L'autobiografia, il carteggio e le poesie varie/III. Poesie varie filosofiche e autobiografiche/II.
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GIUNONE IN DANZA
Per le nozze del principe della Rocca Giambattista Filomarino con Maria Vittoria Caracciolo dei marchesi di Sant’Eratno.
(1721)
Io, de le nozze riverito nume, che le genti chiamáro alma Giunone, che, perché sotto il mio soave giogo or due ben generose alme congiunga, gentili cavalieri e chiare donne, co’ prieghi umili di potenti carmi invocata, qua giú tra voi discendo; e perché sotto il mio soave giogo due alme al mondo sole or io congiunga, menovi meco in compagnia gli dèi, che’nalzò sovra il ciel l’etade oscura, con Giove mio consorte e lor sovrano. Come? ben si convenne al secol d’oro con semplici pastori e rozze ninfe in terra conversare i sommi dèi, e, ’n questo culto di civil costume ed in tanto splendor d’alma cittade, almeno per ischerzo, almen per gioco vedersi in terra i dèi or non conviene? Questa augusta magione e d’oro e d’ostro riccamente ornata, ove ’n copia le gemme, in copia i lumi vibrati si vivi rai
qual le piú alte e le piú chiare stelle POESIE VARIE
di cui s’ ingemman le celesti logge,
s’albergare qua giú vogliono i dèi,
ov’alberghin i dèi non sembra degna?
e quell’argentee ed ampie mense, dove
l’arte emulando il nostro alto potere,
l’ indiche canne e i favi d’Ibla e Imetto
presse di eletti cibi
in mille varie delicate forme,
le quai soavemente
si dileguan sui morsi,
si dileguan tra i sorsi,
non somiglian le nostre eterne, dove
bevesi ambrosia e nettare si mangia,
che quali noi vogliam danno i sapori?
Tutto a questo simil, dolce concento
di voci, canne e lire
risuonan di Parnaso
le pendici e le valli,
quando cantan le muse e loro in mezzo
tu tratti l’aurea cetra, o biondo Apollo.
Ma questi regi sposi,
de’ rari don del cielo
quant’altri mai ben largamente ornati,
di tai mortali onori
di gran lunga maggiori
degni pur son d’un nostro dono eterno;
onde adorniamo in essi
i nostri stessi eterni don del cielo.
I terreni regnanti,
che stanno d’ogni umana altezza in cima, stiman sovente di salir piú in suso scendendo ad onorare i lor soggetti; e i terreni regnanti son pur essi soggetti a’ sommi numi, e, perché sol soggetti a’ sommi numi, han stabilito i sommi regni in terra.
Perché lo stesso a noi lecer non debbe? che, perché onnipotenti, credettero le genti
poter pur ciò eh’ è ’n sua ragion vietato, 65e fur da noi sofferte
che credessero il tutto a noi permesso, purché credesser noi poter ’1 tutto e si le sciolte fiere genti prime apprendesser, temendo,
70dal divino potere
ogni umano dovere.
Del garzon dunque valoroso e saggio
che coll’alte virtudi
veracemente serba il nome antico,
75che d’ immortalitá risuona amante,
e de l’alta donzella, di cui sovra uman corso vien dal bel corpo la virtú piú bella, ond’è a la terra e al ciel cotanto cara 80che fatto ha sua natura il nobil nome,
ornai P inclite nozze festeggiamo danzando, o sommi dèi; e chi a menar la danza ha ben ragione, l’auspice de le nozze ella è Giunone.
85Esci dunque in danza, o Giove,
ma non giá da Giove massimo, di chi appena noi celesti sostener possiam col guardo il tuo gran sembiante augusto;
90esci si da Giove ottimo,
con quel tuo volto ridente, onde il cielo rassereni e rallegri l’ampia terra, e dovunque si rimiri,
95fondi regni, inalzi imperi,
tal che ’l tuo guardo benigno
egli è l’essere del mondo.
Deponi il fulmine grave e terribile too anche a’ piú foni,
non che lo possano veder da presso queste che miri, queste che ammiri 105tenere donne
tanto gentili e delicate.
Ti siegua l’aquila, pur fida interprete no de la tua lingua,
con cui propizio favelli agli uomini e loro avvisi palme e grandezze.
