Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Il Conte Lasca e Cavolo.

Conte. Oh galantuomo, appunto, giva di voi cercando.

Cavolo. Servo del signor Conte. Eccomi al suo comando.
Conte. Alla conversazione detto mi fu iersera,
Ch’evvi nel vostro albergo un’altra forestiera.
È egli vero?
Cavolo.   Verissimo.
Conte.   È virtuosa anch’ella?
Cavolo. Sì signor.
Conte.   Come stiamo?
Cavolo.   È spiritosa e bella.
Conte. Il paese?
Cavolo.   Firenze.
Conte.   È stata più in Venezia?
Cavolo. Credo di no.
Conte.   Il suo nome?
Cavolo.   La signora Lugrezia.
Conte. Non altro?
Cavolo.   È conosciuta per l’Acquacedrataia.
Conte. Che parolaccia è questa? par di un cane che abbaia.
Cavolo. Non è stato a Firenze?
Conte.   Non ci son stato mai.
Cavolo. Là sono i caffettieri delti acquacedratai;
Fu lor dato un tal nome, perch’essi anticamente
Le bibite cedrate vendean principalmente,
Nata in un tal mestiere sarà la forestiera;
E l’acquacedrataia vuol dir la caffettiera.
Conte. Ho capito: ma adesso che fatta è virtuosa,
Vende l’acqua di cedro, o pur l’acqua di rosa?

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Cavolo. Senza ch’io glielo dica, nol sa vossignoria

Di queste virtuose qual è la mercanzia?
Musica, vezzi e incanti. Un misto praticato
Per acquistar favori in pubblico e in privato.
Conte. Canta bene?
Cavolo.   Cantare non l’ho sentita ancora.
Conte. Si può farle una visita?
Cavolo.   E un po’ troppo a buon’ora.
Conte. Dorme ancora?
Cavolo.   Ho sentito che la signora è desta,
Ma vi vorran due ore, innanzi che sia lesta.
Conte. Vorrà lisciarsi.
Cavolo.   Al solito.
Conte.   Dunque verrò più al tardi.
Fatele l’ambasciata.
Cavolo.   Venga senza riguardi.
Le dirò in confidenza: mi ha fatto il grande onore
Di dirmi, ch’io cercassi trovarle un protettore.
Vussignoria, ch’è solito trattar tali persone,
Può venire a offerirle la sua protezione.
Conte. Protezion se vuole, ne avrà quanta ne chiede.
Ma ingannasi di lungo, se piluccar mi crede.
Pratico virtuose, le assisto e le difendo,
Ma cautamente il faccio e il mio denar non spendo.
Cavolo. Bravo, a questo proposito senta un caso successo
In questa mia locanda, in questo mese istesso.
Un signor Livornese, che generoso aveva
Per una virtuosa speso quanto poteva.
Venendo ad una recita la giovane chiamata,
Giunse qui dal medesimo servita e accompagnata.
Desinarono insieme, e dopo desinato
Dell’acqua per le mani la donna ha domandato.
Prestamente si lava, indi al balcon si appressa,
L’acqua gettando in strada colla sua mano istessa.
Il cavalier le chiede perchè da sè lo faccia;

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Ella lo guarda, e ride, e poi gli dice in faccia:

Partita da Livorno, dove di voi mi accesi.
Getto via la memoria di tutti i Livornesi.
Il cavalier stordito scopre il sofferto inganno;
Parte, e partendo esclama: donna crudel, mio danno.
(parte)
Conte. La donna io non condanno, che fece un simil tratto.
Se non nella maniera aspra con cui l’ha fatto.
Per altro le persone use a cambiar paese,
A cambiar sono pronte una passione al mese.
E non è poca sorte il poter dir: la tale.
Finchè a me fu vicina, fu nell’amarmi eguale;
O almeno seppe fìngere un cor sincero e grato,
Onde con essa il tempo non ho male impiegato.

SCENA II.

