La Chioma di Berenice - Discorsi e considerazioni (1913)/Discorso primo - Editori, interpreti e traduttori
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DISCORSO PRIMO
editori. interpreti e traduttori
I. Essendo stato questo poema pubblicato con Catullo sempre, con Callimaco le piú volte, e talora separatamente, rari degli antichi libri possono annoverare piú edizioni e piú tormenti dagli eruditi. L’edizione principe usci l’anno mcccclxxii1, unitamente a Tibullo, Properzio ed alle Selve di Stazio; della quale, oltre le copie memorate da’ bibliografi, una serbasi in Roma nella libreria Corsini, con varianti di mano del Poliziano e due note: una, alla fine, di Catullo, con che si vanta di avere emendato il testo; l’altra, alla fine, di Properzio, scusandosi della sua temeritá giovenile. Primo commentatore del poemetto di Callimaco fu Partenio Lacisio, veronese2, dottissimo per que’ tempi, non infelicemente seguito, sebbene con minore dottrina, da Palladio Negro3, cognominato Fusco, letterato padovano. Ultimo di questi fu Alessandro Guarino, nipote dell’illustre Guarino il vecchio, che col Filelfo, col Poggio e co’ greci fuggitivi di Costantinopoli non perdonavano né a vigilie né a viaggi per restituire le greche lettere, e figliuolo di quel Battista Guarino che fu amico del Poliziano. Onde a torto il Fabrizio4 ed il Tiraboschi5 ascrivono questi commenti al padre, senza pur nominare Alessandro; tanto piú che da un epigramma recato in questa edizione6 appare che Battista non abbia se non emendato il testo catulliano. Considerata la scarsezza di libri, piú lume hanno dato a’ lor tempi que’ primi eruditi, di quello che s’abbiano fatto i lor successori.
II. La prima e la seconda edizione aldina7, eseguite con le castigazioni di Girolamo Avanzio, servirono di fondo, tranne poche emende, al Mureto8. Quel gentile e coltissimo ingegno di molta luce illustrò Catullo, sebbene nella Chioma di Berenice talor confessi di non intendere, e chiami Edippo in aiuto. Ricco di codici, e piú del suo pieno che dell’altrui, fu Achille Stazio9. Amendue vennero saccheggiati dal Toscanella10, dal Gisselio11 e dal Pulmano11, grammatici.
III. Capitano di nuovi commentatori uscí Gioseffo Scaligero12. Ereditò dal padre l’acuto ingegno, l’audacia nel manomettere i classici, Io studio indefesso13, la sterminata erudizione, le gelosie letterarie, e l’acre stile con che Giulio Cesare assalí Erasmo, e piú infelicemente il Cardano. Traspaiono tutte queste doti dalla esposizione alla Chioma di Berenice. Giano Douza14, morto giovine di egregie speranze, e benemerito di Lucilio, giurò spesso nelle parole dello Scaligero. Quindi il Passerazio15, Giano Gebhardo ed il Meleagro16, filologi, ed alcuni letterati di trivio, che puoi vedere nell’edizione cognominata «greviana»17. La quale, ad onta della prefazione di questo solenne editore, è tanto male ordinata, ch’io sospetto non gli stampatori abbiano abusato del nome di lui. Chiude la schiera Anna Lefevre18, conosciuta da’ nostri, che leggono Omero francese, sotto il nome di madama Dacier; scaligeriana giurata, se levi poche lezioni lasciatele in legato da Tanaquillo suo padre, e molti abbagli spacciati con la iattanza de’ retori e con inconsideratezza donnesca. E duolmi che Ezechiello Spanhemio, inclito fra tutti i commentatori de’ greci, non avendo affaticato sopra questo poemetto di Callimaco, perché, attesi i pochi frammenti originali, lo reputava forse piú cosa di Catullo, riportandolo dopo gl’inni, abbia adottate le note della Dacier, seguite poi nella nuova edizione, tranne poche mutazioni, dall’Ernesto.
