L'armata d'Italia/L'armata/VII
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VII
Ed eccoci alla disciplina. L’argomento è arduo. Nella discussion parlamentare sul bilancio della Marina la questione ebbe una parte importante. Qualcuno ci fu, che osò mettere in dubbio la rigidità della disciplina su le navi dello Stato. Il Ministro allora ebbe un impeto di nobile sdegno; l’onorevole Canevaro fece il resto amabilmente; e dinanzi a tanto calor di eloquenza i dubbii si disciolsero come nebbie dinanzi al primo sole. Confesso che, mentre nelli altri miei capitoli ho parlato con apertissima franchezza senza badare né alle ironie degli sciocchi né alle meraviglie degli ingenui né alle indignazioncelle dei farisei, provo in questo un po’ di esitazione e quasi di timore.
La disciplina è sempre stata e sarà pur sempre l’essenziale spirito di tutte le milizie. Mettere in dubbio la bontà della disciplina in una milizia equivale a negare ad una milizia la principalissima delle virtú militari. Come la coesione è una forza fisica inerente alla materia, cosí la disciplina è una forza morale inerente all’esercito. Ambedue le forze sono assolutamente necessarie per costituire l’una cosa e l’altra. Come non è possibile concepire un corpo organizzato senza coesione, cosí non è possibile concepire un esercito senza disciplina.
Ora, che cosa intendiamo noi per disciplina? Una assoluta e cieca obedienza alle insegne del comando o una perfetta armonia di fede e di intenti fra superiori ed inferiori? In somma, una azione fisica o un fenomeno di conscienza?
Nel primo caso, il Ministro della Marina ebbe ragione affermando quel che affermò; nel secondo caso, ebbe torto.
A bordo delle nostre navi la disciplina, che io chiamerò fisica perché fondata su leggi di constrizione, è veramente rigidissima. Negli equipaggi gli atti d’insubordinazione e di rivolta sono assai rari. Il marinaio obedisce ciecamente; è umile, sottomesso, quasi servile.
L’officiale, in genere, fa della sua autorità largo uso. I costumi dell’antico militarismo sono ancor vivi nell’armata. Il comando ha da essere aspro e superbo perché sia efficace; la correzione ha da essere improntata d’ira e di violenza perché sia intesa. La calma e la compostezza non son virtú militari. Tanto piú vien predicato energico un comandante quanto piú terribili e sonori sono gli scoppi della sua collera, quanto piú rudi sono le sue parole.
Queste fiere affermazioni dell’autorità materiale si propagano di grado in grado. In ciascun officiale, per lo più, son due diversi animi: quello umile, deferente, rispettoso, verso il superiore; quello aspro, superbo, arrogante, verso l’inferiore. Chi ha ricevuta una umiliazione cerca, quasi per rappresaglia, d’infliggerla ad altri. E così la disciplina non è più fondata su l’inalzamento morale del più degno ma sull’abbassamento dell’altrui dignità.
⁂
Il Ministero ha, in questa degenerazione, la maggior colpa. Nel Ministero e nelli alti Comandi è invalso l’uso di favorir, contro giustizia, questi e quegli senza ragion di meriti |.
Una specie di regionalismo divide l’armata in due parti. Una parte milita per Ferdinand Acton, un’altra per Benedetto Brin e per Simone di Saint-Bon.
Una quantità di officiali, che sotto il governo dell’Acton era in favore, è oggi direi quasi in disgrazia. Un’altra quantità, ignorata un tempo, è oggi levata al cielo. In ambedue i campi, sono uomini d’alto valore e uomini inetti; ma il fato è comune. Non vale la gioventù, non vale l’astenersi dal parteggiare. Per perdere la fiducia del Ministero e per essere confuso nella volgare schiera de’ mediocri, basta aver avuto al tempo dell’Acton un qualunque ufficio, una qualunque missione, una qualunque promozione.
A pena l’onorevole Racchia occupò il posto di segretario, molti abusi, specialmente di favore, furono troncati con una certa violenza. Officiali che da anni godevano la comodità del vivere in famiglia, stando alla direzione delli arsenali, furono d’improvviso sbalzati e mandati a navigare. Già saliva il plauso alla nobile impresa di rinnovamento; e una circolare terribilissima dichiarava che si sarebber prese molto severe misure contro chiunque avesse osato servirsi di raccomandazioni per ottenere incarichi speciali. Pareva che alfine risorgesse lo spirito della moralità troppo a lungo abbattuto.
Ma la bella fiamma durò poco. Il più energico uomo che abbia oggi la Marina d’Italia, l’uomo che più d’ogni altro ama l’armata, piegò il capo e s’acconciò alla consuetudine. E molti credono, non a torto, che codesta deplorevole sottomissione sia opera del Ministro.
La gran circolare restò lettera morta. E nell’amministrazion militare della Marina seguitò a regnar l’intrigo delle femmine e dei deputati, come in tutti gli altri Ministeri. E le sottili reti dell’intrigo son pur così vaste che non solo abbracciano i superiori gradi ma tutte anche le gerarchie della bassa forza.
