L'autobiografia, il carteggio e le poesie varie/I. Autobiografia/V. Annotazioni

I. Autobiografia - V. Annotazioni

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IV. Due appendici - II. Le recensioni di Giovanni Leclerc tradotte e annotate dal Vico II. Carteggio

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p. 3 — Il V. nacque il 23 giugno 1668 in uno stambugio soprastante a una botteguccia in via San Biagio dei Librai, n. 31, e fu battezzato il giorno dopo nella vicina chiesetta di San Gennaro all’Olmo. Sua madre era Candida Masullo da Napoli (1633-1695 c.), figlia di Giambattista, lavorante di carrozze; suo padre, Antonio di Vico da Maddaloni (1636 C.-1708), figlio di Aniello, contadino; il qual Antonio, venuto a Napoli verso il 1656, aveva aperta una piccola libreria nella bottega sopra mentovata, trasferita poi, dal 1685al 1699, nell’altra bottega (con cameretta soprastante a uso di abitazione) sita nella stessa via, n. 23, dirimpetto il Banco della Pietá. Successivamente il V. abitò: dal 4 maggio 1699 al 1704 in una casetta al vicolo dei Giganti (ora con ingresso al vicolo dei Gerolamini, n. 15); dal 4 maggio 1704 al 1718 in una, alquanto meno piccola, al Largo dei Gerolamini, ove nel 1868 fu posta una lapide commemorativa; nel 1733 al vicolo delle Grotte della Marra, nelle case di Filippo Merenne; nel 1737 e fino al 4 maggio 1741, in un quartierino all’ultimo piano delle case di Marcantonio Principe nel vicolo delle Zite; dal 4 maggio 1741 fino al 4 maggio 1743nella via San Giovanni a Carbonara; e finalmente, dal 4 maggio 1743 alla sua morte, ai Gradini dei Santi Apostoli, in uno dei due palazzi che fanno angolo con Panzidetta strada di San Giovanni a Carbonara.

pp. 3-4 — Nell’autunno 1678 il V. tornò presso quel primo maestro privato, che giá prima della caduta aveva cominciato a frequentare presso il quale iniziò nell’anno successivo la prima delle tre classi di « umanitá » o «grammatica» (la «infima»), salvo a proseguirla presso un secondo, da cui si trattenne verisimilmente fino all’estate del 16S0. — La « scuola dei gesuiti », che il V. frequentò per un semestre (novembre 1680-aprile 1681), era quella annessa al Collegio massimo al Gesú vecchio, ov’egli entrò [p. 106 modifica]

in «umanitá media» o «seconda di grammatica». La prima classe, a cui fu fatto passare il suo emulo, era Inumanitá suprema» o «terza di grammatica». — L’«Alvarez» è il De institutione grammaticae del gesuita portoghese Emanuele Alvarez (1526-83), adottato allora in tutte le scuole gesuitiche. — L’«está», in cui il V. compi da sé i corsi di umanitá, è quella del 1681, al quale anno appartiene altresí l’« ottobre seguente », in cui cominciò a studiare « logica » , ossia filosofia. — Il gesuita napoletano Antonio Del Balzo (1650-1725) insegnò a lungo materie filosofiche e teologiche nel ricordato Collegio massimo, del quale nel 1713 fu anche prefetto degli studi. — Le Summulae di Paolo veneto sono estratte dalla Logica magna dello stesso autore. — L’«anno e mezzo», in cui il V. divagò dagli studi, è da porre approssimativamente nel gennaio 1682-giugno 1683.

p. 5 — L’accademia degli Infuriati, fondata nel secondo decennio del Seicento e vivacchiata fino al 28 giugno 1672, non si riapri se non il 16 aprile 1690, salvo nel febbraio 1692 a trasformarsi in quella degli Uniti, della quale, poco di poi, il V., su proposta di Giuseppe Vailetta, divenne socio aggregato col nome di « Raccolto». Autobiografia, pertanto, che colloca la riapertura degli Infuriati subito dopo l’«anno e mezzo» di ozio, cioè nel 1683, anticiperebbe di sette anni l’avvenimento, tranne che il V. non iscambiasse quell’accademia con qualche altra. — Il gesuita leccese Giuseppe Ricci (1650-1713) fu a lungo insegnante a Napoli di materie filosofiche, e pubblicò altresi un Fundamentum theologiae moralis seu de conscientia probabili (Napoli, 1702). Il V. ne ascoltò le lezioni nel ricordato Collegio massimo, ove dovè tornare a iscriversi nell’ottobre o novembre 1683, salvo ad allontanarsene tra la fine del 1683 e i principi del 1684. E l’«anno», in cui si chiuse in casa a studiare sul Suarez, va collocato approssimativamente nel gennaio-decembre 1684.

p. 6 — La fugace apparizione del V. nell’Universitá di Napoli ebbe luogo nell’anno stesso ch’egli studiava il Suarez, ossia nel 1684. Ma vi tornò certamente qualche altra volta prima d’entrarvi come professore. Per lo meno, lo si trova iscritto alla facoltá di giurisprudenza negli anni scolastici 1689-90, 1690-1 e 1691-2. Si laureò prima del 12 novembre 1694. — Felice Aquadia da Campagna (1635-1695) insegnò via via nell’Universitá di Napoli varie materie giuridiche. Nel 1684, quando lo ascoltò il V., era titolare della cattedra di canoni della mattina. — Francesco Verde da Sant’An [p. 107 modifica]

timo (1631-1706) aveva in casa un fiorentissimo studio privato, che il V. frequentò indubbiamente nel corso del 16S4. Fu poi vicario capitolare e arcivescovile di Napoli e vescovo di Vico Equense. — L’opera di Ermanno Vulteio, che ebbe moltissime edizioni, s’intitola: In Institutiones iuris cívilis a Iustiniano compositas commentarius ; quella di Enrico Canisio da Nimega (f 1609): Stimma iuris canonici in quatuor Institutionum libros contrada (Ingolstadt, 1625). — L’avvocato Nicola Maria Giannettasio o Giannattasio apparteneva a una famiglia di uomini di toga, ed era parente del noto poeta gesuita Nicola Partenio Giannettasio (16481715), amicissimo del V.

pp. 7-8 — I primi studi giuridici del V. ebbero luogo intorno al 1685. Ma quanto egli dice dei risultati a cui sarebbe giunto fin da allora è certamente anacronistico. — Carlo Antonio De Rosa da Aquila (1638-1717) fu consigliere del Sacro Reai Consiglio (1684), poi reggente del Collaterale (1707): scrisse parecchie opere giuridiche. — La lite intentata ad Antonio di Vico ebbe inizio nel giugno 1686: suo avversario fu l’altro libraio Bartolomeo Moreschi. — Lo spagnuolo Pietro Antonio Ciavarri-Eguya, autore d’una Didascalia multiplex veteris, mediae et infimae irusprudentiae (Napoli, s. a.) è lodato anche altrove dal V. come « un de’ primi lumi del Sacro Reai Consiglio ». — L’avvocato Francesco Antonio Aquilante, nato a Napoli nel 1632 circa, era ancora vivo nel 1691.

p. 9 — Il gesuita Giacomo Lubrano da Procida (?-i693), oltre alcuni volumi di prediche, pubblicò i Suaviludia musarum ad Sebethi ripam epigrammaton libri decem (Neapoli, 1690) e, con l’anagramma di Paolo Brinacio, le Scintille poetiche o poesie sacre e morali (Napoli, 1690), ove, col titolo Rosa caduca , è l’idillio a cui accenna il V. — Geronimo Rocca da Catanzaro (1623 C.-1691), vescovo d’ Ischia dal 1671, pubblicò due volumi Disputationum iuris selectarum cutn decisionibus super eis prolatis (Napoli, 1686-8, e Ginevra, 1693). Suo fratello Domenico (1644 C.-1699), di cui s’hanno versi in raccolte del tempo, coi figli Francesco Antonio (1672 c.1740), Giulia (1673-98), Carlantonio (1675 C.-1740 c.) e Saverio (1677 C.-1733, pars magna della congiura di Macchia, poi magistrato), soleva dimorare alternativamente a Napoli in un palazzo all’ Imbrecciata a Montecalvario, a Portici in una villa alla Croce del Lagno, e a Vatolla, cioè nel < castello nel Cilento » di cui discorre il V.

pp. 9-19 — Entrato in casa Rocca (e forse piú come aio che [p. 108 modifica]

non come maestro di giurisprudenza) verso la fine del 1686 o i principi del 1687, il V. vi restò fino all’autunno del 1695. Nel castello baronale di Vatolla (posseduto oggi dai Vargas-Machuca principi di Migliano) si sogliono mostrare una stanza con alcova, che si afferma quella ov’egli dormiva e studiava, e anche, nel cortile, un’iscrizione latina del 1731, attribuita al V., ma che fu scritta invece dal suo discepolo Saverio Rocca. — Il « Ricardo » è il gesuita francese Etienne des Champs (1613-1701), che, con lo pseudonimo di Antonius Richardus, scrisse una Disputatici de libero arbitrio (1645) e il De haeresi ianseniana ab apostolica Sede proscripta (1654). Ma alla sua interpetrazione, a dir vero alquanto sforzata, del pensiero del Des Champs il V. giunse effetti v amen te piú tardi: nel De antiquissima (1710) e, ancora meglio, nel Diritto universale (1720). — Il convento francescano di Santa Maria della Pietá di Vatolla era stato fondato poco dopo il 1620, dirimpetto sei secolari alberi di ulivo, sotto uno dei quali si vuole che il V. solesse leggere e meditare. E ancora esistono colá un trecento volumi, avanzo della « libreria » ricordata da \\’ Autobiografia. — Non soltanto 1 ’apologia o critica dell’epigramma del canonico Massa, ma sopra tutto l’ influsso di Lionardo dí Capua e la fiera lotta contro il barocchismo iniziata a Napoli fin dagli ultimi decenni del Seicento determinarono nel V. la conversione al neopetrarchismo e al purismo trecentistico, di talune affettature del quale nemmeno negli anni della maturitá giunse totalmente a disfarsi. — Certamente anticipato al 1686-95 da un tempo molto posteriore, e forse non troppo lontano dal Diritto universale , è ciò che il V. soggiunge dell’elaborazione della sua teoria della giustizia commutativa e distributiva. Analogamente, il suo passaggio al platonismo (o, meglio, neoplatonismo), con tutte le conseguenze narrate nel testo, non fu, effettivamente, troppo anteriore al De antiquissima. — La prolusione universitaria, di cui è intercalato nel testo una parziale traduzione o riassunto, è andata dispersa. — Piú che un epicureismo lucreziano-gassendiano in senso stretto, il movimento d’idee a cui accenna il V., e che ebbe diffusione grandissima nell’Italia meridionale, era un eclettismo, che, non senza giungere talora a conclusioni ateistiche (donde l’appellativo di « ateisti » dato a coloro che professavano quella filosofia), era materiato di atomismo democriteo, epicureismo, filosofia del Rinascimento (telesismo, campanellismo e perfino brunistno), sperimentalismo baconiano-galileiano e razionalismo cartesiano. Procedente di pari passo con un [p. 109 modifica]