IV. Ben risente della filosofia del suo secolo il commentario d’Isacco Vossio19, figliuolo dell’infaticabile Gherardo, uomo a cui poco delle antichitá orientali, greche o romane stava nascosto. Troppo bensí compiaceva al proprio ingegno, e pescava nelle tarlature de’ codici nuove lezioni, per adornarle quindi del suo tesoro. Doveva almeno avere questo esemplare sotto gli occhi quel Filippo Silvio, che compilò un’esposizione a’ tre poeti ad usum Delphini20. Que’ teologi, innacquando il maschio latino de’ classici con quelle loro parafrasi 21, deviano i giovinetti dalla fatica, e quindi dallo studio di quella lingua e dall’amore del bello. Violando i testi per accumulare alla fine del libro tutti i tratti men verecondi, corrompono maggiormente la gioventú, perché le preparano uniti quei versi; mentre, per leggerli separati. avrebbe almeno dovuto scorrere tutto il libro. Ed il pessimo di costoro toccò a quel grande,
poeta e duca di color che sanno22.
V. Non molto dopo, pubblicando Giovannantonio Volpi, ancor giovinetto, le sue postille sopra i tre poeti23 osservò anche il nostro poemetto, lasciando a divedere ch’ella non era soma dalle sue spalle. Di che vergognando, stampò ventisette anni dopo quel suo commentario «copiosissimo»24, di cui tanto concetto corre per l’Italia, e tanto ne deve pur correre: poiché lo studio de’ classici è confinato ne’ seminari, e i libri, anziché alla dottrina, servono alla pompa delle biblioteche. Non ha nuova lezione il Volpi, né arcana dottrina che non sia tutta del Vossio; né le virtú sole, ma i vizi adotta del precettore. Lussureggia la mole del suo commento di citazioni importune, che prendono occasione non dalle viscere del soggetto, ma da nude parole. Piú pregio e men grido ha la sua esposizione alla satira decima di Giovenale. Se non che usando il Volpi di nitida latinitá, toglie il lettore dalla noia, a cui per amore degli antichi soggiace, leggendo i commenti oltramontani.
L’anno dopo, uscí un’edizione di Catullo, predicata «principe»25, perché si pretendea tratta da un codice allora trovato in Roma. Non mi è toccato di vedere l’edizione originale, né posso giudicare dell’esposizione. Ma ne possedo il testo di una elegante edizione schietta di note26, ove lo stampatore professa di seguire religiosamente la lezione del Corradino. Vedrai dalle varianti che non a torto fu questo commentatore obbliato, e chiamato «impudente» dal dottissimo Harles27 e «poco giudizioso» dal bibliografo Arvood28.
VI. Alcuni anni prima, Antonio Conti tradusse il poemetto e lo corredò di osservazioni29, che, se anche fossero state pubblicate senza il nome di tanto filosofo e letterato, vi si scorgerebbe nondimeno l’autore del Cesare, tragedia, e della Eroide di Elisa ad Abelardo, unica poesia elegiaca da contrapporre con fiducia agli stranieri e agli antichi. Ma piú nota di questa è la traduzione di un bifolco arcade, inserita nella malaugurata collezione de’ poeti latini30. Que’ preti, che posero rimpetto a Catullo questo petulante e scipito verseggiatore, ben mostrano a che stato era la sì vantata letteratura italiana di quella etá. Né piú senno mostrò il Bandini, inserendo questa versione sotto la greca che fece Anton Maria Salvini31, il quale era giá stato prevenuto nell’audace fatica dallo Scaligero32 che, a mio parere, serba piú greca andatura. Eminente, fra quelli che tentarono traduzioni in greco, reputo Eugenio Bulgari, corcirense, oggi metropolita in Pietroburgo, che dotò il bello virgiliano della grandezza di Omero. Ma se pur v’hanno volgarizzamenti della Chioma di Berenice oltre a’ citati, non so. Degli stranieri non posso dire: sono sì parco cultore delle loro lingue, che, se pure avessi trovate tutte le versioni, e taluna ne avessi letta, non oserei però giudicarne.