Carluccio e detto.

Carluccio. Servo del signor Conte.

Conte.   Carluccio, vi saluto.
Ben tornato da Genova. Quando siete venuto?
Carluccio. Arrivai questa mane.
Conte.   La recita andò bene?
Carluccio. Più a Genova non mi tirano1 nemmen colle catene.
Conte. Perchè?
Carluccio.   Quell’impresario meco ha sì mal trattato.
Che se mai più ci torno, vogl’esser bastonato.
Io solo ho sostenuto col mio cantar l’impresa.
Tutti la mia, dicevano, voce dal ciel discesa;
E l’avido impresario, con ruvide maniere,
Obbligarmi voleva cantar tutte le sere.
Io, della prima donna perduto innamorato,
Cantar non avea voglia, quand’era disgustato,

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Ed ei che lo sapeva, in luogo d’esentarmi.

Per onta e per dispetto, cantar volea sforzarmi.
Sentite cos’ha fatto quel perfido impresario!
Ogn’aria ch’io lasciavo, scemava il mio onorario,
Onde per non ridurmi a cantar per niente,
Con sì barbara legge cantai continuamente.
Conte. Se i musici da tutti fosser così trattati,
Oh quanto sarian meno svogliati o raffreddati.
Un galantuom va a spendere il suo danar, credendo
Goder la bella voce del musico stupendo,
Ed ei, perchè la bella non l’ha guardato in cera,
Dice: mi sento male, non vo’ cantar sta sera.
Corbella l’uditorio in grazia della vaga,
E l’udienza scema, e l’impresario il paga.
Carluccio. Questa ragion non serve con un della mia sfera;
Non vanno i pari miei trattati in tal maniera.
Canto quando ne ho voglia, e canto a mio talento,
E una volta che canti, ha da valer per cento.
Conte. Se farete così, Carluccio mio garbato,
Pochissimo sarete a recitar chiamato.
Carluccio. Io non cerco nissuno; sostengo il mio decoro.
Bisogno han gl’impresan più di me, ch’io di loro.
Conte. Voi siete, a quel ch’io sento, carico di ricchezze;
Avete in poco tempo fatto di gran prodezze.
Carluccio. Sono ancor giovanetto, ricchezze ancor non ho;
Ma coll’andar dei giorni, ricchezze anch’io farò.
Conte. Or come state a soldi?
Carluccio.   Ora non ho un quattrino,
E ho lasciato il baule in pegno al vetturino.
Conte. Bella, bella davvero. Siete ancora spiantato,
E a strapazzar le imprese avete principiato?
Acquistatevi prima dei fondi e dei danari.
Poi fate quel che fanno i musici primari.
Allor potete dire, se di voi fama vola,
Costa mille zecchini un’arietta sola,

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E vuò sopra il teatro cantar quando mi piace,

E chi sentir mi vuole, ha da soffrirlo in pace;
Ma senza aver fra i primi concetto e abilità,
Se fate l’arrogante, nessun vi prenderà.
Carluccio. Dicami, signor Conte, avrebbe l’occasione
Di qualche buon negozio per la mia professione?
Conte. Volete andar a Mantoa?
Carluccio.   a Mantoa? perchè no?
Ma per primo soprano.
Conte.   E per secondo?
Carluccio.   Oibò.
Conte. Il primo è già fermato, e so che questi è uno
Di quei di prima sfera.
Carluccio.   Io non cedo a nissuno.
Conte. Ma se non vi è di meglio, volete il carnovale
Rimaner senza recita? Le cose andranno male.
Carluccio. Quanto danno di paga?
Conte.   So che l’anno passato
Al secondo soprano cento zecchini han dato.
Ma quest’anno...
Carluccio.   Se vogliono darmene almen trecento.
Accetterò la recita per mio divertimento.
Conte. Quest’anno, io vi diceva, han della spesa tanta,
E passare non possono i cinquanta o i sessanta.
Carluccio. Vadan per questo prezzo a contrattar somari;
Per sessanta zecchini non cantano i miei pari.
Conte. Dunque starete a spasso?
Carluccio.   Mi spiacerebbe assai.
Conte. Li volete i sessanta?
Carluccio.   No, non lo farò mai.
Tutto quel che far posso, per non tenervi in tedio,
Son duecento zecchini. Andiam.
Conte.   Non v’è rimedio.
Del secondo soprano quest’è l’assegnamento.
Carluccio. Voglio cantar per niente; che me ne dian sol cento.