1 5 Anzi voglio, e non m’è grave
(che gelosa io qua non venni),
che tu prenda quel sembiante
d’acceso amante non di sterili sorelle,
120ma di quelle
chiare donne che di te dièro gli eroi; e ’n si amabile sembianza esci pur meco, o sovran Giove, in danza. 125II mio gran sposo e germano
non giá in terra qui da voi, caste donne, i chiari eroi unqua adultero furò.
Suo voler sommo e sovrano,
130che spiegò con gli alti auspici,
tra gli affetti miei pudici ei dal ciel gli eroi formò.
G. B. Vico, Opere - v.
21 POESIE VARIE
Porgi or l’una or l’altra mano a chi finse la gelosa, e d’eroi tal generosa coppia ben fia quanto da noi si può.
E tu vaga, gentil, vezzosa dea, alma bellezza de’ civili offici, che son le Grazie che ti stan da presso, e poscia i dotti ’ngegni t’appelláro de le sensibil forme alma natura, e una mente divina al fin t’intese de l’intera bellezza eterna idea; per Stige, non istar punto crucciosa perché tu qui non empi il casto uficio, qual ti descrisse pure a nozze grandi un’impudica piú che dotta penna, ché ’l mio (qual dee tra noi, pur regni il vero) è sopra ’l tuo vie piú solenne e giusto, poiché tu sembri (e sia lecito dirlo) ch’a letti maritai solo presiedi le licenze amorose a far oneste; se de le proli poi nulla ti curi, ma ben le proli io poi, Lucina, accoglio. Quest’or mio dritto fia, qual fu tuo dritto ne la gran contesa dal regale pastor come piú bella di riportarne il pomo: or piú non dico; ché, quando del mio uficio si ragiona, allor parlar non lice d’altro che di concordia, amore e pace, talché mi cadde giá da l’alta mente il riposto giudizio; anzi unirò co’ tuoi tutti gli sforzi miei pel tuo sangue troiano, e l’imperio romano per confin l’oceáno abbia e le stelle.
Ti cingano
170or le Grazie;
ti scherzino, ti volino
d’intorno mille Amori, e a le tue dive bellezze 175da’ le forme piú leggiadre
di sorrisi, guardi, moti, atti, cenni e portamenti, qualor suoli quando Giove vuoisi prendere piacere 180di mirar la tua bellezza.
In tai guise elette e rare
esci, Venere, ornai meco a danzare.
Da questa dea prendete idea,
185o sposi chiari,
o sposi cari;
che della vostra in questa chiostra piú bella prole
190non veda il sole;
e a te di padre, a te di madre figli vezzosi
rendano i nomi piú che mèl gustosi. 195E tu, gran dio del lume,
che nel cielo distingui al mondo l’ore, e qua giu in terra sopra il sacro monte presso il castalio fonte, valor spirando al tuo virgineo coro,
200fa’ i nomi de’ mortai chiari ed eterni;
memore io vivo pure
che, ’n buona parte a te debbo io le nozze, si che ’n gran parte a te debbo il mio regno, che ’n quella senza leggi e senza lingue
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prima infanzia del mondo,
la téma, l’ira, il rio dolor, la gioia
con la lor violenza
insegnarono all’uom le prime note
di téma, d’ira, di dolor, di gioia,
qual pur or suole appunto,
da tali affetti tócco gravemente,
il vulgo, qual fanciul, segnar cantando;
indi le prime cose
che destassero piú lor tarde menti,
0le piú necessarie agli usi umani, quai barbari fanciulli,
notáro con parole
di quante mai poi fur piú corte ed aspre;
ed in quella primiera e scarsa e rada,
e, perché scarsa, rada lor favella,
eran le lingue dure,
non mobili e pieghevoli, com’ora
in questa tanta copia di parlari,
a’ quali ’n mezzo or crescono i fanciulli,
a proferir da émpito portati,
e a proferir da l ’émpito impediti,
qual fanno i blesi, prorompean nel canto;
e, perch’eran le voci
corte, quai fur le note poi del canto,
mandavan fuori per natura versi;
né avendo l’uso ancor di ragion pura,
veementi affetti
soli potean destar le menti pigre,
onde credean che ’n lor pensasse il core.