VII. Continuavano intanto i commentatori. Fra gli allievi di Gottlieb Heyne (chiaro e fortunato per lo suo Virgilio, recente editore di Pindaro, e recentissimo di Omero, non so se con pari fortuna), un certo Doering pubblicò nella sua diligente edizione di Catullo33 l’esposizione del poemetto di Callimaco: rare orme sue proprie lasciando, ricalca quelle del Volpi. Prometteva anche l’Arteaga34 nuove illustrazioni; ma non mi è avvenuto di vedere il suo libro, o non attenne la promessa. Un Turchi d’Arimino, entusiasta di Catullo, mostrò a me giovinetto, or son sett’anni, un suo lavoro d’incredibile pertinacia sui codici del suo poeta: morí, né posso sapere la fortuna delle sue carte. Forse piú commentatori avrá avuto Callimaco, e, piú che altrove, in Germania, dove que’ letterati si procacciano averi e tentano fama, facendo commercio de’ classici. E noi siam pure costretti, reputandoli poco, a ringraziameli: ché, senz’essi, né greco né latino scrittore correrebbe piú per l’Italia, la quale rari, a’ miei giorni, ed indisciplinati vede gli antichi uscire dalle proprie tipografie. Era bensí prezzo dell’opera lo svolgere le illustrazioni del Valckenario, pubblicate postume da Giovanni Luzac35. Involte in continua e discordante erudizione, richiedono uomini istituiti appositamente per intenderle. Preoccupato vedendosi il campo, dovea pure sgombrarsi lo stadio, immaginando nuove e strane lezioni, e chiamando in aiuto Lorenzo Santeno ed Ildebrando Withofio, de’ quali divolga ed illustra le congetture e i capricci. Né questo lungo commento passa il segno delle varianti, se non raramente e per incidenza.
VIII. Onde, in tanta battaglia ed incertezza di lezione, mi sono rifuggito alla piú antica, ove non riesca inintelligibile e assurda, prendendomi per esemplare l’edizione principe e quelle dell’etá aldina: certo almeno che sono estratte da’ codici. Poiché, rispetto a’ manoscritti che ognuno degli editori cita per suggello delle proprie congetture, niuno potrá persuadermi che tanti ce n’abbiano mandati il decimoterzo e decimoquarto secolo, e che non sieno foggiati molto piú tardi dalla venalitá de’ librai e dalla mala fede degli eruditi. Di che ti sieno argomento non le lezioni incerte, ma le discrepanti perfin di un intero pentametro36, in modo che non errore di amanuense, né tarlo di membrane o di tempo, bensí le architettarono le liti e la ostinazione degli espositori. Di quattro manoscritti, che mi toccò di esaminare nella Ambrosiana in Milano, uno solo in carta sembra anteriore al 1450; gli altri tutti, sebbene in pergamena e con dorature foggiate all’antica, portano i caratteri de’ codici posteriori alla stampa. Però non da questi soltanto ho raccolto tutte quante le varianti, ma dagli editori e dagli altri eruditi che le propongono qua e lá nelle varie opere loro. Che se taluna mi fosse sfuggita, non dissento che tu lo ascriva alla mia inferma pazienza, purché tu ad un tempo consideri la intemperanza di tanti tormentatori di sí pochi versi. Ma se debbasi scrivere «cum» o «quum», «lacrimae», «lacrymae» o «lachrimae», «coelum» o «caelum», e siffatte quisquiglie gramaticali, ho creduto riverenza a chi legge, a me stesso ed al tempo il non disputare. Fuggiamo, mio Niccolini, a tutto potere le liti de literis vocumque apicibus. Non che talora non sieno di alcun momento; ma è grave ed inglorioso l’invadere i regni a’ gramatici, gente clamorosa, implacabile, intenta ad angariare i sudditi ed a scomunicare i ribelli, ma meno pericolosa all’inimicizia che all’ossequio. La loro famigliaritá fa contrarre le ostinazioni e le risse puerili, ch’eglino assumono trattando nude parole e rudimenti da fanciulli, onde anche i sommi letterati diventano gramatici illiberali37. E ne’ lor libri recitano a un tempo da sofisti e da poetastri, assottigliando il fumo e gonfiando le minime cose. E minacciano, e gridano per dar peso alle loro inette tragedie, di che van pieni infiniti volumi, che fanno noiosa la lettura de’ classici. Scabbia, onde fu magra e sparuta anche la lingua italiana, per cui gl’ingegni caddero nella contraria barbarie del Secento, ed ora per nuovo fastidio ricorrono alla letteratura d’oltremonte. «Tollat sua munera cerdo».