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Conte. Inutile è il parlarne.

Carluccio.   Che me ne diano ottanta.
Conte. Non vi è caso.
Carluccio.   Cospetto! anderò pei sessanta;
Ma voglio una scrittura con arte simulata
Di trecento zecchini per onor mio firmata.
Conte. Sì, ma accordar dovete siavi un zecchin levato,
Ogni volta che dite di essere raffreddato.
Carluccio. Vo’ cantar quando voglio.
Conte.   Non si fa più il contratto.
Carluccio. Via, per lei, signor Conte, canterò ad ogni patto.
Conte. Bravo! il vostro onorario sarà sicuro e pronto.
Carluccio. Non si potrebbe avere qualche denaro a conto?
Conte. Scriverò all’impresario.
Carluccio.   Ella non ha quattrini?
Conte. Non son io quel che paga.
Carluccio.   Mi presti due zecchini.
Conte. Vo da una virtuosa, e poi ne parleremo.
Carluccio. Se mi fa questa grazia...
Conte.   Sì, sì, ci rivedremo.
(entra nella locanda)
Carluccio. Che caro signor Conte! Teme ch’io non li renda?
Due miseri zecchini sono una gran faccenda?
È una somma leggiera, ch’io non stimo niente,
E quando ne guadagno, li spendo allegramente.
È vero che ho dei debiti, ma un dì li pagherò:
Col tempo e colla paglia anch’io maturerò.
Se vado in Portogallo, se vado in Alemagna,
Porterò via un baule di dobloni di Spagna;
E tornerò in Italia a fabricar palazzi,
E porterò alle scarpe le fibbie coi topazzi,
E cambierò ogni giorno un abito guarnito,
Pieno di tabacchiere, e di brillanti in dito.

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SCENA III.

Pasqualino e detto.

Pasqualino. Carluccio, per l’appunto, giva di voi cercando.

Carluccio. Eccomi, Pasqualino! Sono al vostro comando.
Pasqualino. Avete alcuna recita pel carnoval venturo?
Carluccio. Ho dei trattati molti; ma nessun di sicuro.
M’han scritto da Torino, mi han scritto da Milano,
Son stato ricercato da un principe germano;
Ma senza una gran paga non vuò sagrificarmi,
E ho forse per quest’anno idea di riposarmi.
Voi andate a cantare?
Pasqualino.   Di certo ancor nol so.
Ma se si accorda un punto, anch’io mi accorderò.
Carluccio. Fatevi pagar bene. Fate com’io far soglio;
Sei, settecento doppie, e cantar quando voglio.
Pasqualino. Affé, le buone paghe a questi dì son rare;
Per non istare in ozio tutto convien pigliare.
Pel carnoval di Mantova, mi ha offerto un cavaliere
Zecchini ottantacinque, i viaggi ed il quartiere.
Carluccio. (Più di ottanta a un tenore, e ad un sopran sessanta?
Che impertinenza è questa! No, Carluccio non canta).
Pasqualino. Ieri mi fu proposto, se avea difficoltà
Con altri virtuosi d’unirmi in società,
E prendere un teatro, e far le spese noi,
E tentar la fortuna.
Carluccio.   Fatelo, son con voi.
La mia voce in Venezia ancora non s’intese;
M’impegno, se mi sentono, si spopola il paese.
Faccio stupire il mondo, se a faticar mi metto;
Al doppio si può crescere il prezzo del viglietto.
Non preme, se i compagni non valesser un fico.
Posso bastar io solo. So io quel che mi dico.
Per empiere il teatro basta la mia persona,
Quando fosse il teatro la Rena di Verona.