anticurialismo sempre piú accentuato, die’ luogo nel 1686-93 a un clamorosissimo processo del Santuffizio, di cui ancora a principio del Settecento erano vivi gli strascichi politico-diplomatici. È assai probabile che il V. vi partecipasse o, almeno, lo guardasse con simpatia, come mostrano, tra altre circostanze, la sua stessa confessione di errori religiosi giovanili, ancora ricordati a Napoli nel 1720, eia sua fraterna amicizia con gli «ateisti» piú compromessi nel processo sopra ricordato: Giacinto De Cristofaro, Nicola Galizia e Basilio Giannelli. — La Filosofia naturale o, meglio, i Fundamenta physicae (1646) di Enrico Regio (Pierre Le Roy), sono effettivamente del Le Roy, non del Descartes, a cui furono attribuiti, ma che li sconfessò e confutò. — A un atteggiamento risolutamente anticartesiano il V. non giunse se non nel 1710, nel De antiquissima. Prima, era stato anch’egli cartesiano, ma a modo del Cornelio, del Caloprese e degli altri cartesiani napoletani, e cioè non accettando l’ostracisino che il gran Renato aveva dato alla poesia, alla storia, ecc., ossia a quella parte dello scibile che il V. chiamò poi «filologia». — Gregorio Caloprese da Scalea (1650-1715) fu quasi certamente conosciuto dal V. nel 1690 nell’accademia degli Infuriati, ove recitò una Lettura sopra la con cione di Marfisa, ecc. (Napoli, 1691), che, insieme con le note del medesimo Caloprese, del Severino e del Quattromaní alle poesie del Casa (Napoli, 1694), è forse il saggio piú cospicuo di critica letteraria avutosi a Napoli alla fine del Seicento e, in un certo senso, una delle fonti dell’estetica vichiana.

p. 20 — La prima edizione del Panegirico in lode dell’elettore di Baviera è Napoli, Novello de Bonis, 1694. — Il matrimonio di Vincenzo Carafa con Ippolita Cantelmo ebbe luogo a Napoli, con feste sontuosissime, il 16 luglio 1696: donde la data dell’epitalamio vichiano, restato per allora inedito e inserito poi nella Raccolta dell’Acampora (1701). La Cantelmo, una delle piú belle dame napoletane del tempo, era colta poetessa. Tra lei e il V. non tardò a stabilirsi una fraterna amicizia, divenuta piú salda dopo che nel 1709 ella tenne a battesimo una figliuola del filosofo, e questi riuscí nel 1710 a farla nominare pastorella arcade (Elpina Aroate). Dal magnifico elogio di lei inserito nell’Orazione in morte della Cimmino si desume che solesse altresí frequentare la casa del V. — Prima che nell’epitalamio per le nozze Carafa-Cantelmo, il carme catulliano « Vesper adest » era stato imitato dal V. in un altro epitalamio, composto a Vatolla nel giugno 1695 pel matrimonio della [p. 110 modifica]

ricordata Giulia Rocca con Giulio Cesare Mazzacane principe d Omignano. — La canzone per le nozze di Massimiliano duca di Baviera con Teresa figlia di Giovanni Sobieski è anch’essa, come il Panegirico , del 1694. — Non mentovate dall’ Autobiografia sono le prime due canzoni vichiane a stampa: Affetti di un disperato e In morte di Antonio Caraffa , pubblicate entrambe con la data di Venezia, Gonzatti, 1693. La prima fu scritta nel 1692 a Vatolla, data alla luce prima del marzo 1693, e dedicata a Domenico Rocca per gratitudine «di alcun ricordevole beneficio ricevuto». La seconda, composta a Napoli dopo il 28 marzo 1693, era stata giá pubblicata nel maggio. — Poco posteriore è la sola poesia amorosa del V., cioè un breve carme latino, nel quale si scusa con Sebastiano Biancardi, che dal 1692 al 1702 preparò una raccolta poetica in onore del defunto suo padre adottivo Fulvio Caracciolo (1627-92), di non poter collaborare a quella raccolta, perché « me miserum perire ac uri Gaudet Lesbia quatn nitnis superba » .

pp. 20-1 — L’atteggiamento di critico e di oppositore al tipo di cultura determinatosi a Napoli negli ultimissimi anni del Seicento fu assunto, veramente, dal V. soltanto alcuni anni piú tardi (1710 circa). — Chi a Napoli era riuscito a sostituire gli Elementi di Euclide alla logica scolastica era stato Tommaso Cornelio. — Lo scetticismo e l’antigalenismo in medicina erano stati frutto della fiera polemica condotta contro Carlo Pignataro e altri galenisti dal Di Capua e dai suoi innumerevoli seguaci, ai quali, in altro luogo de\V Autobiografia (p. 33), il V. confessa d’essere appartenuto. — Il dispregio pei glossatori e l’ammirazione per Cuiacio e gli eruditi moderni del diritto romano erano stati determinati a Napoli dall’esempio del maggiore avvocato napoletano di quei tempi: Francesco d’Andrea. — Lionardo di Capua da Bagnoli Irpino (16171695) abitava a Napoli nella stessa parrocchia del V.: l’opera, in cui precipuamente instaurò a Napoli il purismo trecentistico di cui s’è giá discorso, è il famoso Parere sull’incertezza della medicina (Venezia, 1681; Napoli, 1689). — I non meno celebri Progymnasinata di Tommaso Cornelio da Rovito (1614-1684) erano stati ristampati nel 1688 dal libraio Carlo Porpora, la cui bottega, vicinissima a quella di Antonio di Vico, era il principale ritrovo degli « ateisti » sopra ricordati. — I Rudimenti del Gressero sono le Insti lutiones linguae graecae (1596 e molte altre edizz.) di Giacomo Gretser (1561-1623). — Dalle opere del V. pare anche ch’egli si procurasse un’infarinatura di ebraico. — La risoluzione di ab [p. 111 modifica]

bandonare del tutto lo studio del greco e dell’ italiano per perfezionarsi esclusivamente nel latino è posteriore al 1696, tempo in cui il V. poetava ancora in italiano. — Esagerato che egli non volesse mai « pur sapere » il francese. — Il « Nomenclatore di Giunio » è il Nomenclator omnium rerum dell’olandese Adriano Giunio de Jonch (1511-75) pp. 22-4 — Dei tre fratelli D’Andrea, Francesco (1625-98) è il famoso avvocato, ricordato anche dal Redi nel Bacco in Toscana ; Gennaro (1637-1710) fu consigliere del Sacro Reai Consiglio, poi reggente del Collaterale; Gaetano (?-i702), teatino, lettore di filosofia e teologia nella casa dei Santi Apostoli, vescovo di Monopoli. — Di Giuseppe Lucina, anch’egli fervido seguace di Lionardo di Capua, e, per concorde giudizio dei contemporanei, dottissimo e finissimo intenditore di poesia, s’incontrano versi nelle raccolte poetiche del tempo. — « Capuista » ardente, anche nell’affettazione dello scrivere e del parlare, fu Nicola Caravita (1647-1717), avvocato, fiscale della Reai Giurisdizione e lettore di feudi nell’ Universitá. Abitava in una sua casa ai Vergini, ritrovo abituale di quanti a Napoli avevano aderito al movimento d’idee suscitato dal Di Capua e dal Cornelio, non esclusi i cosi detti «ateisti». — I Vari componimenti in onore del viceré Francesco Benavides conte di Santostefano vennero preparati dal 25 gennaio al 14 marzo 1696. Il padre Gherardo De Angelis affermava d’avere udito dal V. che i letterati invitati dal Caravita a collaborare a quella raccolta, « non volendo far essi la seconda figura dove la prima facevasi da un giovane», quale era allora il V., minacciarono una secessione: donde la risoluzione di pubblicare tutti i componimenti, orazione e poesie, senza indicarne gli autori, i cui nomi, per altro, furono aggiunti a penna dal V. medesimo in un esemplare di quel raro opuscolo posseduto a Napoli dalla famiglia De Rosa di Villarosa. — I funerali di Caterina d’Aragona, madre del viceré Medinaceli, furono celebrati nella chiesa del Carmine Maggiore il 26aprile 1697. La lussuosa raccolta commemorativa {Pompe funerali celebrate in Napoli per l’ eccellentissima signora donna Caterina d’ Aragona, ecc.) fu pubblicata dallo stampatore napoletano Carlo Roselli a spese della cittá di Napoli e a cura di Federigo Pappacoda. — Carlo Rossi fu poi collega del V. nell’Accademia palatina del duca di Medinaceli. — Il Cicatelli (?-i703), poi vescovo di Avellino, fu per qualche tempo canonico delegato ai matrimoni presso la curia arcivescovile di Napoli e, in tale qualitá, raccolse. [p. 112 modifica]

nel 1699, il processetto matrimoniale del V. — Oltre quelle del Rossi, del Cicatelli e del V., le Pompe funerali recano un’orazione spagnuola del padre Benedetto Noriega (?-I7o8), poi vescovo di Acerra.

p. 24 — Alla carica di * segretario della cittá » di Napoli, tenuta anche da altri letterati (Giulio Cesare Capaccio, Matteo Egizio, Marco Mondo, ecc.) il V. aspirò nel 1697. Il posto, per altro, fu dato (27 novembre 1697) a Giovanni Brancone. — Il concorso per la cattedra di rettorica nell’universitá di Napoli, resa vacante per la morte del sacerdote Giuseppe Toma, fu bandito nel 1697. Il V., presentatosi il 15 gennaio 1698, tenne la lezione di prova (25 ottobre 1698) sulle prime righe del capitolo 6° del III libro di Quintiliano (« ...quid sii status unde ducatur reus an actor, cum faciant et qui sint...»), ebbe dalla commissione esaminatrice dodici voti favorevoli e dieci contrari (3 gennaio 1699), e il 31 gennaio 1699 fu, con biglietto del viceré Medinaceli, nominato per un quadriennio, salvo nel 1703 a essere confermato nella cattedra. A essa era assegnato uno stipendio di cento ducati annui (425 lire;, piú altrettanti circa, pagati dagli studenti, per le cosi dette «fedi di rettorica». Inoltre, circa quel tempo, il V. apri in casa uno «studio privato», che nel 1720 gli rendeva una settantina di ducati il mese; altri proventi gli procuravano lezioni in casa di giovinetti di taluni buone famiglie; e guadagni straordinari, poesie, iscrizioni e altri lavori letterari per commissione. Insegnò fino al 1701 nell’edificio degli Studi (Museo Nazionale), dal 1701 al 1736 nel convento di San Domenico, dal 1736 al 1741 nuovamente agli Studi.