IX. Interpretando un antico poeta, fabbro di arte bella, per cui usa di modi figurati e di peregrine parole, che tocca fatti di principi e di nazioni, onde ritorcerli alla istruzione degli uomini, il commento deve essere critico, per mostrare la ragione poetica; filologico, per dilucidare il genio della lingua e le origini delle voci solenni; istorico, per illuminare i tempi ne’ quali scrisse l’autore ed i fatti da lui cantati; filosofico, acciocché dalle origini delle voci solenni e da’ monumenti della storia tragga quelle veritá universali e perpetue, rivolte all’utilitá dell’animo, alla quale mira la poesia. Chi piú congiunge queste doti, quegli, a mio parere, consegue l’essenza d’interprete, ch’io definisco: «far intendere la lettera e lo spirito dell’autore». Perciò, primo de’ commentatori a’ poeti latini reputo l’inglese Thomas Creechnota, degnamente seguace anche sotterranota del suo poeta, e per me onorato e caro come fosse vivo e presente. Ma, esaminando con queste norme gli espositori della Chioma di Berenice, 38 39 troveremo che il Conti fu critico in ciò solo che contempla l’architettura del poema, ed il Volpi ove intende di mostrare le imitazioni; di che vive un meraviglioso esemplare nel Virgilio di Lacerda. Tutti sono filologi, ma piú per emendare inopportunamente il testo che per notomizzare la lingua. Partenio, il Vossio ed il Valckenario si mostrano talora storici, ma con tanto disordine, che fuggono dall’attenzione del lettore. Niuno filosofo; si prédica la poesia maestra degli uomini, ma pochi poeti lo mostrano praticamente, e niuno interprete.
X. Queste cose mi confortarono al presente commento: non a caso, ma pensatamente mi distenderò; ché non intendo di parlare a’ dotti, bensi a que’ che tentassero nuova strada di studiare i classici. Questo mi valga per chi apponesse al nostro libretto il titolo di «commento senza testo», quasi io malignamente alludessi agli sterminati volumi degli eruditi sopra gli antichi. Avrai discorsi generali intorno alla critica ed alla storia del poemetto; sotto il testo le varianti, le postille discrete gramaticali, l’esposizione de’concetti, e le note piú spedite intorno alle bellezze poetiche ed a’ costumi, e, dopo la nostra versione, tutte le considerazioni di storia e di filosofia, alle quali diede occasione il poeta. I commentatori, sebbene ciascuno riesca per sé insufficiente, tutti esaminati, mi hanno di tanto giovato, che senz’essi avrei speso piú tempo e fatica.
Note
- ↑ Litigan gli annalisti tipografici se appartenga a quest’anno o al seguente. Per me importa che questa sia, fuor di contesa, l’edizione principe.
- ↑ Brixiae, in folio, apud Boninum de Boninis, 1485. — Ibid., 1486. — Venet., 1497, apud Andream de Palthaschichis. — Ibid., 1491, a Bonetto Locatello. — Ibid., 1493 , per Simonem Papiensem — ed alcune ripetizioni men infrequenti.
- ↑ ... 1488 ... — Venetiis, 1494, per Simonem Bevilacqua.
- ↑ Bibl. med. ret inf. lat., lib. vii.
- ↑ Stor. letter., lib. iii, cap. 5.
- ↑ Venetiis, per Georgium de Rusconibus, 1521. Edizione ignota a parecchi bibliografi, ed unica, a quel ch’io mi sappia.
- ↑ Aldo, 1502. — Id., con qualche mutazione, 1515.
- ↑ Venet., 1554, apud Paulum Manutium: ripetuta assai volte dal Grifio.
- ↑ In aedibus Manutianis, 1566: edizione assai mentovata, ma infrequente.
- ↑ Basileae, ex officina Henrici Petrina, 1569: ripetuta due volte altrove.
- ↑ 11,0 11,1 Antuerpiae, ex officina Plauntiniana, 1569.
- ↑ Lutetiae Parisiorum, apud Patisson, 1577: ripetuta altrove piú volte.
- ↑ Dedicando Cat., Tib, e Prop. al Puteano, vantasi lo Scaligero: «Ne integrum quidem mensem illis tribus poëtis recensendis impendimus».
- ↑ Lugd. Batavorum, 1588.
- ↑ Parisiis, apud Claudium Morellum, 1608.
- ↑ Hannover, 1618, Iani Gebhardi Animadversiones; Iani Meleagri Spicilegium in Valerium Catullum.
- ↑ Traiect. ad Rhenum, ex officina Rudolphi Zyll, 1680. — Miglior di questa è l’edizione variorum in fol., Lutetiae, apud Claudium Morellum, 1604.
- ↑ Callimachi, Quae exstant, cum notis Annah Tanaquilli, Fabri filiae, Parisiis, apud Sebastianum Marbre-Cramoisy, 1675.