Ed in quella che puoi
dir fanciullezza de l’umanitade
soli i sensi regnando e, perché soli,
ad imprimer robusti
ne l’umano pensiero
le imagini qual mai piú vive e grandi,
e da la povertá de le parole nata necessitá farne trasporti, nata necessitá farne raggiri, o mancando i raggiri e gli trasporti,
245da evidenti cagioni o effetti insigni
o dalle loro piú cospicue parti o d’altre cose piú ovvie ed usate, co’ paragoni o simiglianze illustri o co’ vividi aggiunti o molto noti,
250s’ingegnáro a mostrar le cose istesse
con note propie de le lor nature, che i caratteri fúr de’ primi eroi, ch’eran veri poeti per natura che lor formò poetica la mente,
255e si formò poetica la lingua;
ond’essi ritrovár certe favelle, che voglion dire favole minute dettate in canto con misure incerte, ed i veri parlari o lingue vere 260gli uomin dianzi divisi unirò in genti
e le genti divise unirò a Giove, ond’è il mio sommo Giove eguale a tutti; e tal fu detto favellare eterno degli uomini, de’ dèi, de la natura,
265onde nefandi son, né mai pòn dirsi
ch’era in lor favellar, non mai pòn farsi le madri mogli ed i figliuoi mariti.
E si la forza de’ bisogni umani e la necessitá scovrirgli altrui 270e la gran povertá de le parole
e la virtú del ver comune a tutti, che mostrò l’utiltade a tutti uguale, destáro unite il tuo divin furore, di che pieni que’ primi eroi poeti,
275de’ quai fóro tra lor le greche genti
famosi personaggi o coraun nomi
celebri, Orfeo e Lino ed Anfione, che coi lor primi carmi o prime leggi primi sbandirò da le genti umane 280ogni venere incerta e incestuosa;
e venne in sommo credito il mio nume, ond’io presiedo a le solenni nozze, le quai fèro solenni i divi auspici presi del ciel ne la piú bassa parte,
285perché Giove piú sú balena a l’etra
fin dove osa volar l’aquila ardita.
E perché son le certe nozze e giuste le prime basi degl’imperi e regni,
Giove egli è ’l re degli uomini e de’ dèi, 290a cui’l fulmine l’aquila ministra,
l’aquila assisa a’ regi scettri in terra
e del romano impero
alto nume guerriero;
ed io, di Giove alta sorella e moglie,
295si fastosa passeggio in ciel regina
e coi comandi d’aspre e dure imprese, quante Alcide se ’l sa, pruovo gli eroi. Questi tutti son tuoi gran benefici, de’ quali eterne grazie io ti professo.
300Però, canoro dio,
per la tua Dafne, volentier sopporta che la gran coppia de’ ben lieti sposi non t’invidi Parnaso e ’l sacro coro, ché quest’alma cittade,
305fino da’ primi tempi degli eroi
patria de le sirene, perpetuo albergo d’assai nobil ozio, nutrí sempre nel sen muse immortali, e pruove te ne fan troppo onorate 310i Torquati, gli Stazi ed i Maroni.
Ma tu taci modesto or le tue pompe, ma io grata, anzi giusta, or te l’addito;
né a scernergli me ’l niega con l’ombre sue la notte,
315la qual, col nostro qui disceso lume
onde tu vai vie piú degli altri adorno, vince qual mai piú luminoso giorno. Colá stretti uniti insieme vedo il rigido Capassi 320col mellifluo Cirillo.
De le genti egli maggiori quegli è ’l mio dotto Lucina, con cui va fido compagno il sempre vivo,
325sempre spiegato,
sempre evidente,
Galizia nostro.
V’ha l’analitico chiaro Giacinto;
330e a chi il cognome,
provido il cielo, diede d’ Ippolito, il cui costume al casto stile 335avea di questi
serbato il cielo.
Quegli, se rompe cert ’aspri fati, sará ’l Marcello (I >
340d’un’altra Roma.
V’è pur colui a cui nascendo col caso volle scherzare il fato,
345e di Poeta
(1) Il signor don Marcello Filotnariuo, delle amene e severe discipline ornatissimo, nipote di Ascanio, cardinale arcivescovo di Napoli [V.].
diègli il cognome.
Quegli è l’Egízí, ch’a lento piè e con pia mano 350cogliendo va
dotte reliquie d’antichitá.
E, a quello unito, d’un che s’asconde 355a &li altri tutti,
il qual tu, Febo, spesso e ben vedi, esce un bel nome, che chiaro a tutti 360suona Manfredi.