pp. 24-6 — L’accademia Palatina o di Palazzo reale s’inaugurò il 20 marzo 1698: sospesa nel settembre 1701 per la cosi detta congiura di Macchia, fu sciolta definitivamente nel febbraio 1702. Il V. vi fu aggregato a principio del 1699, e, nel prendere possesso del seggio accademico, recitò la dissertazione Delle cene suntuose de’ romatii, parte d’un largo ciclo di conferenze tenuto da quegli Accademici sulla storia romana da Giulio Cesare al Basso Impero. — Il motivo della sua immensa gratitudine verso Bacone è da riporre sopra tutto in taluni aiuti trovati dal Vico, a proposito della sua teoria sull’origine del linguaggio e della poesia, nel primo capitolo del sesto libro del De augumenlis scientianem. — Il « gran rivolgimento di cose letterarie in Napoli » è da intendere nel senso che, succeduto al Medinaceli, il viceré marchese d’ Escalona, dottis [p. 113 modifica]

simo cultore di filosofia e matematiche, all’ indirizzo umanistico e neopetrarchistico in voga ai tempi d?l Medinaceli, sottentrò quello metafisico-matematico e, piú particolarmente, cartesiano. — Nato a Genova, il filosofo e matematico Paolo Mattia Doria (1666-1746) fin dal 1696 s’era stabilito a Napoli al palazzo d’Angri, assai frequentato dal V., che, cenando, una sera del 1709, presso il Doria con Agostino Ariani, Giacinto de Cristofaro e Nicola Galizia, espose le prime idee del futuro De antiquissima.

pp. 27-3 t — Le sei prolusioni universitarie qui riassunte sono quelle il cui manoscritto (rappresentante, per altro, non il testo primitivo, ma un rifacimento del 1708-9) fu, nel 1725 circa, donato dal V. al padre Antonio da Palazzuolo, e pubblicato nel 1868 dal Galasso e nel 1914 dal Gentile e dal Nicolini. — Della seconda il V. preparò alla fine del 1708 una pubblicazione a parte, che poi non ebbe luogo, con dedica all’allora adolescente Marcello Filomarino. — Il 18 ottobre 1701, data assegnata dal V. alla terza, nessuna prolusione, causa la rivoluzione di Macchia, fu recitata all’ Universitá. Per contrario negli inediti Diari di Antonio Bulifon, alla data del 18 ottobre 1702 (al quale anno il V. non assegna alcuna sua orazione) è detto che, in occasione dell’apertura dell’Universitá, «il signor Giovanni de Vico fe’ una erudita orazione, come lettore di rettorica», alla quale « accodirono li ministri del Collaterale e capirota degli tribunali e lettori ordinari *. — Data vera della quarta orazione è probabilmente il 18 ottobre 1703, giacché il V. vi discorre come di cosa recentissima della riforma dell’Universitá napoletana, che, compiuta con la prammatica del 28febbraio 1703, era stata giá applicata prima dell’apertura dell’anno scolastico 1703-4. Inoltre non a questa quarta prolusione, ma tutt’al piú alla terza (1702) potè intervenire don Felice Lanzina Ulloa da Salamanca, morto, piú che ottantenne, fin dal 30 marzo 1703. — Il caso fortunato, che produsse i primi avanzamenti del futuro Clemente XI, accadde, non neH’accademia degli Umoristi, ma in casa di Cristina di Svezia. — Probabilmente, data della sesta orazione non è il 1707, ma il 1706.

PP- 31-3 — L’orazione recitata nell’inaugurazione dell’anno accademico 1708-9 — alla quale, come scrive la Gazzetta di Napoli, intervenne il viceré Grimani «col suo cameriere maggiore conte dell’Anguillara » e « molti regi ministri » — è il De nostri tempcris studiorum ratione, pubblicato presso il Mosca di Napoli nel marzo o aprile 1709 e recensito dal Journal des sgavans del 1709

G. B. Vico, Opere - v.

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e dai Mémoires de Trévoux del 1712. — Diego Vincenzo Vidania da Huesca (1631-1732) fu in patria lettore nell’universitá Sertoriana, indi grande inquisitore a Barcellona e in Sicilia, finalmente cappellano maggiore del Regno di Napoli e, come tale, prefetto degli Studi. Lasciò inedita un’opera sul Codice giustinianeo , della quale pubblicò anonimo (1713) un saggio, molto lodato da Enrico Brenckmann. Il quale (1680-1736) a principio del 1712 fu anche a Napoli e quasi certamente vi conobbe il V., che fin dal 1710 gli aveva invialo a Firenze un esemplare con dedica del De antiquissima. — Antonio Rinaldi da Napoli (1685-?) era in quel tempo « giovane di studio » dell’amico del V. Basilio Giannelli, per incarico del quale si recò a Firenze (ove si strinse in amicizia col Magliabechi, al quale parlava sovente del V.) a difendere alcune cause della duchessa di San Giovanni, che è il « napoletano magnate >, ricordato, con mutato sesso, dal V. — Domenico Aulisio da Napoli (1639-1717) fu ebraista, grecista, latinista, giureconsulto, filosofo, matematico, medico, professore di diritto nell’universitá di Napoli, maestro di Pietro Giannone, ecc., ed era reputato uno degli uomini piú dotti dei suoi tempi. — La « gran contesa letteraria » a cui accenna il V., e che fu suscitata da una teoria del Di Capua sull’ iride, contro la quale l’Aulisio scoccò un epigramma, ebbe luogo nel 1681 e 1682. Ma la polemica, propaggine di quella piú generale tra capuisti (o antigalenisti) e anticapuisti, ebbe strascichi negli anni posteriori; e del resto ancora nel 1715 il V. viveva sotto l’influsso letterario del Di Capua, la cui Vita di Andrea Cantelmo prese a modello nel De rebus gestis Automi Caraphaei. Quasi pegno della sua riconciliazione con l’Aulisio, il V. gli dedicò nel 1713 il De aequilibrio, cioè appunto un’opera di medicina; e l’Aulisio a sua volta fu nel 1716 favorevolissimo censore civile del ricordato De rebus gestis Antonii Caraphaei.

pp. 33-8 — Nel suo ragionamento sulla calamita, tenuto in casa di Lucio di Sangro (zio del famoso principe di Sansevero), il V. precorse la scoperta, compiuta nel 1804 da un inglese, circa la virtú che ha una sfera magnetica nuotante nel mercurio di rivolgersi intorno al proprio asse e d’indicare, per tal modo, la longitudine e la latitudine. — Prospero Alpino da Marostico (15531617), professore nell’universitá di Padova, scrisse Medicina aegyptiorum (1591), della quale si ha una ristampa con l’aggiunta del De balsamo et rhapontico dello stesso autore e della Medicina indorum di Iacopo Bonti (Liegi, 1745). --La teoria del «lasco e [p. 115 modifica]

stretto » fu svolta dal V. precisamente nel ricordato De aequilibrio corporis anímantium , scritto dopo la pubblicazione del primo libro del De antiquissima, della quale opera costituiva originariamente il secondo libro (il Liber physicus), lavorato tra la fine del 1710 e i principi del 1711. Lasciatolo per allora inedito, il V. voleva pubblicarlo verso la fine del 1735, data approssimativa d’una nuova dedica all’opera al re Carlo di Borbone. Ma sembra che il proposito non venisse attuato, e che lo scritto vedesse la luce postumo in qualcuno dei fascicoli dispersi della rivista napoletana Scelta miscellanea. Comunque, prima del 1799 fu veduto a stampa da Vincenzo Cuoco, il quale, notate le grandi simiglianze fra le teorie mediche dei V. e quelle del Brown, augurava nel 1808 che della monografietta vichiana si facesse una «seconda edizione». — Lucantonio Porzio da Positano (1631-1723) scrisse molte opere di medicina e di matematica e fu a lungo collega del V. nell’universitá di Napoli. — Il De antiquissima italorum sapientia fu concepito originariamente come un compiuto sistema filosofico, abbracciante la metafisica (sola pubblicata) con un’appendice (scritta o abbozzata, ma non pubblicata e oggi dispersa) sulla logica, la filosofia della natura (il Liber physicus o De aequilibrio citato, anch’esso disperso) e la filosofia della pratica {Liber moralis, non mai scritto). Codesto disegno fu poi ripreso e ampliato nel secondo libro della seconda Scienza nuova (1730), ove il V. indagò in qual guisa nei tempi « poetici » o primitivi sorgessero, da un Iato, la metafisica, la logica, la morale, 1’* iconomica » (pedagogia) e la politica, e, dall’altro, la fisica, la « fisica dell’uomo » (anatomia), la cosmografia, l’astronomia, la cronologia e la geografia. — Estensore dei due articoli critici pubblicati dal Giornale de’ letterati d’Italia potè essere Bernardo Trevisán. Certo, era persona dotata d’ ingegno filosofico, e le sue obiezioni non restarono senza intlusso sul posteriore pensiero del V. — I titoli delle repliche del V. suonano rispettivamente: Risposta ... nella quale si sciogliono tre graia opposizioni fatte da un dotto signore, ecc. (Napoli, Mosca, 1711) e Risposta ... all’articolo X del tomo Vili del « Giornale de’ letterati d’ Italia » , ecc. (ivi, 1712). — Nel 1710, quasi contemporaneamente alla pubblicazione del De antiquissima, il V. fu iscritto all’Arcadia col nome di Láufílo Terio. Nel medesimo anno o poco dopo lo si trova lodato « uomo consumatissimo nelle lettere latine, di sublime ingegno e di acre giudizio » ne\\’ Educazione al figlio di Basilio Giannelli (pubbl. postuma nel 1781). Altresí nel 1710 Nicola [p. 116 modifica]

Amenta, nei Rapporti di Parnaso, ricorda che Niccolò Partenio Giannettasio « si affaticava a tutto potere, insieme con G. B. V. ..., di far ritornare in Napoli la pura latina favella». Quattr’anni dopo, Filippo Caravita, in una sua relazione ufficiale sull’Universitá di Napoli, scriveva che la cattedra del V. aveva « frequenza di studenti». Ma circa quel tempo il V. fu preso piu volte di mira dalla musa maccheronica e vernacola del suo amico e, collega universitario e implacabile canzonatore Nicola Capasso (1671-1745), il quale, pur definendolo «severo estimatore de’ vocaboli latini», soleva dipingerlo come un « pedantazzo » e dargli il crudele nomignolo di « mastro Tisicuzzo ». *Vrai pedani », infine, to.a, itvs.le.uae col Capasso e Matteo E.gúrio, uno «dei tre migliori professori d’eloquenza che fossero a Napoli, il V. è detto in un rapporto del conte Solaro de Breille, ambasciatore piemontese a Napoli, del 24 novembre 1719.

