La Chioma di Berenice - Discorsi e considerazioni (1913)/Considerazione nona - Deificazioni

Considerazione nona - Deificazioni

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Considerazione ottava - Statua vocale di Mennone Considerazione decima - Venere celeste

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CONSIDERAZIONE NONA

deificazioni.

Cosí dunque Mennone per la sua antichitá fu argomento di molte favole, di religione e di miracoli. L’eruditissimo Jablonscki (De Menmnone Aegyptiorum, syntagma iii, capp. 5-6) discorre della divinitá di questo Mennone o Osimande. Ma gran danno è pur quello che ne arrecano gli eruditi, i quali, compilando aridamente e pazientemente le antiche memorie, né le cause indagano, né gli effetti. Tenterò di supplirvi come potrò, valendomi di ciò che la lezione dell’antiche storie e la osservazione de’ miei tempi, feracissimi di «veritá» politiche, mi hanno somministrato. La necessitá d’incutere ne’ popoli il timore dello scettro e delle leggi strinse da prima i principi a collegarsi col cielo, ed a pubblicare gli ordini degli Stati per mezzo della voce divina. Però la teologia de’ popoli racchiude sempre i germi della loro legislazione. E Mosè fu legislatore, capitano e profeta delle tribú di Israele; * anzi elesse al pontificato il proprio fratello: «Excelsum fecit Aaron fratrem eius, et similem sibi de tribu Levi: statuit ei testamentum aeternum, et dedit illi sacerdotium gentis» (Ecclesiasticus, cap. xlv, 7). * Ed i re stessi presso gli ebrei si chiamavano «unti del Signore», ed i romani erano giureconsulti, magistrati e pontefici ad un tempo, e nel ricorso de’ tempi barbari i re di Francia si chiamavano conti ed abati di Parigi. Aristotele (lib. iv Della repub.) nota che ne’ tempi eroici, «reges, dum bellum gererent, imperii summam tenebant, praetrantque sacrificiis». * Cosí gli antichi sacerdoti e principi de’ germani accompagnavano i cavalli sacri per tentare gli augúri delle guerre; ed i soldati erano puniti solo da’ sacerdoti, non per giudizio o cenno del capitano, ma quasi Dio comandando, creduto presente a’ combattenti (Tacito, Germ., vii). Massimiliano primo imperadore volle farsi chiamare «pontefice massimo». * Le nazioni, per la perpetua legge dell’universo, alternano la schiavitú e la signoria; questa la si ottiene per lo piú dal genio di un uomo solo, l’altra succede con la debolezza che reca il tempo e la vecchiaia di uno Stato: ov’è da osservare che le nazioni [p. 309 modifica] potenti pel genio di un solo sovra le altre, sono poi schiave di quel solo e de’ discendenti di lui. Or questa regale famiglia ha d’uopo di collegarsi col cielo per dominare le braccia degli uomini, dominandone il cuore: * poiché, dove tu trovi popoli obbedienti ad assoluto potere non santificato dalla religione, ivi tu devi argomentare somma, corrotta ed insanabile servitú, e la tirannide o militarmente potentissima o vacillante.* Con questa ragione si spiega la moltiplicitá de’ numi; e dove si potessero ritrovare tutte le epoche de’ cangiamenti politici del mondo, si troverebbero nuove apoteosi. Seguirò solo le piú solenni. Gli etiopi, i quali per un’antica tradizione tennero (Plinio, libro vi, cap. 29) gran parte del mondo, tramandarono Mennone; gli egizi Sesostri; gli assiri Belo e Semiramide (Bianchini, Stor. univers., deca iii, cap. 21); i greci Alessandro; i romani Cesare. De’ secoli posteriori non parlo: chi di queste cose vede il midollo, può, senza piú, arrivare alle mie applicazioni; e chi non lo vede, perderebbe meco tempo e fatica1. Del perché Alessandro e Cesare non sieno a noi giunti come numi, si può assegnare tre ragioni: 1° la copia delle storie, che non concesse alla ignoranza del volgo di pascersi delle incerte meraviglie dell’antichitá; 2° i loro successori, nemici fra loro e di diverse famiglie; 3° le religioni armate, che sottentrarono alla gentile, come la cristiana a’ tempi di Costantino, e la musulmana dopo le conquiste di Maometto.