Stavvi’l Rossi t 1 ) meditante
alta impresa presso Dante: una dolce e gloriosa lá verdeggia nobil Palma;
365e v’è un Dattilo sublime.
Ivi ’l Buoncore coltiva l’erbe di cui gli apristi tu le virtudi;
370e lá 1 Perotti
con nobil cura e’ sta rimando l’egra natura.
A le cose alte e divine 375indi s’erge e spiega il volo
il gentil dolce Spagnolo.
Quei eh’ è ’n sé tutto raccolto
(1) Il signor don Casimiro Rossi, che sta componendo in terza rima e con lo spirito di Dante un poema eroico propio delle cristiane repubbliche, intitolato Le persecuzioni dei cristiani [V.].
entro sua virtude involto è ’l buon Sersale,
380sempre a sé uguale;
e quell’altro egli è il Salerno,
in cui parlano i pensieri.
Quegli è ’1 Lunato, dal cui frale or la mente batte l’ale 385su del del per l’alte chiostre
a spiar le stelle nostre.
Quello, al cui destro omero aurata pende una lira,
390sembra un romano
Nobili’one;
e v’ha quel che la fortuna, non giá il merto, il fa Tristano. Ve’ ’l Valletta, l’onore 395del suo nobil museo;
anche ’l Cesare ornato del bel fiore di Torquato; il leggiadro Cestari, il Gennaio festivo,
400il Viscini venusto,
pur l’adorno Corcioni, il Forlosia dolciato di mèl che timo odora, il Mattei che valore 405ha del nome maggiore,
e con atti modesti l’amabil Vanalesti, e ’l de’ tuoi sacri studi vago Salernitano,
(i) Il signor don Andrea di Luna d’ Aragona, di cui s’allude alla nobilissima canzone, che aspettata giunse l’istesso giorno che si dava questo foglio alle stampe, onde si leggerá nel fine della raccolta [V.].
•
410e ’I di te acceso Puoti,
altro Rossi splendente quanto l’ostro di Tiro.
Ma que’ che lieta accoglie la Sirena sul lito,
415l’un cui par che ’1 petto aneli
ed a un tempo stesso gieli tutto e bagni di sudore sol la fronte, è ’l Metastasi, pien del tuo divin furore,
420a cui serve or senno ed arte;
l’altro è ’l Marmi teneruzzo.
Venuti anche tra questi son da l’Attica tosca in bel drappel ristretti,
425bei tuoi pregi e diletti,
cento gentili spirti, cinti di lauri e mirti.
È con questi il gran Salvini, il qual presso al nobil Arno 430è un’ intera e pura e dotta
gran colonia d’ Atene, che comanda a cento lingue ed un gran piacer dimostra d’ascoltar l’origin nostra.
435Per onorar tanti pregiati ingegni,
ch’a nozze tanto illustri or fanno onore, mastro divin de l’armonia civile, che tu accordasti con le prime leggi, e, perché son le leggi 440mente d’affetti scevra
la qual qui scende agli uomini dal cielo, le leggi poi stimate don del cielo mastro ti fér de l’armonia celeste; agiati al seno ornai cotesta cetra,
445c’hai finor tócco assiso agiata in grembo. POESIE VARIE
e col piú vago e piú leggiadro vezzo esci a danzare, o dotto Apollo, in mezzo.
Tempra, Febo, l’aurea lira a’ bei numeri del piè,
450qual s’arretra o inoltra o gira
o pur salto in aria die’.
Di tua cetra il dolce suono l’ aspre fère raddolcí, e di tua bell’arte è dono,
455perché l’uom s’ ingentilí.
Si la venere ferina da le terre Orfeo fugò, e la cetra sua divina poscia ornata di stelle in ciel volò. 460Non ti mostrar si schiva
e ritrosa, Diana; è sí ben la tua vita, vita degna di nume, menar l’etade eternamente casta 465d’ogni viril contatto;
talché le sante membra né men tocchi col guardo uomo giammai, come pur d’Atteon, che n’ebbe ardire, tu giá facesti aspra vendetta al fonte;
470ma, se pur mai seguisse ogni donzella
i tuoi pudici studi, non aresti or, o dea, chi t’offrirebbe e vittime ed incensi in sugli altari.