pp. 38-9 — Il De rebus gestis Antonii Caraphaei , in cui il V. seppe pure non tradire la veritá, quantunque il Carafa (1646-93) si fosse reso tristamente celebre per la sua efferatezza nella crudelissima repressione dell’ Ungheria, fu composto su una gran copia di documenti inediti (lettere, memoriali, ecc.) forniti dal giovane Adriano Antonio Carafa (1696-?), del quale il V. era precettore, e per le cui nozze con Teresa Borghese (1719) promosse e curò una elegante raccolta poetica. Quale compenso per la sua fatica, pare che il V. avesse mille ducati, coi quali si dice maritasse la figliuola Luisa. — Dell’abitudine del V. di lavorare «in mezzo agli strepiti domestici » resta documento un brano del De constantia philologiae, in cui è riferita un’ingenua osservazione del piccolo Gennaro Vico, còlta a volo dal padre mentre elaborava la teoria che i poeti e i fanciulli * omnia fere, vehewenter aliquo dffeclu commoti, proloquuntur » . — Il breve di Clemente XI (16 gennaio 1717) è diretto al giovane Carafa. In una copia di pugno del V., tuttora esistente, sono sottolineate alcune parole (« aeternis literarum monumentisi ), che, alquanto artificiosamente, egli tirò a particolare elogio del suo libro. — I rapporti del V. col Gravina risalivano, forse, alla sua prima giovinezza e, in ogni caso, erano giá cordiali nel 1712, anno in cui il primo, quale censore civile, scrisse un entusiastico parere delle Tragedie del secondo. Fiú volte, del resto, in casa di amici comuni, il V. soleva vedere il Gravina, che, nelle sue annuali gite a Napoli, conduceva con sé il giovanissimo Metastasio, che può anche darsi, secondo narra [p. 117 modifica]

qualche biografo, avesse un innocente amore da adolescente con la Luisa Vico, e che, a ogni modo, restò nei migliori rapporti col V. anche quando, dopo la morte del Gravina (1718), si ritirò a Napoli ed esercitò la pratica forense in casa dell’altro amico del V. Giovanni Antonio Castagnola (?-i76i).

pp. 39-44 — Il De iure belli et pacis era stato giá letto dal V. per lo meno dal 1708: lo rilesse bensí nel 1715 con altra preparazione e disposizione; donde l’effetto portentoso di quella lettura. — Non si conosce alcuna edizione di Grozio pubblicata a Napoli tra il 1717 e il 1718, tempo in cui il V. attese al suo commento, poi intermesso e oggi smarrito. Come prefazione al quale si soleva additare un frammento pubblicato primamente dal Ferrari, che s’è poi rivelato commiato d’un piú ampio svolgimento, parimente disperso, della dispersa prolusione universitaria del 1719 (18 ottobre). Recitata la quale, il V., fu esortato da Gaetano Argento (1660-1730) e dal nipote di costui Francesco Ventura (P-I759) a svolgerla piú ampiamente in una trattazione organica, che, dopo il disperso abbozzo ora ricordato, fu il Diritto universale , dedicato precisamente al Ventura. — Il «saggio dato fuori l’anno 1720» (qualche giorno prima del luglio) è un foglio volante senza titolo, conosciuto col nome di Sinapsi del Diritto universale. Coloro che ne dettero a Napoli «giudizi svantaggiosi» (gli stessi che avevano criticata la prolusione del 1719 e criticarono poi il Diritto universale ) furono, probabilmente, il Capasso, la sua creatura Domenico Gentile, Pietro de Turris e qualche altro tra coloro che s’apparecchiavano a concorrere contro il V. alla cattedra di diritto civile della mattina. Tra siffatti malevoli non s’ha motivo di porre Pietro Giannone, i cui rapporti co V. dovevano allora essere buoni, dal momento che Gherardo degli Angioli, molti decenni dopo, consigliava a Francesco Daniele d’ispirarsi, per l’esercizio dell’avvocheria, ai « brievi e chiari di Niccolò de’ Caraviti arringhi E del Giannon, cui sol il Vico udiva»; e il Giannone, dal canto suo, nell’ Istoria civile (1723), lodava il V. come «valente professore d’eloquenza». — Le «difficoltá filologiche » del Salvini si riferivano all’etimologia vichiana della parola «areopago». — Francesco Valletta (1680-1760), fu archeologo e alto magistrato: suo nonno Giuseppe (1636-1714) era stato tra coloro che maggiormente avevano esortato il V. giovanetto agli studi. La sua famosa biblioteca, che nel 1719 fu offerta indarno a Vittorio Amedeo II di Savoia e nel 1722 era per esulare d’Italia,

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venne acquistata ne 1727 dai padri oratoriani di Napoli, previo apprezzo del V. — Il giurista Ulrico Huber era morto fin dal 1694, e di lui, cosi come del Tomasio, il Ghemmingen citava dottrine che erano nei loro libri, non osservazioni sull’opera del V., come potrebbe sembrare dall’ Autobiografia. — Il De uno vide la luce alla fine dell’agosto 1720; il De constantia alla fine dell’agosto 1721; e l’uno e l’altro, insieme con le Notae (1722), sogliono essere chiamati col nome complessivo, derivante dallo stesso V., di Diritto universale. — Delle censure orali contro l’opera talune erano d’indole religiosa; i piú, per altro, rimproveravano al V. (e non del tutto a torto) la sua soverchia oscurezza. Tra costoro fu il padre Sebastiano Paoli lucchese, il quale su d’un esemplare donatogli dall’autore scrisse: « Culpa mea est, solus si non capto tua dieta; Culpa tua est, nono si tua dieta capii » . — Gli «uomini dottissimi», che a Napoli lodarono pubblicamente il libro, furono il padre Giacco, Giovanni Chiaíese, Aniello Spagnuolo e Biagio Garofalo. — La lettera del «Clerico», cioè del ginevrino Giovanili Ledere (1657-1736), fu, per desiderio del V., ripubblicata anche a principio della terza Scienza nuova (1744).

pp. 44-8 — Veramente la «cattedra primaria mattutina di leggi» (retribuita con 600 ducati l’anno) vacava fin dal 1717, anno in cui il Capasso, che l’occupava, passò a quella « vespertina » (retribuita con ixoo ducati). Da vari luoghi d Autobiografia e del Carteggio risulta che il V. prese a lavorare il Diritto universale appunto per presentare un « titolo giuridico » al futuro concorso, bandito il 19 gennaio 1723, e non solo per il ius civile della mattina, ma anche per altre sette cattedre giuridiche, parirnente vacanti. Il V., iscrittosi, primo fra tutti, il 24 gennaio, e 3cui toccò come teina (9 aprile) un frammento delle Quaestiones di Papiniano {Digesto, XIX, 5, 1), tenne la lezione di prova il giorno seguente nel convento domenicano sito nella strada di San Tommaso d’Aquino. Senouché, mentr’egli parlava, ignorava ancora che, in seno alla commissione giudicatrice, s’erano formati due partiti avversi, risoluti a combattersi a vicenda: l’uno (sostenuto dal viceré d’Althann, che, a quanto affermava anni dopo Bartolomeo Intieri, intervenne nel concorso con la «violenza») pel giá ricordato Domenico Gentile da Bari (?-i739), grande insectator puellarum, perciò soprannominato « calamitulus » o «ganimede», e che l’ Intieri, in occasione della sua morte, avvenuta per suicidio, definiva «sfacciato» e «pazzo»; l’altro, per Pietro Antonio [p. 119 modifica]

de Turris (1661-1739), giá emulo del V. nel concorso alla cattedra di rettorica, e soprannominato a sua volta « il satiro cornuto». Alla tardiva conoscenza di codesto dietroscena alludono certamente le parole dell’ Autobiografia-. « fatto egli accorto dell’ infelice evento»; e, stando cosi le cose, si spiega perfettamente perché da Domenico Caravita, figlio di Niccolò (16701770), fosse consigliato a desistere dal concorso. Dovè per altro presentare la sua desistenza (che non è negli atti) semplicemente a voce, e pertanto fu egualmente scrutinato e, com’era da prevedere, « bocciato * all’unanimitá. Giacché i due partiti contendenti non fecero andar disperso nemmeno un voto: in guisa che, su ventinove votanti, quattordici furono pel De Turris, quindici pel Gentile, che ebbe la cattedra. Il fatto, quantunque non insueto, suscitò qualche scandalo, da cui prese occasione un Domenico Migliaccio, nemico del Capasso (capo del partito che sosteneva il Gentile), per iscagliare contro lui, il Gentile e il De Turris, e in difesa del V., una violentissima poesia latina, alla quale il Capasso non seppe rispondere nel merito una parola sola, pago di far rimproverare al Migliaccio dal suo amico latinista Antonio Morlando qualche non elegante costrutto latino. Ciò non ostante, il V. non serbò alcun rancore contro il Capasso, che anzi scelse nel 1732 quale censore civile del De mente heroica. Meno indulgente fu verso il Gentile, al quale certamente allude cosi in un luogo della Scienza nuova prima , ove ricorda, con molta amarezza, le « offese di coloro che amano meglio di non intendere che dimenticarsi » , come in un altro della Scienza nuova seconda , ove satireggia le interpetrazioni volgate che gli « eruditi interpetri della ragion romana insegnano dalle cattedre a’ semplici giovanetti».

pp. 48-9 — L’opera di cui qui si discorre è la cosi detta Scienza nuova in forma negativa , iniziata poco dopo la disavventura universitaria dell’aprile 1723 e giá a buon punto nell’ottobre. Un anno appresso, mercé i buoni uffici di Biagio Garofalo e del medico Francesco Buonocore, il V. otteneva che la dedica della nuova opera fosse accettata dal Cardinal Lorenzo Corsini (il futuro Clemente XII): accettazione che, giusta l’uso del tempo, implicava il tacito impegno a sopperire, almeno in parte, alle spese di stampa. Senonché, quando nel giugno 1725 il V. ebbe compiuta la sua fatica nel manoscritto e sollecitò il Corsini a mantenere la tacita promessa, la risposta fu quella che si legge a pp. 183-4 del presente volume. E il ms. della Scienza nuova negativa [p. 120 modifica]

fu nel 1729 offerto dal V. al padre Lodoli, restituito nel 1730 all’autore, donato nel 1731 (cosi almeno afferma il Villarosa) a Francesco Solla: dopo di che non se n’è saputo piú nulla. — Giulio Niccolò Torno (1672-1756), canonico della cattedrale di Napoli, fu dal Diritto universale in poi, revisore ecclesiastico di tutte le opere del V. Nel 1723 scrisse un voluminoso trattato contro l’ Istoria ciznle del Giannone, il quale, sebbene restato inedito, valse forse a rendere cattive le relazioni tra il Giannone e il Nostro. D’altra parte, la fraterna amicizia tra il V. e il Torno mostra priva d’ogni fondamento la leggenda (raccolta dal Cuoco) che l’oscuritá della Scienza nuova fosse voluta dall’autore per nascondere il suo vero pensiero alla curia arcivescovile di Napoli. Falsa altresi l’altra leggenda (raccolta dal Rogadei), secondo la quale l’oscuritá del V. sarebbe derivata da « artifici dell’autore per non togliere la necessitá della sua viva voce » e dal desiderio « che la sua opera avesse dovuto avere piú conienti che non ne ebbe san Tommaso». Che anzi scopo precipuo del V. nel rielaborare nove volte (dal Diritto universale all’ultima Scienza nuova ) le sue scoperte filosofiche e storiche fu precisamente un’irraggiungibile chiarezza; e la ragione vera dell’oscuritá, che, ciò non ostante, rimase e si fece piú fitta, è da ricercare in talune confusioni fondamentali del suo pensiero.

