L'impostore/Lettera di dedica

Lettera di dedica

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L'impostore L'autore a chi legge
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ALL'ILLUSTRISSIMO

SIGNOR CONTE


S
E mai ho desiderato di possedere lo stile vostro, valorosissimo Signor Conte, ora è certamente che lo desidero più che mai, intraprendendo d’indirizzare a voi una mia lettera, che non da Voi solamente, ma dal Pubblico sarà letta. Ma come e da chi imitata può essere la maniera vostra di scrivere, la quale conserva sì bene il buon gusto del fraseggiare de’ migliori Scrittori antichi Italiani, ed ogni difetto de’ tempi loro evitando, gratissima riesce ai più delicati moderni? Facendo leggere il mio Cavalier di buon gusto, gli pongo in mano un Tomo delle vostre Lettere2, giudicando io che niente di più grazioso, e di più saporito, e di più brillante possa leggersi in tal materia. In questo nostro secolo entrato è il baco di stampar lettere a chiunque sa tenere la penna in mano3. Ve ne sono delle dottissime, dell’utili, e delle amene; ma mi perdonino tutti gli altri, non leggonsi delle vostre le meglio scritte; nè solamente nelle parole consiste il merito loro, ma voi, che siete un accuratissimo osservator degli antichi, succhiate il meglio de’ Greci e de’ Latini Scrittori, e col criterio vostro, e colla vostra ammirabile facilità, le massime, le verità, le dottrine spargete a dovizia ne’ fogli vostri.

Eppure scrivere mi converrà collo stile mio dal vostro così lontano, poichè parmi più acconcia cosa seguire ciò che la natura mi detta, anzichè, o per fare ad altri la corte, o per vanità di far meglio, imitare stentatamente l’altrui maniera. La stessa regola prefissa mi sono nella costruzione delle mie Commedie. Non ho [p. 112 modifica]cercato imitare nè i Greci, nè i Latini, nè i Francesi, nè gli Spagnuoli, ne gl’Italiani nostri medesimi, ma fissando la meta nella verità e nella ragione, mi sono condotto poi per quella via, per dove la natura mi ha trasportato. Vedrete nelle medesime Commedie mie, che non ho nemmeno talvolta imitato me stesso, voglio dire che non si somigliano fra di loro moltissimi de’ parti miei, alcuni de’ quali parrà a taluno incredibile che derivati sieno dalla medesima testa, e scritti sieno dalla medesima penna. Ciò vuol dire che a tenore degli argomenti la natura mi conduce per diverse strade, ed io la seguito ciecamente, talora senza promettermi nulla del fine dell’opera, e sempre incerto dell’esito e del destino. In due maniere parmi che riuscir si possa nell’arte comica: o arrischiando per se medesimi una maniera che possa credersi bene accetta4. Terenzio ha seguitato onninamente la prima strada; Plauto pare abbia fortunatamente la seconda tentata. Io di quest’ultimo ho avuto il genio, ma non il merito, ond’è, che a mezza via restando, non posso sperare di ascendere a quell’alto grado in cui sono i valenti uomini collocati.

Voi, eruditissimo Signor Conte, siete anche in quest’arte un valentissimo imitator degli antichi: il vostro Edipo non solo imita quello di Sofocle, ma lo supera di gran lunga nella catastrofe e nel movimento delle passioni. Le varie Commedie vostre, tessute colle regole de’ buoni autori, eterna lode vi acquisteranno presso gli uomini illuminati, e tanto migliori sono, quanto meno dal volgo intese. Ecco perchè ho voluto io arrischiare qualche cosa d’indipendente da’ Maestri dell’arte, per guadagnarmi il popolo; e se alcuna delle Commedie mie conserva in parte o in tutto le buone regole, ciò non è perchè io le abbia volute osservare, ma perchè la natura se ne è servita, per condurre a ragionevole fine quella tal favola disegnata. In fatti, chi ha insegnato ai primi autori le regole? La Natura; e questa natura non è la medesima sempre? Certo che sì. Il punto sta che non opera egualmente in tutti, perchè quelle disposizioni mancano, che nel secondarla [p. 113 modifica]son necessarie. Dunque chi opera con le leggi va più al sicuro; ma queste leggi convien conoscerle, come da voi son conosciute, e conviene avere il talento che avete voi, e studiare quanto voi avete studiato, e conoscere siccome voi conoscete.