Però Giove, che ’l regno 475sopra ’l gener umano a noi conserva
onde ’l regno ben ha sopra di noi, egli siegue un piacer dal tuo tutt’altro: piacer che gli produce ne l’ordine de’ dèi il nome augusto,
480che ’l dal giovar creando è detto Giove,
che dal profondo nero sen del Cao
trae fuor le cose in questa bella luce
sotto le varie lor forme infinite
de le quali fornisce e adorna il mondo,
485e da tale suo studio
«padri» voi dèi, «madri» noi dèe siam dette. E quindi avvien che, come Giove abborre la rea confus’ion de’ semi tutti, che poi dissero «Cao» color che sanno,
490cosi odia e detesta
la rea confus’ion de’ semi umani, che prima disser «Cao» le rozze genti. Intendi, intendi pure l’alte leggi del fato;
495tu t’innalzasti in cielo,
perché Giove con teco e gli altri numi serbasse in terra le virtú civili, che pòli sole serbar la spezie umana: ei comanda le nozze,
500che madri son de le virtú civili,
ond’io, moglie di Giove, le fo certi e solenni,
Venere, dolci, e tu le fai pudiche, e ’n carmi ne dettò le leggi Apollo;
505onde Imeneo sul Pindo a lui sacrato
nacque d’ Urania che contempla il cielo, e l’educáro le sue sacre muse, che cotesta, che tu pregi cotanto, eterna castitá vantano anch’elle.
510Deh mira adunque,
deh mira intorno con ciglio grato tante matrone, fide custodi
515de l’alto sangue
di tante illustri chiare famiglie,
tra’ quai torreggia la bella madre 520del vago sposo ú).
Né creder tutte le tue seguaci ch’abbiano in core quel c’hanno in viso.
525Vener te ’l dica
quai caldi voti pur d’esse alcune l’offron secreti.
Però non isdegnare 530ch’eschi meco a danzare.
In quest’aria vergognosa si ti voglio, o casta diva, e mi piaci cosi schiva, che mi sembri tu la sposa.
533Come ben la casti tade
fa piú bella la bellezza!
Prende piú che gentilezza un’amabile onestade.
Cosi ’nsegna il tuo diletto 540ad amare e riverire;
e cosi convien covrire,
bella sposa, l’ardor che nutrí in petto.
Ma tu non tutta spieghi,
Marte, qui la tua fronte,
545la qual sembra turbar cruccio importuno,
forse perché non tosto dopo Giove e, se bene m’appongo, innanzi Giove, io t’inchinai ch’uscissi a danzar meco?
In questa diva festa
550celebrata in Italia, ognor feconda
(1) L’eccellentissima signora donna Carmela di Sangro de’ duchi di Casacalenda [V.].
madre di saggi, prodi, invitti duci, ne la cittá che sovra l’altre in grido il publico inalzò genio guerriero, per queste liete nozze 555e d’una nobil sposa
il cui gran genitore
per raro valor d’arme è assai ben chiaro e d’un sposo gentile, il cui gran zio, che puoi tu dir gran padre, 560nel mestiere de Tarmi è assai ben noto* 1 2 ),
lo tutto ciò confesso e riconosco essere tutto ciò ben tua ragione, e dirò molto piú: siamo in tua casa.
Non per tanto io peccai contro la legge 565che de la danza giá prescrisse l’uso,
ma sommisi la danza ad una legge la quale m’ha dettato alta ragione.
Pria t’ accese al valor alta pietade e somma diligenza inverso Giove,
570ond’egli avviene che d’eterne glorie
segnan gli annali e adornano T istorie le guerre che tu imprendi e pure e pie, che ’ncominciasti a far fin da que’ tempi che difendevi Tare o i primi asili 575con Tasta pura o scevra ancor di ferro;
e Tasta pura poi serbò ’1 romano per premio insigne al militar valore, ond’è Minerva astata la mente che delibera le guerre,
580Pallade astata che n’insegna Parti,
Bellona astata alfin, che Tamministra;
(1) L’eccellentissimo signor don Marino Caracciolo marchese di Santeramo, generale di battaglia [V.].
(2) L’eccellentissimo signor don Giacomo Filomarino duca di Pierdifumo, nella gioventú capitano de’ cavalli [V ].
e l ’aste soie fóro arme d’eroi, e perciò abbiam da l’asta tu di Quirino, io di Quirina ii nome, 585che sopra degli eroi le nozze intesi
e portava a la luce i figli loro quando ancor non avean le vili plebi le mie nozze tra lor solenni e giuste.