pp. 49-54 — L’opera, riassunta in forma positiva (o meglio totalmente rifatta) dalla Scienza nuova negativa , è la Scienza nuova prima, cominciata a scrivere a principio dell’agosto 1725 e giá pubblicata il 18 ottobre dello stesso anno. L’« elogio», con cui il V. «l’indirizzò alle universitá di Europa», è la dedica epigrafica alle «accademie di Europa», che segue, nell’edizione originale, a quella epistolare al Corsini (quella stessa preparata per la Scienza nuova negativa ), e che, nei vari esemplari postillati dal V. medesimo, fu cancellata. — A proposito della lettera del Corsini al V. (p. 53 e cfr. Carteggio, lett. xxxvin) è da osservare che il Corsini, senza nemmeno leggere l’esemplare in carta distinta e magnificamente rilegato inviatogli dall’autore, s’affrettò a donarlo al marchese Alessandro Gregorio Capponi, che, alla sua morte, lo lasciò con la restante sua biblioteca alla Vaticana, ove tuttora si serba, con l’annotazione nel recto della prima pagina: « Dato a me A. G. C. dall’em.mo Corsini prima per considerarlo e poi in dono, decembre 1725».

PP- 55’6 — L’ebreo livornese Giuseppe Athias, appartenente [p. 121 modifica]

a una famiglia emigrata dalla Spagna in Olanda e dall’Olanda in Italia, fu in rapporti epistolari anche con altri letterati italiani, tra cui il Magliabechi. Ma non egli, bensí lo stampatore ed ebraista Giuseppe ben Abraham Athias da Cordova (m. ad Amsterdam nel 1700) pubblicò la famosa edizione del testo ebraico del Vecchio Testamento ricordata dal V. (prima ediz., 1661; seconda, 1667). — Il Ledere non era giá morto, ma, come il V. pensava, per la grave etá aveva smesso gli studi e la corrispondenza letteraria.

pp. 56-9 — Filippo V venne a Napoli il 17 aprile 1702 e ne riparti il 2 giugno. Pertanto l’ incarico di scrivere « Universitatis nomine » il Pancgyricus fu dato al V. il 24 maggio. — Il duca d’ Escalona era don Giovanni Emanuele Fernandes Pacecho, ultimo viceré spagnuolo di Napoli: il 19 decembre 1704 tenne a Palazzo reale, pel compleanno di Filippo V, una solenne accademia poetica, alla tinaie partecipò il V. — Il V. aveva conosciuto Serafino Biscardi da Cosenza (1643-1711), avvocato famoso e dal 1700al 1707 reggente del Collaterale, fin dalla puerizia, nello studio notarile d’un suo fratello, chiamato Giuseppe (1661-1713?). — Prima di scrivere il Panegyricus, il V. aveva preparata (marzo 1702), parimente per incarico ufficiale, una storia della congiura detta di Macchia ( De parthenopea coniuratione), restata per allora inedita (fu pubblicata primamente dal Ferrari), perché, sembra, non piacque all’autoritá politica, la quale, a ogni modo, ne scelse un’altra, scritta da Carlo Maiello. — La traslazione nella chiesa di San Domenico Maggiore delle salme di Giuseppe Capece e Carlo di Sangro (le vittime piú cospicue della congiura di Macchia) ebbe luogo il 23 febbraio 1708: i funerali veri e propri, il 24. L’opuscolo commemorativo (Napoli, 1708) contiene una dedica epigrafica a Carlo d’Austria, firmata dal Daun, ma scritta dal V.; una descrizione dei funerali, scritta parimente dal V.; l’orazione del Laudati; una riproduzione in rame dell’altare, del tumulo e di quattordici quadri allegorici, dipinti sotto la direzione del V., piú parecchi suoi scritti poetici ed epigrafici. — Il Laudati, per lunghi anni priore del convento napoletano dei Santi Severino e Sossio, fu revisore ecclesiastico del De antiquissima e delle due Risposte al Giornale de’ letterati-, era ancor vivo nel 1720, anno in cui recitò un’orazione in morte di Virginia Pignatelli in Bonito, commemorata anche dal V. — I funerali di Giuseppe I ebbero luogo nella cappella del Palazzo reale dal 12 al 20 maggio 1711. — Quelli [p. 122 modifica]

di Eleonora Maddalona di Neuburg, vedova di Leopoldo I e madre di Carlo VI, furono celebrati nelle principali chiese di Napoli, compresa la cappella del Palazzo reale, tra gli ultimi giorni del febbraio e i primi del marzo 1720. L’« avversa fortuna» colpi il V. net senso che, quantunque l’incarico di comporre le iscrizioni fosse stato dato a lui, si elevarono quelle scritte da un altro, che fu probabilmente il suo amico Matteo Egizio (1674-1745). — Il Cardinal di Schrottembach fu viceré di Napoli dal 22 agosto 1719 al 15aprile 1721: il suo favorito, avvocato Niccolò d’ Afflitto, è conosciuto sopra tutto perché avversario di Pietro Giannone in una clamorosa causa contro il vescovato di Lecce (1715).

pp. 59-60 — Giambattista Filomarino della Rocca (poi al tempo di Carlo di Borbone ambasciatore napoletano in Ispagna) era stato, adolescente, discepolo del V., che nel 1722 tenne anche nella storica casa abitata da lui (il piano nobile del palazzo Filomarino, in via Trinitá Maggiore, n. 12) una conferenza sui principi fondamentali della futura Scienza nuova. — Anna d’Aspermont in d’Althann era morta a Vienna, di settantotto anni, il 13 decembre 1723: suo figlio Cardinal Michele Federico d’Althann (1682-1734) fu viceré di Napoli dal 1722 al 1728. — Francesco Santoro, nominato nel 1722 giudice di Vicaria e segretario del Regno, poi, pel favore del D’Althann, presidente e fiscale della Sommaria e addirittura reggente del Collaterale, fu destituito, quale « austriacante », al tempo di Carlo di Borbone. — Il « genero » del V. era Antonio Servillo, di cui si discorrerá piú appresso. — Antonio Caracciolo marchese dell’Amorosa fu reggente della Gran Corte della Vicaria (e, come tale, prefetto di polizia della cittá di Napoli) dal 1718 al 1724, sotto i viceré conte di Gallas, Marcantonio Borghese, Schrottembach e D’Althann. Il V. si sdebitò anche con lui, inserendo tre sonetti nella raccolta pubblicata per le nozze d’una figlia del Caracciolo (Laura) con Andrea Coppola di Canzano (1725). — Giuseppe Caracciolo dei marchesi di Santeramo era zio di Vittoria Caracciolo, moglie di Giambattista Filomarino: donde la sua amicizia col V.

pp. 61-2 — L’orazione per la Cimmino (n. a Napoli nel 1699, sposata ad Andrea Caputo marchese della Petrella, morta di parto nel 1726) fu stampata nella raccolta: Ultimi onori di letterati amici in onore di Angiola Cimini, ecc. (Napoli, 1727). Le «conversazioni» in casa di lei si tenevano ogni giorno sull’ imbrunire; e i « dotti uomini », che vi convenivano, erano, oltre il V., assiduis [p. 123 modifica]

simo, e stato giá, con Paolo Mattia Doria e Ferdinando d’Ambrosio, maestro della Cimmino, Marcello Filomarino, Paolo di Sangro (padre di Raimondo), padre Giacomo Filippo Gatti, Nicola de Crescenzo, Cario di Mauro, Francesco Valletta, Giacinto Maria Iannucci, Aniello Spagnuolo, Nicola Lombardi (noto come scrittore dialettale e autore della Ciucceide), Paolo de Matteis (che dipinse il ritratto di donn’Angela) e, tra altri, il discepolo prediletto del V r ., Gherardo degli Angioli da Eboli (1705 -88), allora non ancora frate, anzi, sembra, innamorato della bellissima padrona di casa, della quale, del resto, s’innamoravano un po’ tutti. E appunto il Degli Angioli, in un suo volumetto commemorativo della Cimmino (Firenze, 172S), narra d’aver veduto il V. « Presso alla bella spoglia Piagner molto, e chinar la savia testa E baciarle il piè destro E il manco, come soglia, Far di sante reliquie »; e ricorda che, per qualche tempo, il filosofo, nelle quotidiane passeggiate con lui, continuò a volgere, senz’awedersene, « il tardo piede» verso «il bel palagio», sede un tempo di tanta gioia, e divenuto, «poi ch’ella fuor n’uscio», una tomba. Sola voce discorde quella di Francesco Vespoli, che contro la giá morta Cimmino e i collaboratori degli Ultimi onori scrisse una violenta satira, ove il V. vien presentato « stralunato e smunto Con la ferola in mano ».-— Del Sostegni s’hanno versi al V., tra i quali un distico piú volte pubblicato sotto il ritratto del Nostro. La sua morte accadde dopo il decembre 1729, tempo in cui il V. lo ricorda, come ancora vivo, in una lettera.