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Pasqualino. Io pur, voi lo sapete, se nel cantar son abile.

Carluccio. Sì, sì, non mi scontento. Siete un tenor passabile.
Pasqualino. Passabile soltanto?
Carluccio.   Per far la sua carriera
Cantare è necessario con un della mia sfera.
Ma però del mio merito non se ne trovan più.
Io vinco i più provetti nel fior di gioventù.
Pasqualino. Basta; se voi volete unirvi in compagnia...
Carluccio. Sì! ma al doppio degl’altri vogl’io la parte mia.
Pasqualino. Per qual ragion?
Carluccio.   Per quella ragion chiara ed aperta,
Che dee darsi mai sempre più lucro a chi più merta.
Pasqualino. Voi meritate assai, se è ver ciò che vantate;
Dunque miglior ventura a procacciarvi andate.
Carluccio. Orsù, non son mai stato avido di danari.
Canterò come gli altri, profitterem del pari.
E per farvi vedere ch’io non parlai con arte,
Per duecento zecchini vi vendo la mia parte.
Pasqualino. Siete assai liberale, ma io sarei contento,
Se per la parte mia me ne toccasser cento.
Carluccio. Nasca quel che sa nascere, per questo io non m’imbroglio,
Ma vogl’io far le scritte, e comandar io voglio.
Pasqualino. Bene; ma di tai cose colui ch’è incaricato.
Deve sborsar, se occorre, denaro anticipato.
Carluccio. Quattrini a me non mancano. Saprò, se è necessario,
Pagare innanzi tratto l’orchestra ed il vestiario.
Ma voglio esser chiamato il capo dell’impresa,
E s’ha quel ch’io comando da far senza contesa.
Pasqualino. Se oltre della fatica, rischiate il capitale,
Tutti noi vi diremo il nostro principale.
Io che sono il tenore, son pronto a venerarvi,
E di voi prevalendomi, principio a incomodarvi:
Per fare i stivaletti, per fare il guardinfante,
Per gioje, penne et cetera, bisogno ho di contante.

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E a conto della parte, che un di potrà toccarmi,

Otto o dieci zecchini vi prego anticiparmi.
Carluccio. Qual è la prima donna, che pensasi d’avere?
Pasqualino. Il capo a suo talento la potrà provvedere.
Posso sperar la grazia che ora vi ho domandata?
Carluccio. So che una virtuosa al Gambero è alloggiata.
Vo’ che andiamo a sentirla.
Pasqualino.   Rispondetemi a tuono.
Siete capo, o non siete?
Carluccio.   Io son quello che sono.
Un musico mio pari non degna framischiarsi
Con que’ che onorerebbe, se osasse di abbassarsi.2
Io tengo il mio danaio sui banchi principali;
Ne vuò per un’impresa scemare i capitali.
Voi cantar siete soliti per l’oro e per l’argento.
Io canto quando voglio per mio divertimento.
(parte)
Pasqualino. Chi non lo conoscesse il povero sguaiato?
Credo ch’ei mi prevalga nell’essere spiantato:
E so ch’egli vorrebbe l’onor di comandare,
Alfin d’esser il solo la cassa a maneggiare.
Oggi chi ha di cantare voglia o necessità,
Costretto è per il solito d’unirsi in società;
E spesso la fortuna poco ai teatri amica,
Fa che si perda invano il tempo e la fatica.
Siam troppi, e quel ch’è peggio, i buoni non son tanti,
E il gusto si raffina, e calano i contanti.
E quando non recluta Lisbona o l’Alemagna,
Pel ballo e per la musica finita è la cuccagna.
(parte)

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SCENA IV.

Camera di locanda.

