s’equilibrava la forza maschia del genio creativo e la musicale nota del cuore. Sotto ciascuna delle sue opere si potrebbero incidere le parole dell’eletta del cielo discesa tra coloro che vivono in eterno sospiro:

«Vegno di loco ove tornar desio
amor mi mosse che mi fa parlare».

In Adelaide Maraini il largo censo non fu, come troppo spesso, ostacolo allo sviluppo di una forza attiva e raccolta, allumata da virtù d’amore. In lei non fu disaccordo in alcuna manifestazione della vita; l’amore fu la sua fiaccola, l’armonia la sua veste. Fiaccola ed armonia che ancor oggi i figli, i nipoti, gli amici, scorgono ed odono come ai giorni della sua reale presenza.

La terza donna: Giuseppina Bianchi, tutti voi avete imparato a conoscerla dal sacrificio ch’ella ha fatto di sè nell’ora del dovere. La sua piccola casa [p. 23 modifica] vibrante di vita e di colore, allietata ovunque giungesse un raggio di sole da piante amorosamente custodite, era il più diretto rispecchiarsi della sua anima.

Calma nella sua profonda felicità di sposa amante e riamata, seppe senza sforzo conciliare i suoi più minuti doveri della vita domestica, coi doveri dell’insegnamento nel quale seppe porre la rara fede dell’apostolato. Quando la guerra le chiamò il marito lontano, essa andò volontaria nella milizia femminile, vestì l’abito delle Sammaritane e comprendendone tutte le elevate finalità, vi dedicò ogni energia senza affanno, senza ambizione, senza eccitabilità, portando in questa come in ogni suo compito, la più elevata espressione della sua anima, circondandosi sempre di un’aura di pace e di modestia, ove vibrava tutto l’ardore del suo volere cosciente e sereno. Anche in essa l’interiore fiaccola dell’amore accesa al sacro focolare di Vesta spandeva la sua luce calma e continua in più larghi orizzonti, e nella sua piccola stanza esteticamente adorna dalle sue mani, essa è spirata in olocausto a quel profondo senso di dovere che non deve conoscere limiti di sesso.

Il largo tributo di riconoscenza di quanti l’avvicinavano, l’ebbero a guida, a maestra, o a collaboratrice, la medaglia che fregia la sua memoria non valgono, il raggio luminoso che ha lasciato tra noi.

Mi accorgo di aver citato senza volerlo tre esempi di pieno armonico sviluppo della propria individualità in donne che dal matrimonio non ebbero che una profonda sorgente di felicità derivante dalla più completa unione di due anime chiamate a completarsi per virtù d’amore; ciò non fa che confermare quanto accennai da principio, come il matrimonio non debba esser considerato dalla donna che quale finalità interiore [p. 24 modifica] dello spirito nella completezza dell’amore, e per giungere a ciò essa debba formarsi in guisa da non doverlo mai considerare come mezzo di esistenza materiale o di posizione sociale.

Le tre donne che ho appena tratteggiato racchiudono tutti i valori: Julia Howe che dall’opera del marito è condotta all’apostolato di rivendicazioni sociali e politiche; Adelaide Maraini che dal sacrario della famiglia trae ispirazioni a forme d’arte ove è il soffio animatore del genio; Giuseppina Bianchi che dalla sua casa porta il sorriso della sua anima grande nel campo del bene civile e dà la vita per la patria, come l’eroe sul campo di battaglia.

Non è mia intenzione il fare un’apoteosi e perciò il mio dire è breve e semplice, ma poiché l’esempio val più della parola, ho additato tre tipi di donna nei quali si compendia intero, sicuro, l’equilibrio della vita familiare e sociale, il vero amore col largo incondizionato senso di fratellanza; la forza come emanazione di attività col più eletto sentimento di bellezza.

Tali esempi sono eccezioni mi si dirà, minori di quanto non si creda, e di tali ma oscuri, ignorati potrei citarne buon numero anche nelle classi più umili; sono rari ma esistono; rari, come rari sono i caratteri integri, le forze di bontà e di possanza anche nel campo maschile. E non si creda che io li abbia scelti o citati in omaggio ad una lunga amicizia; tutte e tre queste donne io ebbi a incontrarle alla vigilia della loro partenza, sulla soglia dell’al di là, ma nel loro sorriso d’inconsapevole addio sentii palpitare quel largo impulso di bene generoso e cosciente che se fosse nell’animo di ogni donna il mondo sarebbe certo alquanto migliore.

Per decennii si è lavorato a distruggere la sacra [p. 25 modifica] fiaccola dell’idealità; sta in gran parte alla donna a riaccenderla nel cuore di ogni figlio, così come l’amore e il pericolo della patria l’ha riaccesa magnanima nel cuore di tanti nostri combattenti, e ne ha creati eroi leggendarii.

Nonostante l’ora sanguinosa che incombe, noi sentiamo ovunque un bisogno infinito di giustizia e di pace; non pace inerte e supina, ma pace operosa e vigile, operosa nella trasformazione di ogni energia, vigile alla riscossa di ogni sano diritto.

L’uomo ha domato gli elementi, si è reso sovrano dell’aria, non è ciò simbolo di una futura elevazione morale verso una più larga e più santa concezione di patria e di umanità?

Quando nel luminoso e puro azzurro del cielo noi vediamo librare le veloci ali di un nostro areoplano, in giri ampii, maestosi, sicuri, un fremito d’ammirazione passa in ogni nostra fibra; tale ammirazione è la rispondenza dell’anelito d’ascesa racchiuso in ogni anima umana. Possa questa pura conquista dell’aria, in un giorno non lontano, esser non più strumento di distruzione ma legame universale di fraterna giustizia.

Roma, 11 febbraio 1918.