p. 62 — Giovan Artico di Porcia o Porzia (1682-1743), autore delle tragedie Medea (1721) e Seiano (1722), fu poi (1736) condottiero di gente d’armi della Serenissima. Suo fratello Leandro (1673-1740), vescovo di Bergamo e cardinale, aspirò due volte (1730 e 1740) al papato. — È assai probabile che l’idea d’invitare i letterati italiani a scrivere la propria autobiografia secondo il disegno riferito nel testo fosse suggerita al Porcia dal Conti, che potè a sua volta ispirarsi a una lettera in lode di esso Conti, scritta dal Leibniz al Bourguet (22 marzo 1714). In essa, tra l’altro, si mostrava il desiderio che « Ics auteurs nous dannasse»! I’ bis taire de leurs découvertes et les progrès par lesquels ils y soni arrivés » : quella « histoire » appunto, che il Descartes aveva narrata di sé nel Discours de la méthode, tenuto sempre presente dal V. nello scrivere la propria autobiografía, quantunque questa, come mostra la lettera all’Estevan del 12 gennaio 1729, sia espressione d’uno [p. 124 modifica]

stato d’animo nettamente avverso a Cartesio, contro il quale nelV Autobiografia (a differenza che nella Seconda risposta al Giornale de’ letterati e nel De mente fieroica) il V. si mostra insolitamente aggressivo. — Tra gli altri sette napoletani, ai quali il Porcia rivolse invito di scrivere le proprie vite, furono Nicola Cirillo (16711734) e il giá ricordato Paolo Mattia Doria. — L’abate, poi monsignore Giuseppe Luigi Esperti da Barletta, giá avvocato in patria, poi prelato in Roma, viene dipinto dall’abate Ferdinando Galiani come un grandissimo «seccatore». Nei primissimi anni del regno di Carlo Borbone ebbe noie politiche quale «austriacante». — L’abate Lorenzo Ciccarelli è quello stesso che circa quel tempo procurò l’edizione napoletana (con la falsa data di Firenze) delle Opere del Boccaccio, nella quale fu pubblicato la prima volta il Commento a Dante.

pp. 62-7 — « Residente veneto » a Napoli era allora Giovanni Zuccato. Il palazzo della residenza veneta, ove il V. si recò parecchie volte, era quello in via Trinitá Maggiore, n. 19, adiacente al ricordato palazzo Filomarino. — Francesco Carlo dei conti Lodoli da Venezia (1690-1771), minore osservante; valentissimo nelle lingue dotte, nelle matematiche e particolarmente nell’architettura; amico del Maffei, del Morgagni, dei due Vallisnieri, e perfino dell’ «empio* Giannone; era revisore ufficiale di tutti i libri che s’ introducevano o si stampavano a Venezia: donde la sua grande autoritá su librai e stampatori veneziani. — Oltre che del V., il notissimo Antonio Conti da Padova (1677-1749) fu altresi grande amico e ammiratore del Giannone, del quale procurò indarno di fare ristampare a Venezia V Istoria civile. Per ben intendere l’accenno della sua lettera agl’ « inglesi », si ricordi che, su proposta del Newton (donde la frase vichiana « salito in alta stima di letteratura appo il Newton»), era stato nominato socio corrispondente della Societá reale di Londra. Del suo « estratto » , ossia recensione, della Scienza nuova inviato in Francia non si sa nulla. Si conosce invece che, quasi al tempo stesso che scriveva al V., indicava la Scienza nuova al Montesquieu, allora di passaggio per Venezia (1728), e che, venuto a Napoli (1729), vi acquistò (se pure non gli fu donato dallo stesso V.) un esemplare dell’opera, che si serba ancora nel castello di La Brède. Da che la leggenda falsissima che il M. copiasse a Venezia il ms. di Annotazioni alla prima Scienza nuova, colá spedito dal V. (ma soltanto un anno dopo che il M. ne era partito) e lo ponesse a profitto né\Y Espili [p. 125 modifica]

des lois. — Le Annotazioni alla Scienza nuova prima furono cominciate a scrivere giá prima del io marzo 1728 e terminate nell’ottobre 1729. — Il Progetto ai letterati d’Italia per scrivere le loro vite fu pubblicato nel primo volume della Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici del Calogerá (Venezia, 1728), immediatamente prima dell’ Autobiografia vichiana.

pp. 67-70 — Chi fosse 1 ’ « ignotus erro » che inviò a Lipsia le notizie sul V. e la Scietiza nuova, riassunte dal Mencken in una sprezzante noterella degli Acta eruditorum , non s’è finora riuscito a sapere. Da quanto ne dicono vagamente lo stesso Mencken e il V. si ricava ch’era amico del Mencken, che dimorava a Napoli, ch’era un * abiectus obscurusque literatulus » , e che aveva inviate quelle notizie d’accordo con « altri pochi » , tra i quali uno che soleva la sera frequentare la casa del V. Da che parrebbe si trattasse, piú che di altro, d’una burla di cattivo gusto, macchinata ai danni di quell’amico di preti e frati ch’era il V. (perciò chiamato «abate») in qualche circolo anticurialistico napoletano, e il cui principale esecutore potrebbe essere, per es., l’abate Giovanni Acampora, con l’ intesa del Capasso. — Le Notae in Acta lipsiensia (Napoli, 1729) si sogliono indicare abitualmente col titolo (che è nell’ « occhio ») di l’i.ndiciae. Di esse esiste una prima stesura inedita, molto piú violenta di quella, violentissima, messa a stampa. — Il medico Domenico Vitolo (morto intorno al 1732) era collega del V. nell’universitá di Napoli, ove fin dal 1685 aveva la cattedra di pratica della medicina secondaria.

pp. 70-6 — Il tipografo Felice Mosca stampò tutte le opere del V. (salvo il De mente heroica e l’ultima redazione della Scienza nuova). — Il ms. delle Annotazioni alla Scienza nuova prima donato al padre Lodovici è andato disperso. Si è ritrovato invece, e lo possiede il dottor Giuseppe Sola, l’esemplare della Scienza nuova prima che accompagnava quelle Annotazioni e che si sarebbe dovuto stampare con esse. Se ne desume che la divisata riedizione si sarebbe dovuta intitolare Principi d’una scienza nuova ecc., in questa seconda edizione di annotazioni accresciuti, e che queste erano 414, di cui 40al primo libro, 172 al secondo, 123 al terzo, 3 al quarto, 66 al quinto, 3 alla Tavola delle tradizioni volgari, 7 a quella delle Discoverte generali. Fra testo e annotazioni, pertanto, si sarebbe avuto un volume di circa mille pagine; e in codesta eccessiva lunghezza è da rinvenire forse l’occasione per cui chi faceva a Venezia « la mercatanzia di cotal ristampa » (forse il libraio Fran [p. 126 modifica]

cesco Pitteri) « usci a trattar col V. come con uomo che dovesse necessariamente farla ivi stampare*. — La comune asserzione che a Venezia si stampasse metá delle ora ricordate Annotazioni è frutto d’un equivoco, e l’affermazione del V. che il ms. inviato al Lodoli nell’ottobre 1729 gli fu restituito a Napoli € dopo sei mesi, ch’era giá stampato piú della mettá di quest’opera », è da intendere nel senso che la restituzione (giugno 1730) ebbe luogo sei mesi dopo la richiesta del ms. (decembre 1729), quand’era stampata a Napoli piú della metá della Scienza nuova seconda. La quale, pubblicata nel decembre 1730, fu concepita primamente come un « trascelto delle Annotazioni e dell’opera » , ossia della Scienza nuova prima e del ms. inviato a Venezia, del quale l’autore doveva serbare presso di sé la minuta o gli appunti, oggi anch’essi smarriti. — I tre luoghi della Scienza nuova prima sono i capitoli 29, 36 e ultimo del terzo libro. — Il giorno di Pasqua capitò, nel 1730, il 9 aprile: cosicché a scrivere la seconda Scienza nuova, diffalcando i giorni in cui fu ammalato, il V. impiegò meno di tre mesi. — L’« emergente nato da Venezia» fu, senza dubbio, una lettera conciliativa del Lodoli. — Della Novella letteraria furon mandati al macero tutti gli esemplari, senza che finora ne sia venuto fuori un solo. — L ’Idea dell’opera nell’ediz. del 1730 è stampata in corpo molto piú grosso del rimanente, e occupa 86 pagine, cioè i 43 fogli che dice il V. — L’« epidemia del catarro» fu una grippe che infestò tutta l’Europa nell’inverno 1729-30. — La lettera al letterato, filosofo, matematico, naturalista, giá discepolo privato del V., Francesco Spinelli principe della Scalea (1686-1752), insieme con le Correzioni, miglioramenti e aggiunte seconde, fu stampata nel gennaio 1731 in un opuscoletto di XII pagine s. 1 . a., che si trova unito a parecchi esemplari della Scienza nuova nell’edizione del 1730. — Quelle, che mentre il V’. scriveva l’ Aggiunta all’Autobiografia erano ancora «poche note», divennero, moltiplicate di numero e di mole, le Correzioni, miglioramenti e aggiunte terze, compiute il 31 agosto 1731, rifatte nel 1733 o 1734, e finalmente rifuse nel 1735 o 1736 nella cosi detta Scienza nuova terza, pubblicata postuma nel 1744.

pp. 76-7 — Il Cardinal Lorenzo Corsini fu eletto papa il 12 luglio 1730: ai festeggiamenti che si fecero a Napoli in quella circostanza partecipò anche il V., pubblicando in elegante opuscolo una sua canzone elogiativa. L’esemplare (magnificamente rilegato) della seconda Scienza nuova inviato dal V. al Corsini si serba nella [p. 127 modifica]

Corsiniana di Roma. — Il gesuita Domenico Lodovico da Termini presso Aquila (1676-1745) professò rettorica e filosofia, fu maestro dei novizi, rettore a Napoli, provinciale, ed ebbe rapporti letterari con molti dotti, tra cui il Muratori. Di lui furono pubblicati postumi i Carmina et inscriptiones (Napoli, 1746; Ginevra, 1769), tra cui è un distico pel ritratto del V., edito giá nell’edizione della Scienza finora del 1744. — Francesco Carafa principe di Colobrano, che nel 1735 collaborò col V. a una raccolta poetica in onore di Alvise Mocenigo, istituí un’accademia detta il Caprario, di cui probabilmente fece parte il V’. Il quale nel 1734 o 1735 fu ascritto altresi all’accademia degli Oziosi, fatta risorgere dal suo amico Nicola Salerni, ma non, come si suole affermare, all’altra del Portico della Stadera.