Lucrezia e Cavolo.

Lucrezia. In quest’appartamento non voglio intisichire:

Cambiatemi le stanze, o me ne voglio ire.
Cavolo. Ho preteso di darle le camere migliori;
Le ho sempre riserbate per dame e per signori.
Son fornite, mi pare, con molta proprietà;
S’ella non è contenta, di meglio non avrà.
Lucrezia. Le camere son buone, di ciò non dico nulla;
Ma codeste finestre non vagliono una frulla.
Se un micolin m’affaccio, mi sento venir male;
Mi stucca e mi ristucca la vista del canale.
Cavolo. Mi stucca e mi ristucca, in grazia, che vuol dire?
Lucrezia. Vol dir, che dalla noia mi sento riffinire,
E che s’io ci dovessi star da mattina a sera,
Parrebbemi d’avere d’intorno la versiera.
Cavolo. Quel ch’ella dir intende, per discrezion capisco;
Ma se mi dà licenza, signora, io l’avvertisco
Meco non adoprare le voci fiorentine;
Le intendo come intendo le greche e le latine.
Lucrezia. Voi siete, a quel ch’io sento, un camerier baggiano;
E chi è che non capisca il favellar toscano?
Cavolo. Il toscan si capisce. Parlo toscano anch’io,
Come a parlare appresi facendo il mestier mio.
Ma vi son certi termini usati dai Toscani,
Di cui sono all’oscuro moltissimi Italiani.
Per esempio a Firenze la robba ch’è comprata
Pel vitto o pel vestito, si dice la derrata.
Noi diciam catenaccio, voi dite chiavistello;
Voi dite a un omo sciocco, baggiano, ovver baccello;
Da noi quel che voi dite, non si capisce appieno,
E quelli che v’imitano, s’intendono ancor meno.

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Intesi una commedia fatta da certo autore,

Che a forza di riboboli credea di farsi onore;
Ma in questo, mi perdoni, ebbe poco giudizio;
La macchina ingegnosa è andata a precipizio.3
Si scusò poi dicendo, che a ciò fu stimulato
Da quei che lo suo stile avevan criticato,
E che intendea con questo illuminar gli stessi
Che s’ei non fu capito, perdono il tempo anch’essi;
Ma in avvenire usando versi rimati o sciolti,
Senza badare ai pochi, vuol compiacere ai molti.
Lucrezia. Con questa cantifera voi mi avete seccato.
Da queste stanze buie vo’ partir diviato.
Son venuta a Venezia per far la mia figura,
Non per infradiciarmi in mezzo a quattro mura.
Se affacciomi al balcone, acqua vegg’io soltanto.
Chi ha a saper ch’io ci sono, chi ha da sentir s’io canto,
Sopra di qualche piazza, o sulla via maestra,
Io voglio una ringhiera, o almeno una finestra.
Cavolo. Non dubiti, che senza l’aiuto del balcone,
Potrà, quando ne voglia, aver conversazione.
Con certo signor Conte ho già di lei parlato,
Che per le virtuose moltissimo è portato.
Parlai con certo Nibbio, ch’è un direttor valente
D’opere musicali, che impiega molta gente.
Se brama divertirsi, aver può compagnia;
Non dubiti in Venezia trovar melanconia:
Andar può mascherata, se in casa ella si attedia,
In piazza ad un caffè, la sera alla commedia.
Vedrà vari teatri forniti a sufficienza,
Che a forza di fatiche si rubbano l’udienza.
Le novità fioriscono in questo ed in quel loco;
Ma la torta è divisa, e per ciascuno è poco.
Han battuto, mi pare.

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Lucrezia.   Che parlare sguaiato.

Non si dice han battuto, si dice hanno picchiato.
Cavolo. Vi è fra il picchiare e il battere, in grazia del linguaggio,
La varietà che passa fra il cascio ed il formaggio.
Ella parla a suo modo, io come piace a me.
Con licenza, signora. Vado a veder chi è. (parte)
Lucrezia. Parlano all’impazzata. Alfine, dalli, dalli,
Quei che non son toscani, son tutti papagalli.