E ricordar ti dèi che molto innanzi 590che spirassi furore, ira e spavento
agli schierati eserciti in battaglie, questa Venere i tuoi spirti feroci con la scuola d’amor rese gentili, e la fierezza ti cangiò in braura;
595poi t’ ispirò Diana i suoi diletti
d’assalir orso o di ferir cinghiale; studi ben degni de’ primieri eroi, che gli Aloidi portar sopra le stelle. Indi Apollo cantò le sante leggi,
600ond’i tuoi araldi, ad alta orrenda voce
chiamando in testimon il sommo Giove che non son essi i primi a far l’offese, e se lor non s’emendano l’offese, intiman le solenni aspre crudeli 605e da le madri detestate guerre.
Par c’hai posto in oblio l’antica e vera origine ch’avesti: non sei tu, puoi negarlo, la fortezza di Giove,
610ch’esercitasti pria contro te stesso,
con vincere e dipor ne le catene de la ragion invitta la libidine vaga? e d’una donna solo contento e pago, indi apprendesti 615domar sotto il paterno imperio i figli
ed a lor prò domare i fèri mostri, domar i tori a sopportare il giogo,
domar la terra a sopportar l’aratro? Poscia le plebi erranti, inerti ed empie, 620a cui apristi gli asili
ove si rifuggian da Ponte e i torti che lor faceano i violenti ingiusti, domasti a sopportar legge e fatica, e col tuo esemplo a riverire i dèi,
625e per la patria alfine,
eh’ a’ popoli conserva e moglie e figli e casa e campi e dèi, con la guerra domar genti e cittadi? Dunque, tempra l’aria fiera 630col mirare riverente
il tuo re benigno Giove, col mirare innamorato la tua Venere benigna.
E mesci insieme 635Pira d’Achille;
ma che le leggi non isconosca de la natura, né arroghi a Parme 640ogni ragione.
Mesci d’Enea l’alta pietade: ma le regine non abbandoni 645e se ne porti
col loro onore anche la vita.
Mesci l’amore del grand’ Orlando,
650ma piú temprato
da la ragione.
Con tai leggi ch’io ti reco esci, Marte, a danzar meco.
A questa immago altera 655d’alta virtú guerrera
nascano i figli a voi, ben lieti sposi:
talché gl’incliti e gravi bei trionfi degli avi sieno a petto dei lor meno famosi;
660e ne le loro glorie
s’ergano si l’ istorie che poema giammai tanto non osi.
Son tuoi propi doveri festeggiar queste nozze,
665Mercurio mio, gran messaggier di pace;
ché gentilesca lode è ben di questi Filomariní padri esser grati egualmente al popolo e a’ sovrani 670e di placare i re coi lor soggetti,
qual agli uomini tu concili i numi; come di te poscia cantar coloro che vollero di noi far piú alte l’origini e piú auguste.
675Ché tu qui primo in terra
a le plebi per tedio sollevate di sempre coltivare i campi a’ padri per solo sostentar l’egra lor vita,
che per salvar pria rifuggirò a Tare,
680portasti l’alme leggi,
che Cerere leggifera ti diede: ch’avessero le plebi il commerzio de’ campi, che pria occupáro e reser colti i padri; 685e questa fosse loro
la mercé giusta d’obbedire a’ padri, donde tu avesti di Mercurio il nome. Indi, nate le guerre, fosti poi santo apportator di pace.
G. B. Vico, Opere - v.
22
690Dunque in questa alleanza
esci ora meco in danza.
Questa pace con la face tratta Amor:
695e gli amanti,
anelanti d’almo ardor, la tua verga non asperga
700del tuo, ch’uopo or non fa, dolce sopor.
La sapienza di Giove d’invitar non ardisco, che troppo onor pure ne fa Minerva con lo stare a guardar la danza nostra.
705Dunque bastar ci dee che qui v’assista,
0fortunati sposi,
ed a pure, sublimi e chiare idee d’eterne veritá v’alzi la mente, a cui saggi formiate i vostri figli 710talché ’n senno níuno altro somigli.