pp. 77‘9 — Documenti del metodo del V. nel suo insegnamento pubblico restano non solo alcune sue prolusioni universitarie (ultima delle quali il De mente heroica, recitata il 18 ottobre 1732), ma anche le cosi dette Institufiones oratoriae : corso di lezioni tenuto all’universitá nel 17 1 1-2 e divenuto, con successivi mutamenti, quasi un testo scolastico, ancora studiato a Napoli alla fine. del Settecento. — Fiorentissimo altresí il suo « studio privato», frequentato nei suoi anni migliori da circa centocinquanta discepoli. Tra questi: un Giuseppe Tardioli e Carlantonio De Rosa (avo del Villarosa), dei quali si serbano ancora appunti scolastici, talora dettati dal maestro; — Nicola Solla, autore d’una Vita del V. (pubblicata postuma, col nome di Nicola Sala, nel 1830), ove si ricordano e le sue affollatissime lezioni pubbliche, e l’insegnamento privato, nel quale « abbassavasi fino a spiegar Plauto, Terenzio e Tacito », conservando nondimeno, «in questa sua stessa umiliazione, tutta la grandezza del proprio carattere», giacché, avvertiti come di passaggio « i vezzi della lingua, le origini e proprietá delle voci», ecc., bastava che si affacciassero «alla sua niente le immagini delle nostre passioni, a miracolo dipinte in Plauto e Terenzio », perché s’intrattenesse « a scoprire le sorgenti delle umane azioni, e quindi, scorrendo di dovere in dovere, secondo le varie relazioni che noi abbiamo con Dio, con noi medesimi e cogli altri uomini », passasse « a descrivere le prime linee della moral filosofia e del diritto universal delle genti, condotte poscia a miglior lume e dimostrate in pratica sulle acutissime riflessioni di Tacito»; — il giá ricordato Gherardo degli Angioli, che pone tra gli argomenti dell’insegnamento privato del V. [p. 128 modifica]

anche « Grozio, Verulamio, le concordi ragioni dell’uno e dell’altro imperio», cioè i rapporti tra Stato e Chiesa, «e i nuovi pensamenti intorno alla natura e al diritto pubblico delle nazioni»; — Antonio Genovese, che cominciò a frequentare la casa del V. nel 1738 e ne ricorda un mordacissimo detto sulla gente fastosa, che, pur di sfoggiare con cocchi e cavalli, soffre la fame («troppi vi ha che tiran la carrozza colle budella»); — il giureconsulto Aurelio di Gennaro (1701-61), restato, dopo la morte del filosofo, consulente legale della famiglia; — Pasquale Magli, da Martina in provincia di Lecce (poi scrittore di parecchi volumi filosofici e avversario del Genovese), che, venuto la prima volta a Napoli nel 1739, frequentò appunto la scuola privata del V., il quale «si compiacque spiegargli la sua Scienza nuova*-, — Antonio d’Aronne da Morano (?-I78 o) sulla cui Grammatica filosofica, non mai pubblicata, il V. scrisse un « parere » ; — e l’elenco potrebbe continuare per molte pagine, giacché, al dire d’uno storico contemporaneo (1752), i progressi dell’oratoria forense a Napoli furono dovuti precisamente alle « dotte insinuazioni del cotanto rinomato Giambattista Vico, cattedratico di tanti anni per la rettorica». Se non propriamente discepoli, frequentatori ed estimatori del V. furono altresi Ignacio de Luzán, che dal 1729 al 1733 dimorò a Napoli e nella sua Poètica (1737) ricordò la teoria vichiana sugli eroi, citando la Scienza nuova-, e il padre Appiano Buonafede (1716-93), chiamato professore a Napoli nel 1740e che piu tardi rievocava «la memoria del raro poeta, dell’originale storico ed oratore e del profondo giureconsulto, che • — soggiungeva — nella mia prima gioventú conobbi e ammirai e ne raccolsi le ultime voci». — Circa il temperamento collerico del V., uno dei suoi primi critici, Damiano Romano, narra (1744) che, non appena il V. ebbe notizia della prima opera pubblicata dal Romano contro di lui (1736), « non ostante fusse stato da noi col titolo di * dottissimo ’, di ’ celeberrimo ’ e di altri simili trattato, pure ci addentò in maniera che fu di ribrezzo e di orrore a chiunque vi si trovò presente». E, del resto, nel primo getto delle Vindiciae 1’ « ignotus erro » è qualificato a volta a volta « literatus columbellus omtti fiumano sensu desti t ut us » , « turpissivius » , « belino » , « scelestissimus » « imfirobissimus » , « infamis » , « homo vecors nulliusque consilii » , « audax, vanus, mendax, subdolus, fraudolentus, malitiosus et perfidus » , « asinus » e, pour la bonne bouchc, « stercus » . — Quanto poi alla riputazione di pazzo [p. 129 modifica]

che aleggiava intorno al V., un suo avversario, il Finetti, narra (1768) d’aver sentito da un nobile napoletano, per piú anni discepolo del V., che questi « fino a un certo tempo fu presso i suoi napoletani in concetto di uomo veramente dotto, ma poi per le sue stravaganti opinioni generalmente tenuto per pazzo; e, interrogato da me quale gli paresse essere stato allora che diede fuori la sua Scienza nuova : — Oh ! allora — rispose — era giá divenuto affatto pazzo ! » . Altri aneddoti del genere correvano a Napoli ancora a principio dell’Ottocento, come, per es., quello di Nicola Capasso, il quale, letta la Scienza nuova e non avendoci capito nulla, sarebbe corso a farsi tastare il polso da Nicola Cirillo, temendo — avrebbe egli detto burlescamente — che un interno colpo apoplettico gli avesse tolto qualunque esercizio della ragione. Buffoneria, che sarebbe anche stata riferita al V., il quale avrebbe risposto di non avere scritto «pei poetuzzi».

pp. 81-4 — Il V. fu, non piú ricco, ma alquanto meno povero di quanto dice il Villarosa. — La lettera del Corsini sta intera nel Carteggio , pp. 183-4. — Di Teresa Caterina Destito (1678-1757), sposata dal V. nella minuscola chiesetta di Sant’Angelo a Segno il 2 decembre 1699, il V. discorre una sola volta: « Ego uxorem triginta ab bine (1729) annis duxi, quacum concordi adhuc animo vivo ». I figli nati da questo matrimonio furono, veramente, otto:

l. Luisa, n. 17 decembre 1700, sposata (2 ottobre 1717) con Antonio Servillo (n. a Cervinara in Calabria il 6 decembre 1699, m. a Napoli il 31 ottobre 1750) e madre di Marianna (n. a Napoli l’8 decembre 1718), Costantino-Mariano, Giuseppe e Renato (poi teresiano scalzo); — 2. Carmelia Nicoletta, n. 17 luglio 1703, m. a dieci giorni; — 3. Filippa Anna Silvestra, n. 31 decembre 1704,

m. 28 luglio 1705; — 4. Ignazio, n. 31 luglio 1706, sposato (8 febbraio 1730) con Caterina Tomaselli (n. a Napoli il 4 marzo 1710), morto io marzo 1736, lasciando una figlia, Candida Filippa, n. 5 aprile 1731, sposata con Filippo Santaniello e madre (forse tra altri figli) di un Carlo e di un Mercurio; — 5. Angela Teresa, chiamata in famiglia col secondo nome, n. 18 luglio 1709, sposata (28 giugno 1733) con Francesco Antonio Basile (n. a Cosenza nel 1700), e madre d’un Giambattista: — 6. Gennaro I, n. 24 luglio 1712, morto fanciullo; — 7. Gennaro II, n. 26 decembre 1715, 111. nell’agosto 1806; — 8. Filippo, n. 18 febbraio 1720, padre d’una Marianna, maritata con un Serafino De Felice, e madre d’un Giambattista e di cinque femmine di cui s’ignorano i

G. B. Vico, Opere - v.

9 [p. 130 modifica]

nomi. — Luisa, oltre che colta poetessa, conosceva la musica e cantava assai bene: fu amica della letterata Giuseppa Eleonora Barbapiccola, che tradusse i Principi della filosofia del Descartes (1722), non senza, nella prefazione a questo libro, ricordare il V. — Quanto a Ignazio (il figliuol discolo) il racconto del Villarosa non è confermato (ma nemmeno contradetto) dai documenti contemporanei, dai quali appare soltanto: che tra il V. e lui c’erano sensibili differenze di temperamento; che giá nel 1729 il figlio non abitava piú col padre e aveva una tresca con una Grazia Maddalena Pascale; che al suo matrimonio con la Tomaselli, « persona stravagante ed imprudente e di non retti costumi», non intervennero né il V. né Caterina Destito; che, ciò non ostante, il padre gli perdonò e lo tolse in casa con la moglie e la figliuoletta, provvedendo al loro mantenimento; che, quindici giorni dopo la morte d’ Ignazio, il V. cacciò di casa la nuora, continuando per altro a tenere con sé e a educare la nipotina e pupilla Candida; che per questo motivo la Tomaselli iniziò una lite contro il suocero, sospesa poi con una transazione (1737) e ripresa dopo la morte del filosofo. — Lungamente e gravemente ammalato fu non «un’altra figliuola», cioè Angela Teresa, ma un figliuolo, cioè Ignazio, premorto al padre, come s’è visto, a soli trent’anni e nel cui testamento si discorre del V. con parole commoventissime. Il quale Ignazio, (non Filippo, dal 1736 al ’45 chierico regio) mori « officiale » nella Dogana di Napoli.

p. 84 — Sulla nomina del V. a istoriografo regio vedere Carteggio y lett. lxvi e la nota relativa. Di lui, in quanto tale, un aneddoto, che anche ragioni cronologiche mostrano immaginario, fu narrato nel 1793 dal Chiarizia (vero è soltanto che egli scrisse la semplice introduzione, oggi dispersa, a una divisata storia della riconquista borbonica del Regno). Errata altresi la comune affermazione che da istoriografo regio il V. scrivesse nel 1735 il Parere sull’indice numerico di Carlo di Borbone , che è invece del 1734. Né da istoriografo regio, ma quale decano dell’ Universitá, e per incarico di questa, egli compose nel 1738 un’orazione per le nozze del re. E finalmente la sua breve allocuzione a Carlo di Borbone non è frammento d’un’orazione recitata il 4 novembre 1736 in occasione del trasferimento dell’Universitá al Palazzo degli Studi, ma un complimento recitato allorché l’Universitá di Napoli si recò a congratularsi con Carlo di Borbone per la sua elevazione a re autonomo delle Sicilie (giugno 1734). [p. 131 modifica]

pp. 84-6 — La successione di Gennaro Vico alla cattedra paterna fu dovuta, non a Nicola de Rosa vescovo di Pozzuoli, semplice cappellano maggiore interino durante le assenze del cappellano maggiore effettivo Galiani, bensí proprio a quest’ultimo, allora tornato definitivamente da Roma a Napoli. Su quella successione è da tenere presente, oltre la supplica del V. pubblicata nel Carteggio, anche un’altra di Gennaro, del 1797, ove si dice che, nel 1736o 1737, il supplicante, «mal soffrendo di vedere* il padre «trascinarsi per andar a dar lezione d’inverno in tanta distanza» quanta è dal vico delle Zite al Palazzo degli Studi, « gliene dimezzò la fatiga, con incaricarsi prima della dettatura, perché, quando poteva, venisse egli a farne la spiega. Un giorno, mentre dettava, vennegli talento, per liberamelo intieramente, di avventurarne anche la spiegazione ... e Dio gliela benedisse. Bastògli questo primo cimento ... che, tornato in casa, disse a suo padre che avesse pensato solamente a tirar avanti la sua vita e a non piú imbarazzarsi della lezione, narrandogli il tentativo fatto e quanto gli era riuscito felice. Andò a darne parte a monsignor Galliani, allora cappellano maggiore, il quale dimostronne sommo piacere, e d’allora cominciò, forse per ciò che disegnava, a non far passare quasi settimana che non venisse a sentirlo per la spiega in latino, com’è costume; e, per maggiormente esporlo, gli diede l’incarico di far l’orazione per l’apertura de’ studi». Ma quest’orazione inaugurale fu recitata soltanto nel 1741, quando Gennaro ebbe la cattedra in proprietá, e in essa pose le mani anche Giambattista.