SCENA V.

Conte Lasca e detta, poi Servitore.

Conte. Servo della signora.

Lucrezia.   Serva sua riverente.
Conte. Domandovi perdono, s’io vengo arditamente.
Io sono il conte Lasca, galantuom, di buon core;
Vi sarò, se il gradite, amico e servidore.
Lucrezia. Anzi, mi ha fatto grazia il signor cavaliere.
Ehi, chi è di là?
Servitore.   Signora.
Lucrezia.   Dateci da sedere.
(servitore dà da sedere, e parte)
Conte. Voi siete di Toscana?
Lucrezia.   Nata son fiorentina.
Conte. Lucrezia è il vostro nome?
Lucrezia.   Si signore, Crezzina.
Conte. Cantaste in nissun loco?
Lucrezia.   A Pisa ho principiato.
Fermarmi per Livorno volevan diviato,
Ma poichè d’uscir fuori mi venne fantasia,
Desidero in Venezia cantare, e in Lombardia.
Conte. Se volete una recita voi siete in buone mani;
Spero di ritrovarvela forse pria di domani.
Fra gente di teatro ho molti amici cari.
Conosco per l’Italia moltissimi impresari.

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Trovar quel che bisogna per voi non mi confondo;

In Venezia fra l’altre conosco mezzo mondo.
Lucrezia. Ho piacere che abbiate di molte conoscenze4,
Avrò d’incomodarvi moltissime occorrenze.
Calzolai, parrucchieri, ne conoscete alcuno?
Conte. Davver, di questa gente non conosco nessuno.
Lucrezia. Vorrei un calzolaio, vorrei un parrucchiere.
Nè so di chi valermi.
Conte.   Ditelo al locandiere.
Lucrezia. Chi vi assetta, signore?
Conte.   Assetta? Non capisco.
Lucrezia. Chi vi accomoda il capo?
Conte.   Dirò, mi divertisco.
Faccio da me ogni cosa.
Lucrezia.   Le scarpe ancor vi fate?
Conte. Le scarpe no.
Lucrezia.   Quel mastro che ve le fa, mandate.
Conte. Il calzolaro mio per donne non lavora.
Lucrezia. (Affé di mio, ci ho dato).
Conte.   (Non mi conosce ancora).
Spero che un’occasione in carnoval verrà.
Da poter impiegare la vostra abilità.
Ditemi: cosa siete? soprana ovver contralta.
Lucrezia. Soprana.
Conte.   Mi piace. Il sopran più risalta5.
Spero che all’apparenza il merto corrisponda;
A Pisa recitaste da prima, o da seconda?
Lucrezia. Era la prima volta che uscia fuor della buccia;
Quel babbeo d’impresario mi diede una partuccia.
Ma quando mi sentiro, m’ebbero in tanta stima.
Che andò sotto le tavole il merto della prima.
Quando gli altri cantavano, facevano il baccano;
Finite l’arie mie, battevano la mano.

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E ancor se la ricordano quell’aria così bella:

Spiegando i suoi lamenti sen va la tortorella.
Conte. Di sentir quest’arietta poss’essere graziato?
Lucrezia. Vi servirei, signore; ma il cembalo è scordato.
Conte. Che importa? Senza cembalo sentirvi io mi contento.
Lucrezia. Oh questa è madornale! cantar senza istrumento?
Credete, signor Conte, ch’io sia di quella razza,
Che va cantando all’aria le canzonette in piazza.
Conte. Capperi! siete calda? in collera montate?
Son vostro servitore, cantiate o non cantiate!
Ma io per vostra regola stimo le virtuose.
Che con i galantuomini non fan le preziose.
Lucrezia. Oh, io non son di quelle. Per compiacer son nata.
Conte. Contentatemi dunque.
Lucrezia.   Davver son raffreddata.
Conte. Brava, me l’aspettavo. La consueta scusa,
Che dalle virtuose spessissimo si usa.
Ma il raffreddor, per solito, che in più di lor prevale,
È che non san la musica, o cantano assai male.