Parmi ora vedervi cacciar con dispetto il libro che contiene questa mia lettera, fra i vostri libri qua e là per lo studiolo vostro confusi. So che la vostra modestia aborrisce le lodi, come le api il fumo, e chi vi vede andar per via in aria umile e dimessa, non giudicherà esser Voi quel gran Letterato che siete, in mezzo a tanti che per il poco che sanno, e molto più per quello che credono di sapere, gonfi sen vanno, e pettoruti, e alteri, volgendosi qua e là ad ogni passo, per eccitare gli ammiratori del loro merito alle riverenze e agli omaggi.

Voi però siete molto ben conosciuto dalle persone che contano nella Repubblica Letteraria, e il nome vostro è più noto all’Italia di quello che voi credete, potendovelo io assicurare; poichè menando io la mia vita in giro, sentovi da per tutto conosciuto e stimato, e dell’opere vostre da per tutto parlasi con applauso e venerazione. Voi non siete solito uscire dalle lagune nostre, e avete ragione di essere di loro contento, poichè l’amore e la stima avete de’ principali Soggetti, che onorano la Patria nostra non solo, ma l’Italia tutta. Basta dire, per gloria vostra, che vi ama, ed apprezza, e familiarmente vi tratta Sua Eccellenza il Signor Cavaliere Marco Foscarini, Procurator di San Marco, stella luminosissima del Veneto Senato, piena di tanta scienza, e di tante eroiche virtù, che desta in tutti l’ammirazione ed il rispetto, e mentre va di sua mano tessendo encomi ai più celebri Veneti Autori5, sorpassa tutti nel merito, ed a se stesso forma eterna corona. Questi sono quei Mecenati che onorano un Letterato; non l’aura popolare, non la fortuna, ed io mi attaccherei ben volentieri al lembo del vostro positivo mantello, per istarmi con esso voi di soppiatto in così amabile conversazione.

Permettete però alla sincerità mia il poter dirvi, che di una [p. 114 modifica]cosa sola il mondo di Voi si lagna; pare a quelli che amano le cose vostre, che siate un po’ scarsuccio nel pubblicarle. Non è già che alcuno sospetti a voi rincrescere la fatica, mentre si sa che non faticano nello scrivere i pari vostri, ma credesi in voi prevalere la massima di far poco, per timore di non far bene. Che se ciò fosse, fareste un torto a voi stesso, e un pregiudizio notabile al mondo tutto, di che vi prego io, in nome di tanti, riparare il danno, e maneggiare assai più quella benedetta penna che perle e gemme sui fogli imprime, e le anime di chi li legge consola. I saggi che dati avete delle traduzioni del Greco, ci lusingano che opere ci darete in tal materia complete, ed i librai stanno a braccia aperte aspettandole.

Se voi aveste scritto quanto ho fatt’io, felice il mondo, che più volumi avrebbe di cose buone, e da me non può sperare che cose frivole e scherzose. Ecco qui il frutto de’ poveri miei sudori: leggete per carità questa Commedia mia, che ha l’Impostore per titolo, e compassionate il destino, che mi ha condannato ad un tal mestiere. Vengo ora a dirvi il motivo che a scrivervi questa Lettera mi ha condotto, avendo fatto sinora come coloro, che andando a consigliarsi sur un articolo d’economia o di coscienza, principiano sì di lontano, che si scordano a mezza via il proposito che li ha condotti. Doveva dirvi sin da principio: dirizzo a voi questa Commedia mia, perchè non solo il giudizio vostro sopra di essa voi pronunciate, ma perchè coll’autorità vostra vogliate graziosamente difenderla e accreditarla. L’ho detto un po’ tardi, egli è vero, ma lode a Dio, non ho gettate sinora le mie parole in vano, cose parendomi avere scritto fin qui, che vere sono, e giustissime, e non di laude indegne.

Parmi ora vedervi fare uno di que’ vostri dolci sorrisi, e vi odo quasi dire fra voi medesimo: Che vuol ch’io faccia Goldoni di una Commedia sua? Se è buona, buon prò gli faccia; avrà dal mondo quelle lode ch’ei cerca; ma se è cattiva, non la difenderò certamente, repugnando la sincerità mia a tutto ciò che sente d’adulazione, o d’impostura. Voi parlate arcibene, poichè tale è il carattere vostro, e con tutto ciò io vi dedico l’Impostore. [p. 115 modifica]Ma non vi è male; prima di tutto, si sa che i titoli non hanno niente che fare colle persone alle quali le Commedie sono dirette, e se pur pure si vuole che anche il titolo riesca grato, a voi dovrebbe esser gratissimo quello dell’Impostore, supponendolo, come egli di fatto è, smentito, svergognato e deriso.