pp. 81-2 — Ciò che il Villarosa narra della progressiva e, in ultimo (novembre 1742-gennaio 1744), piena decadenza mentale del V. sembrerebbe trovare conferma in un analogo racconto del Solla, e perfino nella ricordata supplica di Gennaro Vico. Ma sta in fatto che il Genovese, il Magli e il Buonafede, che conobbero il V. nei suoi ultimissimi anni, lo dipingono parlante, ragionante e perfino nell’atto di scoccare detti mordaci. E, eh’ è piú, proprio in quel periodo il V scrisse (decembre 1742 e 1743) due sonetti, continuò a correggere il ms. dell’ultima Scienza nuova, cominciò a rivederne le bozze di stampa (introducendovi qualche piccola giunta), die’ di suo pugno (decembre 1743) le istruzioni pel ritratto da preporre al volume, entrò in corrispondenza col Cardinal Troiano d’Acquaviva per indurlo ad accettare la dedica dell’opera (decembre 1743) e, appena dodici o tredici giorni prima [p. 132 modifica]

di morire (io gennaio 1744), scrisse o dettò questa medesima dedica. Probabilmente, specie dopo la morte del figlio Ignazio, nel V., fino allora «conversevole», si sviluppò una certa tendenza alla misantropia e alla taciturnitá: tendenza che, accentuata dalP incalzare dei tanti mali fisici, dai quali fu sempre oppresso, venne interpetrata dai suoi familiari (nessuno dei quali brillava per eccessiva intelligenza) per una sorta di ottundimento mentale e di senile follia. Comunque, chi lo assistè nei suoi ultimi momenti non fu, come afferma il Villarosa, il padre Palazzuolo, morto fin dal 22 ottobre 1735, bensí il suo «padre spirituale» e confessore abituale don Nicola Merda, parroco di Santa Sofia a Capuana, al quale il V. die’ anche con la maggiore serenitá le disposizioni pei propri funerali. Mori non il 20, ma nella notte tra il 22 e il 23 gennaio 1744, nella giá ricordata casuccia ai Gradini dei Santi Apostoli, n. 1, la quale ancora nel 1806 era occupata dal figlio Gennaro. Lasciò, insieme con un paio di centinaia di ducati di debiti e poche e vecchie masserizie, una collezione di circa cento quadri cinque, sei e settecenteschi, tra i quali il ritratto proprio, della moglie e del figlio Ignazio, dipinti probabilmente tutti tre (come sicuramente il primo) da Francesco Solimena: ritratti che, ereditati da Gennaro e poi dai suoi nipoti Santaniello, andarono, circa il 1819, distrutti dal fuoco. Fortunatamente, il Villarosa, a istanza dell’abate Godard, custode generale dell’Arcadia, aveva precedentemente fatta trarre copia di quello del V.; la quale copia, serbata tuttora in Arcadia, è riprodotta in fronte al presente volume.

pp. 86-7 — L’incidente occorso nei funerali del V. ebbe anche uno strascico giudiziario. Da una memoria scritta da un Niccolò Pierro in difesa del parroco Merda (2 marzo 1744) si ricava che il V. era ascritto alla confraternita di Santa Sofia; onde Gennaro, scelta come luogo di sepoltura la chiesa dei Gerolamini (ove, una trentina d’anni fa, si sono compiute infruttuose ricerche per identificare la salma del filosofo), mandò ad avvertire i confratelli per l’accompagnamento del cadavere. Ma costoro, la mattina del 23gennaio, cominciarono col contendere coi professori universitari, concorsi alle esequie (Giacomo Filippo Gatti, Francesco de Chellis, Francesco Serao e altri), pretendendo di portar essi i fiocchi della coltre; e, riconosciuta ingiusta la loro pretesa anche dal cappellano maggiore Galiani, e stabiliti i funerali per le ore 21 (due pomeridiane) dello stesso giorno, si fecero attendere fino alle [p. 133 modifica]

23(quattro pomeridiane’), rinnovando allora il loro piato e costringendo, per tal modo, Gennaro, egli stesso professore universitario, a cedere e gli altri cattedratici a « scusarsi onestamente » e ad andar via. Restati cosi padroni del campo, trasportarono, borbottando in fretta poche preci, il cadavere nel cortile, ove, vedendo che il Merda, per rendere almeno lui un po’ d’onore al suo grande figliano, si disponeva ad accompagnare la bara con la cotta e la stola, vi si opposero con pretesti senza fondamento, e alle pacate osservazioni del parroco risposero con lo spegnere le candele, abbandonare la salma nel cortile e andarsene pronunciando ingiurie e minacce. Al Merola non restò se non inviare le proprie discolpe a Gennaro, il quale, fatto risalire sú il cadavere e tenuto un piccolo consiglio di familiari e amici, deliberò di far di meno della congregazione di Santa Sofia e invitare invece i canonici della cattedrale. Con l’intervento dei quali e di tutti i professori universitari (e anche con gli onori di «conte palatino», che spettavano ai professori universitari che avevano insegnato oltre venti anni), i funerali ebbero luogo con gran decoro la mattina del 24. Fu tale, anzi, il disgusto di Gennaro per quella mascalzonata, che nel suo testamento (1805) stabili che le sue esequie si facessero dai canonici del Duomo, vietando assolutatamente « l’associazione di qualunque confraternita o congregazione*. — Una breve necrologia del V. fu inviata, non si sa da chi, prima del giugno 1744, a Giovanni Lami, che la inserí nelle Novelle letterarie del 1745.

p. 88 — Sull’aspetto fisico e sul carattere del V. scrive il Solla: «Fu la sua statura delle mediocri, l’abito del corpo adusto, il naso aquilino, e gli occhi vivi e penetranti, dal cui fuoco avrebbe ognuno potuto facilmente comprendere qual fosse la forza e l’energia di sua vigorosa mente. Contribuí alla sublimitá e speditezza dell’ingegno il suo collerico temperamento. Amava i suoi con eccesso di tenerezza, contento piuttosto di una rispettosa amicizia che d’un servile timore... Non disgiunse mai da’ suoi studi quello della pietá, e, piú che colla voce, provò colla probitá de’ costumi che, * se non siasi pio, non si può daddovero esser saggio parole memorabili, colle quali egli chiuse la sua Scienza nuova. Era anzi si persuaso della veritá della nostra religione, che dir soleva a’ suoi piú confidenti dover l’eccellenza sola della moral cristiana servir ad ognuno per sincero argomento della sua divinitá, quando eziandio mancassero quelle incontrastabili ragioni, [p. 134 modifica]

le quali evidentissima rendono la veritá della rivelazione». — Amava molto la pittura e la musica, e suoi svaghi prediletti erano precisamente l’ascoltare musica e, fin da bambino, il passeggiare (egli stesso ricorda che i « molli clivi » napoletani sembravano a lui, fanciullo, montagne altissime). Mèta delle passeggiate nei suoi ultimi anni fu una villa a Mergellina, posseduta dal suo amico e collega universitario Agostino Ariani (1672-1748), e ancora nel 1782, al dir d’un figlinolo dell’ Ariani, si vedevano nella strada che vi conduceva quattro cipressi piantati dall’Ariani « in compagnia del sacerdote don Gaetano Mari, giá primario lettore di teologia e di canoni nella regia Universitá, di G. B. Vico e di Silverio Cestari * .

Per maggiori sviluppi e per la documentazione delle notizie qui riassunte vedere:

Marchese ni Villarosa, Note all’ Autobiografia del V., in Vico, Opuscoli , voi. I (Napoli, 1818).

Benedetto Croce, Bibliografia vichiana coi quattro Supplementi finora pubblicati (Bari, Laterza, 19H; Critica , XV-XIX, 1917-21; Napoli, 1927, estr. dagli Atti della R. Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli)-, — Note all’ Autobiografia e al Carteggio del V., nella prima ediz. del presente volume (Bari, Laterza, 191 1); — La filosofia di G. B. Vico, (Bari, Laterza, 1911; seconda edÌ2., accresciuta, ivi, 1922); — Nuove curiositá storiche (Napoli, Ricciardi, 1922), pp. 123-52; — Uomini e cose della vecchia Italia, serie prima (Bari, Laterza, 1927), pp. 234-71.

Giovanni Gentile, Studi vichiani (Messina, Principato, 1915; seconda ediz., accresciuta, Firenze, Lemonnier, 1927).

Fausto Nicolini, Appendice alla Bibliografia vichiana di B. Croce (Bari, Laterza, 1911); — Introduzione a G. B. Vico, Scienza nuova (Bari, Laterza, 1911-16); — Spigolature vichiane, in Scritti vari in onore di Rodolfo Renier (Torino, Loescher, 1912); — Una visita di G. N. Bandiera e G. B. Vico (Siena, 1916, estr. dal Ballettino senese di storia patria ); — Vita di G. B. Vico, in Giornale critico della filosofia italiana, VI (1925); — Per la biografia di G. B. Vico, aggiunte e postille a\Y Autobiografia, puntata I e II (Firenze, Olschki, 1926 e 1927, estr. dall’^rc bivio storico italiano)-, — G. B. Vico nella vita domestica (Napoli, Ricciardi, 1927, estr. da\V Archivio storico per le Provincie napoletane ); — Curiositá vichiane (Napoli, 1927, estr. dagli Atti dell’Accademia pontaniand)-, — Per una nuova edizione dell’Autobiografia di G. B. Vico, Studi preliminari (Napoli, 1929, estr. dagli Atti della R. Accademici di scienze morali e politiche di Napoli ); — Nuove ricerche sulla vita del [p. 135 modifica]

Vico (Napoli, 1929, estratto c. s.); — Sulla vita ch’ile, letteraria e religiosa napoletana alla fine del Seicento (Napoli, 1929, estratto c. s.). — G. B. Vico epigrafista (in corso di stampa nell’. 4 r elúvio storico per le firovincie napoletane).

Benvenuto Donati, Autografi e documenti vichiani inediti o dispersi (Bologna, Zanichelli, s. a., ina 1921; seconda ediz. parziale, con aggiunte, Modena, 192S).

Francesco Scandone, La cattedra di G. B. Vico nella Universitá dei Regi Studi in Napoli nel Settecento, in Annuario del R. LiceoGinnasio « G. B. Vico », anno scolastico 1927-8 (Santa Maria Capua Vetere, 1928), pp. 18-32; e cfr., per talune giunte e correzioni, una recensione di F. Nicolini, di prossima pubblicazione nel Giornale critico della filosofia italiana. [p. 136 modifica]