SCENA VI.

Nibbio e detti.

Nibbio. Riverente m’inchino al merto di madama.

Servo del signor Conte.
Lucrezia.   Quest’uom come si chiama?
Conte. Questi è Nibbio, signora! un galantuom provato.
Direttor de’ teatri, famoso e rinomato.
Nibbio. Bontà del signor Conte.
Lucrezia.   Il locandier diceva,
Che un certo direttore conoscermi voleva.
Siete voi forse quello?
Nibbio.   Son io, per obbedirla,
In ogni congiuntura disposto per servirla.

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Conte. Amico, vi assicuro, questa è una virtuosa.

Che ha un merito infinito e voce portentosa.
Sotto i miglior maestri la musica ha imparata,
E quel ch’è da stimarsi, non è mai raffreddata.
Nibbio. Quest’è un buon capitale.
Lucrezia.   La voce mia è di petto.
Conte. È un campanel d’argento, senza verun difetto.
Nibbio. Quand’ella l’ha sentita, di ciò son sicurissimo.
Conte. Canta, ve l’assicuro, d’un gusto esquisitissimo.
Lucrezia. (Mi loda o mi corbella?)
Conte.   Eh, non è già di quelle
Che cercano agli amici di scorticar la pelle.
Le esibii il parrucchiere per farle una finezza,
Ella lo ha ricusato per sua delicatezza.
Lucrezia. (Ti venga la rovella, chiacchieron6 maledetto).
Nibbio. Si farà in questo modo un ottimo concetto.
(al Conte)
Conte. Che sì, che messer Nibbio venuto è a ritrovarla,
Perchè gli è capitata occasion d’impiegarla?
Nibbio. Può darsi.
Lucrezia.   Se una recita mi offrisse decorosa,
Non sarei sconoscente.
Conte.   So io che è generosa.
Nibbio. Per dir la verità, ieri mi è capitato
Incontro che può dirsi stupendo e fortunato.
Non voglio che si penetri. Di tutti io non mi fido.
A lei e a questa giovane soltanto lo confido.
Ma silenzio.
Conte.   Non parlo.
Lucrezia.   Segreta esser mi vanto.
Conte. Credetelo, signore, è una donna d’incanto.
Ditemi in confidenza quel che dir volevate;
Ditelo prestamente.

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Nibbio.   Ve Io dirò: Sappiate

Che un Turco dalle Smirne, famoso negoziante,
Colla propria sua nave venuto è di Levante;
E certi amici suoi, per arte ovver per ozio,
Gli hanno cacciato in testa di far un buon negozio.
Gli han detto che alle Smirne vi son tanti Italiani
E Francesi ed Inglesi e Portoghesi e Ispani
Senza divertimento, e che non faria male
Chi colà conducesse un’opra musicale.
Il Turco galantuomo, che non è punto avaro,
Disse che volentieri impiegheria il danaro;
Ma di ciò non è pratico, e a dirla in confidenza,
Di ritrovare i musici ho avuta l’incombenza.
Credo sicuramente, che i primi che v’andranno,
I sacchi di zecchini di là si porteranno.
Ed io del signor Conte professo tanta stima.
Che la sua virtuosa voglio che sia la prima.
Lucrezia. Ah caro signor Nibbio, fatelo di buon core.
Conte. Vedete che vuol dire aver me in protettore? (a Lucrezia)
Lucrezia. (Eh sì, sì, di parole piuttosto è generoso).
Conte. Nibbio, sollecitate. Il tempo è periglioso.
Se avete autorità di farle la scrittura.
Accordiamo nel prezzo, e fatela a drittura.
Nibbio. È ver che l’impresario si vuol fidar di me,
Ma vuò che la signora venga a sentir da sè;
E vuò che senta ognuno, prima che sia fermato,
Perchè un giorno non dica, ch’io l’ho trappolato.7
Credo che della musica non abbia intelligenza,
Ma voglio soddisfarlo almen coll’apparenza.
Conte. Bravo, così mi piace. Conducetelo qua;
Canterà la signora senza difficoltà.
E stupirà sentendo quell’aria così bella:
Spiegando i suoi lamenti sen va la tortorella.