Vengono dal Ministero ordini per il tale o per il tal altro marinaio o caporale o sott’officiale. Una raccomandazione efficace trionfa di qualunque misura presa, su quel dato uomo, dai comandanti. L’ampio scudo ministeriale protegge, qualche volta, una illegalità. Nessuno, dal primo delli ammiragli all’ultimo de’ marinai, ignora queste cose. Chi ha una femmina compiacente o un amico potente, se ne vale.
Questa, di grazia, è disciplina?
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A bordo i regolamenti sono variamente interpretati. Ogni comandante ha una diversa interpretazione, secondo la comodità. Da ciò nascono dissapori; e dai dissapori le mancanze: mancanze talvolta gravi.
La vita a bordo è già dura, per sé stessa. La disciplina (non quella fondata su la brutalità dei ferri ma quella fondata su la saggezza, su la fermezza, e su la ragionevolezza) dovrebbe sopra tutto mantener la concordia. Per contro, la vita a bordo si fa talvolta intollerabile, per gli odii e per i litigi.
Il comandante dovrebbe essere la superiore intelligenza e l’anima della sua nave, e dovrebbe portar su ogni cosa la sua vigilanza costante e ad ogni cosa provvedere ed in ogni cosa far sentire la sua azione. Molti comandanti, in vece, non comandano la nave che per uscire e per entrar ne’ porti. Quando hanno fatto questo, credono compiuto il dover loro.
Chi mai si preoccupa delle complicate questioni interne? V’è un officiale per le artiglierie, un altro per la navigazione, un altro per le torpedini, altri vi sono per altri offici; i quali operano, fanno i rapporti e li sottopongono alla firma del comandante. E tutti lesti. Qualche comandante, per esempio, lascia guidar la nave dal suo officiale di rotta; e, sappia o non sappia legger le carte, non ci guarda neppure.
Anzi, in proposito, è da notarsi un fatto importante riguardo alla disciplina.
L’officiale di rotta, per tutto ciò che concerne la condotta nautica della nave, spartisce col comandante la responsabilità. Egli ha l’obbligo d’avvertire il comandante sui pericoli che, a parer suo, la nave può incontrare in una data manovra o in una data rotta; e non rimane scagionato delle conseguenze d’una falsa manovra o d’una rotta erronea, se alle prime rimostranze il comandante non dichiara formalmente d’assumere tutta quanta la responsabilità.
Per tali ragioni l’officiale di rotta vien considerato come la persona più importante, a bordo, dopo il comandante e dopo il secondo.
Ora, per uso antico, il comandante sceglie nel suo Stato Maggiore l’officiale di rotta; e lo sceglie astrazion facendo dall’anzianità e spesso dal grado. Questa preferenza, naturalmente, offende l’amor proprio delli officiali più anziani ed è causa talvolta di gravi discordie e di gravi mancanze disciplinali; poiché l’official di rotta può esigere dall’officiale di guardia una data manovra, e non è certo dolce l’obedienza all’ordine d’un inferiore.
L’official di guardia, su la sua responsabilità, può tenere o non tener conto dell’ordine ricevuto; ma nell’un caso e nell’altro sorge evidente dissapore tra i due officiali.
Quest’uso, che di pieno diritto viene a ledere la prerogativa de’ gradi e la regola della disciplina, dovrebbe essere abbandonato. Ogni officiale ha l’obbligo di saper navigare. Non vi è quindi ragione per cui si debba dar la preferenza all’uno piuttosto che all’altro. Se qualcuno dà prova di non saper fare l’official di rotta, quegli sia espulso dal Corpo, come inetto. Ma il più importante officio di bordo dev’essere affidato al più anziano delli officiali.
⁂
Tutti questi difetti generano, per necessità infrazioni alla disciplina. La regola non s’infrange soltanto con una ribellion d’equipaggi; basta l’atto irriverente d’un officiale verso la principale autorità, o un dissidio tra colleghi, o una trascuratezza nel servizio generale di bordo, o una discussione acre, o una critica ostile dell’operato altrui, o una mormorazione, o un segno di malcontento.
Il marinaio, in mezzo a queste ineguaglianze, è quasi sempre eguale. Obedisce e si lascia gravar di fatiche anche inutili, senza lamentarsi; ma conta i giorni e, pensando alla fine del suo duro servizio, si consola dell’indifferenza che han per lui i capi. Il marinaio non può, naturalmente, amare e stimare i suoi capi, quando non si sente né stimato né amato da loro. La disciplina diventa per lui una specie di schiavitù, a cui egli piega il collo con la pazienza del giumento che sta sotto il giogo. Compie il dover suo, aspettando la liberazione.
Tuttavia, per la tenace fierezza del buon sangue italico, per la nativa generosità della razza, per la santità delle tradizioni, egli si farà serenamente uccidere, quando verrà l’ora, anche sapendo d’esser condotto alla morte senza utilità e senza speranza. E se la sua nave andrà a picco, avrà certo, come quel glorioso Re d’Italia, tutte le bandiere inalberate.