Mi fermerò sulle apoteosi delle tre prime regine di Egitto, delle quali ho parlato nel Discorso secondo. Ognun sa quanto Alessandro affettasse divinitá, sino a farsi credere figliuolo di Giove, ed a farsi salutare dal sacerdote indiano con questo nome. Molte medaglie con le corna, che passano sotto il nome di Lisimaco, sono da qualche erudito credute di Alessandro, appunto per quel simbolo di Giove Aminone. * Spanhemio nella dissert. v, De usu et praestantia numismatum, sfoggia una ricchissima erudizione su le [p. 310 modifica] corna degli dèi, dei fiumi e dei re; e nella Geografia d’Abd-errachyd el-Bakouy il rifondatore d’Alessandria è cognominato Ilkander Dou-l-Qavn’eyn (Alessandro delle due corna). Vedi la Dècade égyptienne, p. 276, n. 9. * E chi volesse vedere i simboli e le effigie del sovrano guerriero, ricorra al libro di Erasmo Eroeslich (Annales compendiarii Syriae: Numismatum, tav. i, Vienna 1744). Plutarco, raccontando queste origini divine d’Alessandro, conclude: «Dalle parole di lui manifestamente appariva ch’egli non aveva in se medesimo persuasione di essere dio, né superbiva per ciò: ma serviasi di questa opinione della divinitá sua per cosí meglio sottomettersi gli altri». Cosí i Tolomei, suoi successori, non veggendosi a principio stabilmente signori dell’Egitto, tentarono tutte le vie per associarsi agli dèi. Quindi la favola dell’aquila, di cui parlano Suida e Diodoro siculo (lib. xvii); quindi le celesti e regali origini di Lago, da noi giá notate ( Discorso secondo, ii), e gli onori divini fatti da’ rodiani a Tolomeo primo, adorandolo come «Salvatore» (Diod. sic., lib. xx; Plutarco, in Demetrio; Paus., in Atticis). Ma, perch’ei dovea piú sperare dall’opinione che le genti aveano d’Alessandro, che di lui medesimo, egli usò d’armi e d’astuzia per avere il cadavere del Magno, e lo seppellí in Menfi, donde poi Filadelfo lo trasportò in Alessandria (Strab., lib. xvii; Curzio, lib. x, cap. ult.; Diodoro, lib. xviii; Pausan., in Atticis). Dopo di che, Filadelfo fece ascrivere fra gli immortali il padre e la madre Berenice, e fabbricò loro (Teocr., Panegir. di Tolomeo ) «templi odorati; ed innalzò cospicui simolacri d’oro e di avorio, onde sieno aiutatori a’ mortali ed a’ loro devoti». E stabilí loro feste ricorrendo certi mesi, e sacrifici di vittime massime (Id., ibid.). Non trovo ricordanza di favole teologiche intorno a Tolomeo primo; bensí i suoi successori comprarono gli uomini scienziati ed i poeti per istituire un culto a Berenice, fondato sul mirabile. Teocrito, idil. xvii, v. 45:

               O veneranda e sovra tutte quante
               dèe la piú bella, o Venere, tua cura
               fu Berenice, e tua mercé la bella
               non varcò d Acheronte il molto pianto.
               Tu la rapisti pria che al fiume negro
               e al sempre triste traghettier de’ morti
               giungesse, e lei nel tuo tempio locavi
               al tuo culto Compagna, onde a’ mortali
               tutti propizia, amor facili spira,
               miti cure concede a chi la prega.

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Cosí, associò Berenice a Venere, e fu aiutatrice della passione universale dell’uomo. Che se non si fossero perduti gli Inni di Teocrito, avremmo piú notizie di questo culto dal poemetto ch’ei scrisse sopra la prima Berenice, perché dalle reliquie, che ne restano, appare non essersi la divozione verso il nuovo nume ristretta negli amanti; ma, perché gl’infelici mortali han d’uopo di speranze fuori di questo mondo e di numi nuovi e diversi (ché gli antichi per lo piú li deludono), ella era invocata da’ pescatori e da’ naviganti (Teocr., Frammenti). Questa necessitá di numi moltiplicò le apoteosi de’ propugnatori e maestri del cristianesimo, e ben vide chi li santificò; ma, se i sacerdoti possono santificare, i soli principi possono far adorare i santi. Però né culto né templi ebbe Platone, sebbene cognominato «divino» e reputato semideo (Agostino, De civit. Dei, cap. xv), ed appena i filosofi convenivano per cenare in onore di questo sapiente (Euseb., De praeparat., lib. x, cap. i, ex Porphyrii libro De studioso auditu). Or è da badare come, in un tempo cotanto illustre per la filosofia e le arti belle, siesi il culto di Berenice propagato in Egitto ed in tutte le province de’ Tolomei. Fu insinuato per mezzo di splendide solennitá, sií care a’ popoli e sií necessarie a’ governi. Una delle quali eran le feste e le processioni chiamate «adonie». Teocrito, Fest. adon., verso 106:

               O Cipria Dionea, tu Berenice,
               siccome è grido, dal mortale ceto
               festi immortale; perocché nel petto
               stillasti ambrosia della donna bella,
               onde a te, dea per molti inclita nomi
               e per molte are celebrata, or offre
               grazie la pari ad Eleo a, la figlia
               di Berenice Arsinoe, di mille
               e vari doni ornando il bello Adone.

I doni vedili descritti nel poeta e nel suo interprete Varthon. Le feste riuscivano gradite agli egizi, e per la prodigalitá de’ re, e per la pompa, e per la voluttá delle giovinette, le quali in quelle solennitá andavano con le mamme scoperte, e con tutte le licenze che l’Egitto imitò dagli assiri (Luciano, De dea Syria). Cosí la deitá nuova diveniva cara e necessaria.

La seconda regina di Egitto fu Arsinoe, quella stessa che fu di macchina nel nostro poemetto, e s’è mostrata deificata nelle note al v. 55 e sg. [p. 312 modifica]

La terza fu la Berenice dalla bella chioma, la quale, impaziente dell’apoteosi, la fece conseguire anzi la morte alle proprie trecce, ed era sin da’ primi tempi del suo matrimonio riputata immortale come le Grazie. Callimaco, epigram. lv:

               Quattro sono le Grazie: or s’è creata,
               oltra le prime tre, Grazia novella
               rugiadosa d’unguenti. Oh fortunata
               e a tutte invidia Berenice bella,
               che le Grazie non son Grazie senz’ella!

Vedi un altro de’ tanti antichi esempi, ove 3 — 1 = 0.

Frattanto, senza ch’io piú mi distenda, le medaglie tutte de’ Tolomei (Annales compendiarli Syriae Erasmi Froeslich), le loro statue (Paus., in Atticis), i nomi che le Berenici e le Arsinoi regine davano alle cittá e alle province (Plin., lib. v, cap. 9; Tolom., Geogr.; Strab. ed altri); le lodi sterminate e piú che divine, che i re stessi d’Egitto si arrogavano (Monumentum adulitanum, da noi cit. nel Discorso secondo, cap. v), dimostrano abbastanza che non solo que’principi affettavano divinitá, ma che l’aveano nell’opinione de’ sudditi conseguita. Da questa considerazione nascono i seguenti corollari: 1° I numi delle nazioni sono stati di mano in mano i principi, legislatori e sacerdoti. 2° I poeti furono i primi teologi, storici e giurisconsulti delle nazioni. 3° Ogni nuovo Stato, quantunque in fondo mantenga la religione del paese, deve nondimeno procacciarsi nuove divinitá o almen nuovi riti. 4° A questo tendevano gli imperadori primi di Roma e i poeti; e senza Costantino le adulazioni di Orazio e Virgilio, il quale (egl. i, v. 42) chiama «praesentes deos» fino i cortigiani di Ottaviano Augusto, ci sarebbero giunte non solo come poesia, ma come teologia. 5° Per li lumi sparsi dalla filosofia e dalla storia sulla religione gentile, che, come tutte le umane cose, arrivava alla decrepitezza, non avendosi potuto ne’p opoli istillare la divinitá degli imperadori, saggiamente Costantino abbracciò nuova religione, di cui nondimeno o non seppe o non potè interamente valersi.


Note

  1. Tra gli autografi del Nostro, conservati in Firenze, trovansi scritte in un foglietto le seguenti parole con la rubrica «Nota al Discorso terzo», e che noi crediamo non inopportuno pubblicare a questo luogo: «Nell’esequie di Enrico V re d’Inghilterra il duca di Bedfort fa in Shakespeare quest’invocazione: — O Errico, invochiamo l’ombra tua; felicita questo regno e salvalo dalle guerre civili: combatti ne’ cieli gli astri nemici della sua pace, e il firmamento sará col tuo nome arricchito d’una costellazione piú gloriosa di quella di Giulio Cesare o della splendida di Berenice. — Parte i d’Enrico VI» (Nota dell’ed. fiorentino).