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Lucrezia. (Or or mi fa venire il moscherin davvero).

Nibbio. Vado a veder sel trovo, e di condurlo io spero.
Lucrezia. Se voi lo condurrete, sarà bene accettato,
Ma spiacemi d’avere il cembalo scordato.
Mi mandi un cembalaro il signor protettore.
Conte. Sì, ad accordare il cembalo manderà il direttore.
Io non ne sono pratico. Egli di ciò s’intende.
Servite la madama. (a Nibbio)
Lucrezia.   E in ciò quanto si spende? (al Conte)
Conte. Io non lo so, signora. Nibbio sarà informato,
E non vi farà spendere di più del praticato.
Lucrezia. (Spilorcio cacastecchi).
Nibbio.   È cosa da niente,
La farò da un amico servire immantinente.
L’affar di cui si tratta, sollecitar vorrei.
Perchè s’egli ci pensa, s’egli ci dorme su,
Dubito che si penta, e non ne voglia più.
Un negozio migliore non ebbi a tempo mio.
Per direttore d’opera spero imbarcarmi anch’io.
Se le cose van bene, fra incerti e l’onorario
Torno ricco in Italia, e faccio l’impresario.
Chi del teatro il gusto un qualche dì ha provato,
Non sa da lui staccarsi finchè ha denari e fiato.
Ed io se al fin dei conti burlato resterò,
Con niente ho principiato, con niente resterò. (parte)
Conte. Signora, mi consolo d’avervi procacciata
Così buona occasione.
Lucrezia.   Sì, gli sono obbligata8;
Ma non so ben, se tutto venga il favor da lei.
Conte. Perir voi non potete sotto gli auspici miei.
Voglio trovare il Turco, voglio saper cos’è.
Farò il vostro negozio. Fidatevi di me.
Lucrezia. Son certa, mio signore, della sua gran bontà:
Mi ha in tutto favorita senza difficoltà.

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Belle scarpe mi ha fatto il di lei calzolaio.

Conte. Doman simili a quelle ne avrete un altro paio, (parte)
Lucrezia. Oh che ti venga il fistolo! Che protezion sguaiata!
Mi avesse fatto almeno portar la cioccolata.
Per quanto ch’io lo tenti, sta forte allo scongiuro;
Di questi protettori, affé di mio, non curo.
Codesti parolai son gente che ributtano,
E in casa mia non voglio galline che non fruttano.
Basta, se andrò alle Smirne, troverò ben di quelli,
Che passar colle donne non sogliono per belli.
È ver che nella musica non son molto valente,
Ma posso in conversare passar per eccellente.
Con grazia, onestamente, so gli uomini obligare;
E so pelar la quaglia senza farla gridare.


Fine dell’Atto Primo.

  1. Così il testo. Forse è da leggere Genoa.
  2. Questo secondo verso del distico leggesi nell’ed. Antonelli di Venezia (1831), probabilmente aggiunto dal correttore; manca, per difetto di stampa, nelle edizioni del Settecento.
  3. Allude l’autore alla Scuola di ballo
  4. Così l’ed. Antonelli. Nell’ed. Savioli: abbiate molte ecc.
  5. Così il testo.
  6. Nel testo: chiachiaron.
  7. Così il testo.
  8. Così l’ed. Antonelli. Nell’ed. Savioli leggesi; Sì, gli son ben obbligata.