Però, benché di te sol paga, sdegni, non che parlar giammai di tue bell’opre, pur udirle giammai lodar da altrui; soffri, Minerva, pur che ’n tua presenza 715tanto io ne dica sol quant’egli ’mporta
ch’io ne adorni il mio uficio onesto e santo. Da te provenne a l’uomo il talento divin di contemplare, e poiché l’ampia terra
720tutta seccò l’umore onde gran tempo
dal gran diluvio ella restò bagnata, talché poteo Vulcano fulmini mandar sopra l’Olimpo a Giove,
fulmin ch’atterrar gli empi giganti;
725l’uom da quel primo tempo
ne l’ozio, solitudine e, per somma povertá di parlari, necessario silenzio, dai fulmine destato
730a contemplar pur finalmente il cielo,
da’ moti insigni degli -eterni lumi animato il credette e ’1 fece dio; e la sua volontá chiamò «’l mio Giove», che scrivesse nel cielo 735col fulmine le sue temute leggi,
o vero pubbJicassele col tuono; che scrivesse nel cielo de l’aquila coi voli gli adorati comandi,
740o li dettasse d’altri augei col canto:
onde ne l’aurea etade fu detto che leggessero le genti l’alte leggi de’ fati in petto a Giove.
E quindi poscia vennero a’ poeti 745quei lor nomi di «vati» e di «divini»,
che fóro «sacri interpreti de’ dèi», quando una cosa istessa era sapienza, sacerdozio e regno.
E questi in quel sommo stupor del mondo 750quei «pochi» fur «ch’amò Giove benigno»,
eh’ over mossi da téma o da vergogna de la vener ferina in faccia al cielo, pentiti del comun brutal errore, presa ciascun per sé soia una donna,
755e credendo i volati degli augelli
fosser cenni di Giove, proseguendo dell’aquile gli auspici in certi sacri orrori, si fermaro de’ monti,
760dove loro mostrò Diana i fonti;
e quivi con le lor donne pudiche
fondáro le famiglie, e poi le genti fabbricáro le picciole cittadi, cui con l’aratro disegnár le mura;
765il concubito vago proibirò,
dier le leggi a’ mariti e ’ntagliáro nel rovere le leggi: e questa fu prima sapienza in terra, ond’è venuto in questo culto il mondo, 770Tanta parte, Minerva, hai ne le nozze,
se non le nozze a te si debbon tutte.
Vulcano qui non danza, ché ne men danza in cielo; ma, ’n cambio de l’onor qui da degnarvi, 775doni di lui piú propi or v’apparecchia.
In Etna ignivomo sotto la lurida fucina altissima con Bronte e Sterope 780altri monocoli
or con le fervide braccia roboree, irsute e ruvide in torno armonico 785i Ior gravissimi
martelli inalzano su la ben solida e grande incudine; e vi distendono 790le lenti e flessili
argentee lamine; e si ne formano gli usberghi lucidi, i tersi clipei,
795le gravi gálee;
e ’l duro calibe temprato aguzzano,
temprato affilano in taglientissime,
800in pungentissime
e spade e cuspidi, di che si vestano, di che si cingano, le qual’ impugnino 805in guerra i strenui
figli, e ne portino alte vittorie.
Alma Cerere intanto, or tu cortese per cotesta deitá eh’ a me pur devi,
810da me inchinata or danza a tante nozze.
Per me di questa terra la giá gran selva antica, poiché Diana ne purgò le fiere, onde sicuro il suo germano Apollo 815in Anfriso poteo guidar gli armenti,
col fuoco che Vulcano di dura selce viva da le battute viscere pria scosse, bruciando da per tutto
820rover gravi, dur’elci e querce annose,
ridottovi il terreno atto all’aratro col ferro che ti die’ Marte per uso del grave aratro, poi vi seminasti la prima spezie di frumento, il farro;
825e ’l farro poi dal vincitor romano
fu dato in premio a’ forti che ’nsigni l’arme oprár ne le battaglie; ed i piú forti de’ romani, i padri, che soli imprima aveano i sacerdozi,
830le lor nozze col farro consacráro.
Quindi tu altere desti
le tue leggi de’ campi,
e le tue fúr le prime leggi umane,
con le quai si fondar gl’imperi e i regni: 835ch’appo le genti, i territori o campi
sieno in sovrana signoria de’ forti; quei che men forti sono, n’abbiano solo gli commerzi o gli usi. Perché gli uomini, accorti 840che non potean divisi
difender i lor campi da l’altrui forza ingiusta, congiunser tutte le lor forze in una; e si fondáro in terra il sommo impero, 845cui sommiser le lor forze private,
perché guardasse loro colti i campi e sicuri, che guardando sicuri erano colti; e tutto ciò per téma che la terra S50 non ritornasse alla gran selva antica.