Ma un’altra cosa vi farà sorridere un poco più, allora quando cioè osserverete, che la Commedia che a voi indirizzo è senza donne, come se foste Voi meno amico di quel che siete del loro sesso; vero è che anche di questo sapete distinguere, come delle scienze, il meglio, e data prova ne avete nello scegliervi la consorte, dotta, saggia, erudita, di dolcissimo estro poetico qual voi ripiena: notissimo essendo nella Letteraria Repubblica il nome della Signora Contessa Luigia Bergalli Gozzi, e le sue poesie, e le sue traduzioni onorano il di Lei sesso e la Patria nostra. Gentile siete poi ed ameno nelle graziose conversazioni, le quali vengono dalle belle virtuose Donne condite, e vi parrà strano non solamente che a voi una Commedia senza donne io esibisca, ma che io medesimo, senza un sì bell’ornamento, siami indotto a comporlo.

Tutte le cose che dagli uomini si fanno, una ragione hanno ed un fine per cui son fatte; udite dunque la ragione ed il fine, per cui ho voluto una Commedia senza donne comporre.

In tutti i Collegi, che diretti sono dai sapientissimi Padri della Compagnia di Gesù, esercitano essi gli esperti giovani nelle sceniche azioni, gravi Tragedie ed oneste Commedie facendo loro rappresentare; il che molto giova per addestrare nella vita civile la Gioventù, e solleva gli animi dallo studio increscevole, con un altro studio più lieto. Vuole però un’antica costituzione, che donne non appariscano sui teatri loro, da che ne viene che essi scarseggiano di cose nuove.

Abbonda in oggi più che mai di peregrini talenti la venerabile Compagnia, e nelle sode dottrine non solamente, ma nella Poetica facoltà gli ozi loro impiegando, operette escono sì gentili dalle Gesuitiche penne, che invidia fanno a quant’altri in cotal genere si van provando. Nelle Tragedie e nelle Commedie ancora riescono [p. 116 modifica]mirabilmente, ma il farle senza le donne costar dee loro non poco di pena. Quindi è che da varj Collegi, ne’ quali si leggono e compatite sono le opere mie, e si rappresenterebbono ancora, se senza le donne fossero, ricercato fui di alcuna comporne per uso loro. Resistei lungo tempo, ma non potei più farlo alle dolcissime insinuazioni del valorosissimo Padre Roberti nostro, che nei Collegi degnissimi di Bologna insegna con tanto profitto alla gioventù, e si distingue fra gli altri in ogni genere di sapere.

Assicurarmi non posso che questa tale Opera mia, a tal fine diretta, sia poi degna di essere dagli egregi Convittori rappresentata; ma se averò mancato per ragione della ignoranza mia, avrò almeno manifestato il rispettoso mio desiderio di corrispondere a chi ha per me una parzialità generosa, ed a quell’obbligo che conservo ad una sì venerabile Religione, da cui il primo latte fortunatamente ho succhiato.

Eccovi, Signor Conte umanissimo, fattovi anche depositario d’un mio sincerissimo complimento, e giudico non vi sia discaro, solendo voi fare stima dei valent’uomini comecchè a Voi somigliano, e per ciò più cari vi sono. Ma buon per me, che d’altra parte la vostra docilità non vi permette sdegnare l’amicizia di quelli ancora che meno sanno, fra’ quali vi prego di collocar me medesimo, con questo però, che nel numero mi ponghiate dei più sinceri ammiratori del vostro merito, e fra quelli che più teneramente vi amano.

Di voi, Valorosissimo Signor Conte,

Devotiss. Obbligatiss. Servitore
ed Amico vero

Carlo Goldoni.


  1. Questa lettera di dedica fu stampata sulla fine dell’anno 1754, in testa alla commedia, nel t. VII dell’ed. Paperini di Firenze.
  2. Vol. V della presente ediz., pagg. 118 e 121.
  3. Il Goldoni ricordavasi certamente anche di quelle dell’ab. Chiari.
  4. Così il testo originale dell’ed. Paperini; ma indubbiamente fu saltata una riga, della quale si può indovinare il senso, se non le parole.
  5. Della Letteratura Veneziana, Libri otto di Marco Foscarini Cavaliere e Procuratore. In Padova, 1752. Edizione magnifica. [nota originale]