- ↑ Londra, 1684: ripetuta altrove due volte. — * Lo storico Gibbon, nell’estratto della dissertazione di Isacco Vossio, De antiquae urbis Romae magnitudine, lascia questa memoria: «Fu pur singolare il genio del Vossio! Lettura vasta, vivacitá ed invenzione; ma io non conobbi ingegno piú falso, né piú esagerato ne’ giudici, né piú presto sedotto dalle lusinghe delle sue fantasie. Era poi uomo tristo e di vita macchiata». Gibbon, Opere postume, all’estratto delle letture: 3 ottobre 1763.*
- ↑ Parisiis, 1685: ripetuta a Londra ed a Venezia.
- ↑ Di questo infelice metodo vedi i danni nel lib. ii De oratore, in Cicerone. Che mai può essere la «interpretazione» fatta da quel prete Pichon a Tacito, se ogni frase di questo scrittore è gravida di pensieri, e molte parole racchiudono la metafisica e le origini della giurisprudenza romana?
- ↑ Lucretius, ad usum Delphini, interprete Michael Fayo Societ. Ies.
- ↑ Patav., ap. Ioseph Corona, 1710.
- ↑ Patav., ap. Ioseph Cominum, 1737.
- ↑ C. Valerius Catullus in integrum restitutus critice Io Franc. Corradini de Alio, Venetiis, 1738, fol.
- ↑ Lugd. Batavor. (Paris, Coustelier), 12°. 1743.
- ↑ Introd. in Not. lit. rom., vol. I, p. 326 e sg.
- ↑ All’articolo Catullo.
- ↑ Venezia, dalle stampe Pasquali, anno 1739.
- ↑ Milano, Corpus Latin. poët., 1740.
- ↑ Callimachi Cyrenaei, Hvmni, ab Ant. Mar. Salvinio, Etruscis versibus redditi, Florentiae, typis Mouckianis, 1743.
- ↑ Poëmata quaedam Catulli, Tibulli, Propertii, selecta, graece reddita per Ioseph. Scal1gerum, 1615.
- ↑ Lipsiae, apud Gotti. Hilscher, 1788.
- ↑ In praefatione ad praeclarissimam editionem Bodonianam trium poëtarum.
- ↑ Callimachi, Elegiarum fragmenta etc., Lugduni Batavorum, in officina Luchtmanniana, 1799.
- ↑ Vedi note al verso ultimo del poemetto, e Considerazioni sui codici.
- ↑ * Mirabile esempio di questa sentenza sono le Considerazioni di Galileo Galilei, divino ingegno, sul poema del Tasso. *
- ↑ Lucretius, cum interpretatione et notis Thomae Creech, collegii omnium animarum socii, Oxonii, 1695.
- ↑ * Taluno di quegli uomini letterati che scriveano il Diario italiano, nel dicembre del 1803, mi appose «la mia feroce ammirazione pel suicidio»; e trasse l’accusa forse da questo passo e dall’altro, ov’io lodo Pier delle Vigne. Ma, se io per natura e per destino sono astretto a reputar veramente libero e sapiente chi sa morire a tempo, a che non piuttosto compiangermi, s’io deliro in questo error malinconico? a che non convincermi prima di rinfacciarmi? Letterati godenti! né so né posso vivere con voi né per voi: e piú m’insegnano l’ultime ore del suicida che tutta la vostra cortigiana filosofia. E da forte il sostenere la sciagura, ma l’accoglierla spensieratamente è debolezza e follia. Sfugge l’uomo alla tirannia della onnipotente fortuna, se sa come e quando morire. E, poiché i lieti letterati de’ miei giorni non mel possono insegnare, io vivo con gli uomini morti con generosa laude antica, e gl’interrogo, e mi rispondono.
Γέρων γέροντι γλῶσσαν ἡδίστην ἔχει:
παῖς παιδί, καὶ γυναικὶ πρόσφορον γυνή·
νοσῶν τ' ἀνὴρ νοσῶντι: καὶ δυσπραξίᾳ
ληφθεὶς ἐπῳδός ἐστί τῳ πειρωμένῳ.Al vecchio la lingua senile è giocondissima:
ben si sta il fanciullo col fanciullo, la femmina con la femmina,
e il malato col malato: e l’uomo rotto dai guai
è conforto di chi è sbattuto dalla sciagura.Menandeo. *