Tanta è la tua possanza, tanta hai tu dignitá d’uscir qui in danza.
Tu seconda, feconda
855i suoi campi
ch’ai signore splendore recár.
Tu a lui cara,
860prepara
altri ed ampi, ché ricchezze, grandezze puoi dar.
865Da viltá
nobiltá
sol tu campi; co’ tesori, gli onori
870usi serbar. POESIE VARIE
Ma tu, Saturno, portator degli anni, non so qual mai superstizion ti tiene, ché par che ti nascondi agli occhi d’una si nobil corona. Prendiani gli augúri in meglio, non quai falso stimò finora il mondo. Cotesta tua gran falce, in quella etá che tu versavi in terra (forse perch’assai vecchio, tu vuoi ch’io te ’1 rammenti?), non ebbe altr’uso che di mieter biade, da le quai seminate avesti ’1 nome; c ’n quella rozza etade e ’n quella povertá de le parole Tuoni con le mèsse numerava gli anni onde avvenne che poi, del tempo dio, fosti allogato in cielo. Né cotest’ali invero ti fúr date perché tu voli o fugga, perché ’nver tu non sei tardo né presto, ma ben misuri i moti presti o tardi. Coteste sono insegne che ti dièr i patrici che trováro gli auspici, onde poi da la lor propia pietade divenner saggi, temperati e forti, e fúr gli eroi di favole spogliati, i cui prenci fondar gli eroici regni; e sol di questi poi le discendenze, perché aveano tra lor certe divise che non avean tra lor Toscure plebi, tutto mercé de le mie certe nozze, da Tordin lungo de’ lor certi padri sol essi meritar con vero nome de le genti maggiori dirsi «patrici».
E noi da quelle antiche inclite case, 344
9io
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940
POESIE VARIE
che, non essendo ancora i regni in terra,
dièro a noi ’l regno sovra lor nel cielo,
siam detti «dèi de le maggiori genti»;
talché quest’ale son ristesse appunto
di che ’l Pegaso il dorso
e Mercurio i calcagni orna e le tempia,
perché i nobili primi ritrováro
i seminati, ond’ hai tu nome e nume;
i nobili trovar le leggi prime,
con cui Mercurio richiamò le plebi;
i nobil domar primi il cavallo,
che lor servi poi ’n guerra, ma assai ’nnanzi
con la sua zampa fe’ sgorgare il fonte,
presso a cui si fondar le prime terre,
ove abituro poi le sacre muse
che le cittá de le bell ’arti ornáro;
da poi ch’Apollo ritrovò la lira,
ne la quale compose de’ privati
tutt’i dianzi divisi o nervi o forze,
con cui dettò le prime leggi in carmi.
Però con lieti auspici, che voglion dire in lor vera ragione una lunga prosapia e assai feconda d’indole generosa e giusta e pia e ben istrutta in tutte Parti umane, su coteste grand’ ali ornai ti libra, ed agile a danzar meco ti vibra.
Tu per sposi cosi lieti tante nuove biadi mieti, che tua falce ottusa fía.
Ne la lor casa immortale di Lucina e di Giogaie ferva pur la cura mia.
E giá in aria a destra move il regale augel di Giove, e’n del segna una dritta e lunga via. POESIE VARIE
Non fa d’uopo che, Vesta, tutta religiosa e diligente tu t’apparecchi l’ara, e che ’l foco v’imponghi, ch’eterno serbi infin d’allor che ’l foco ridusse in campi la gran selva antica; né ti prepari da que’ fonti l’acqua, presso a’ quai si fondar le prime terre, onde con l’acqua e ’l foco fèrsi le nozze poi giuste e solenni.
Sol lece a me, ché vano è ’l sacrificio, ch’or io, tutta composta in maestade, adempia qui il mio civile uficio.
Or sotto questa mia potente insegna, che tanti e tali ben produsse al mondo, per cui ’l mio nume in ciel sovrano regna, questo mio giogo d’òr lieve e giocondo, piega l’alte cervici, o coppia degna, in presenza del ciei tutto secondo.
E voi, matrone, a lei piú fide e grate, la moglie al maritai letto menate.