La Chioma di Berenice - Discorsi e considerazioni (1913)/Considerazione decimaterza - Mirra

Considerazione decimaterza - Mirra

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CONSIDERAZIONE DECIMATERZA

mirra


Versi 77-78.

Quicum ego, dum virgo quondam fuit, omnibus expers
unguentis, myrrhae millia multa bibi.

Erano propriamente «unguenti» tutti quelli artificiosamente composti di vari odori; onde Varrone (De l. l., lib. v) e Plinio (libro xiii, cap. 1) distinguono la mirra dagli unguenti, perché distillata da una sola pianta. Plauto, Mastell.:

          Vin’unguenta? Quid opus est?
     cum stacta accumbo.

Lo stacte era quintessenza di mirra (Bacio, De conviviis antiq., lib. ni, 12). Poteva quindi Berenice, vergine regale, usare dell’olio schietto di mirra, astenendosi d’unguenti: «Pallade non ama unguenti né alabastri; recatele oglio, o lavatrici» (Callim., Lavacri di Pallade, citati nella nota ai vv. 77-S8). Però le fanciulle, le quali erano sotto la tutela di Diana e di Minerva, non dovevano servire a Venere, che non potè domare col lusso e con gli scherzi amorosi le due vergini dive (Inno a Venere attribuito ad Omero, v. 7 e sg.)

Le unzioni degli eroi di Omero sono parimenti di oglio, e non di unguenti. Plinio nelle prime linee del lib. xiii: «Quis primus invenerit [unguenta] non traditur: Iliacis temporibus non erant, nec thure supplicabatur». So che tutti gli antiquari, e fra gli altri Pietro Servio, nel suo trattato De odoribus, contrasta questo passo di Plinio: ma so altresí che la voce μύρον, «unguento», non si trova negli antichissimi greci, e primo ad usarne fu Archiloco, che visse verso la x olimpiade: e so che Omero non ne parla pur una volta, né Virgilio in tutta l’Eneide, ove tratta de’ tempi iliaci. Parla bensí della mirra, come quella che si conosceva sino da remote etá, perch’era lagrima naturale e semplicemente raccolto da una pianta. Eneide, lib. xiii, v. 97:

 . . . Da sternere corpus,
loricamque manti valida lacerare revolsam
semiviri Phrygis, et foedare in pulvere crines
vibratos calido ferro, myrrhaque madentes.

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Laonde io credo che il μύρον d’Archiloco, voce generale che spiega una materia liquida ed odorosa, derivi dalle voci speciali μύῤῥα, «mirra», preziosa e naturale gomma di una pianta. Cosí dalla voce speciale «vir» vennero le solenni «vis*», «virtus»; «fortis», «fors», «fortuita»: ἀνήρ, «uomo»; ἀνδρεία, «forza»; ἄνξ, «re». E qui notino i politici che «forza», «virtú» e «fortuna» hanno anche in gramatica la stessa radice. Quindi il nome della mirra, cosa preziosa e fragrante, s’applicò alle materie che avevano le medesime qualitá. Non era dunque unguento quello di cui si ungevano le compagne di Elena in Teocrito, e molto meno quello di cui Venere imbalsamò il corpo di Ettore ( Iliad ., xxiii) per farlo incorruttibile; ma era oglio semplice di rosa, immaginato, al mio parere, dal poeta per significare cosa divina e degna degli immortali, come l’ambrosia. Che se presso gli orientali e nei libri piú antichi si legge: «Aaron unguentum capiti affundere solitus, quod in barba descenderet» (Esodo), non perciò prova che * questo non fosse oglio, poiché nei medesimi libri si trova «Impinguasti in oleo caput meum» ( Psalm ., xxii, 5); né che d’altronde* i greci dovessero sin d’allora usarne. Ma che la mirra non fosse fra gli unguenti anche presso gli orientali, e che si distinguesse il culto delle vergini da quello delle spose, si vede chiaramente da quel passo nel Libro di Ester (cap. 11, 12): «Cum venisset tempus singularum per ordinem puellarum, ut intrarent ad regem, expletis omnibus quae ad cultum muliebrem pertinebant, mensis duodecimus vertebatur; ita dumtaxat, ut sex mensibus oleo ungerentur myrrhino, et aliis sex quibusdam pigmentis et aromafibus uterentur». Perocché, essendo riguardate quelle donzelle riserbate al letto del re quali fanciulle regali, ne’ primi sei mesi usavano della semplice mirra come vergini, e negli ultimi sei di unguenti composti come prossime alle nozze. * La meretrice, sí eloquentemente dipinta nella Bibbia, profumava di mirra il suo letto (Liber proverb.,cap. vii, v. 16): «Intexui funibus lectutum vieum, stravi tapetibus pictis ex Aegypto: aspersi cubite meurn myrrha et aloè et cinnamomo. Veni, inebriemur uberibus et fruamur cupitis amplexibus, dome illucescat dies». *


Oserò pur aggiungere una mia congettura, che non ho potuto impetrare da me stesso di abbandonare, tanto io sono convinto che nelle favole degli antichi fosse riposta tutta la teologia, la fisica e la morale di quelle nazioni. Le giovinette, e piú ancora le ingenue e regali, piú facilmente pericolavano negli amori domestici, poiché alla voce soave dell’amore si aggiungeva la ritiratezza con che il [p. 330 modifica] costume le tenea rinchiuse. Però nel loro culto era conceduta la mirra, come per memoria del pudore famigliare e della pietá figliale e fraterna. L’albero, da cui goccia questa gomma, si predicava nato dall’infelice Mirra, la quale, dopo d’avere empiamente compiaciuto degli abbracciamenti del padre al proprio amore, errando fuggitiva ed esecrata, fu convertita in quest’arbore. Ovid., Metam., x, 499:

Quae, quamquam amisit veteres cum corpore settsus,
flet tamen, et tepidae manant ex arbore guttae:
est honor et lacrimis: stillataque cortice myrrha
nomen herile tenel, nulloque iacebitur aevo.

  • Loda Catullo (carme xciii) un poema intitolato Zmyrna, fatica decennale ed accuratissima di Cornelio Elvio Cinna, ottimo fra’ molti poeti di quella etá.

Nam neque adhuc Vario videor, nec dicere Cinna
digna.  Virg., egl. ix, v. 35.

Vedi anche Servio, ivi. E, perché la gomma mirra era da’ greci detta anche σμύρνην, congetturarono gli eruditi che il poema trattasse degli amori infelici della figlia di Ciniro. Questo poema, ad ogni modo, malgrado le lodi di Catullo, di Virgilio e di Servio, peccava di oscuritá, se gli epigrammi di Marziale non mentono: lib. x, epigr. 21. Vide etiam Vulpium, ad carm. xciii Catulli: praecipue Svetonium, De illustr. gram ., cap. xviii, ubi de L. Crassitio sermo.*